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Tiburtina – San Basilio: tra ecomostri abbandonati e istigazione alla guerra tra poveri

Nelle ultime settimane si sono scritti fiumi di inchiostro su due episodi che ci riguardano molto da vicino: la “rivolta” contro l’assegnazione di una casa popolare a San Basilio e lo sgombero dell’ex Penicillina su via Tiburtina. Proviamo qui a dare il nostro punto di vista su questi due avvenimenti, senza la pretesa di esurirne le tematiche, provando a fornire degli spunti di riflessione.

Iniziamo dal primo, e anche mediaticamente più “rumoroso”, ovvero l’episodio di San Basilio. La triste dinamica dell’evento in sè è stata più che abusata da media di ogni genere, per cui ci sembra qui inutile ripercorrere i fatti. Ci interessa, invece, porre l’accento su alcuni aspetti della vicenda che sono, a nostro avviso, centrali e determinanti.

Partiamo con un balzo indietro nel tempo, esattamente alla fine degli anni ‘50. E’ infatti a questo periodo che risalgono le prime lotte per la casa a San Basilio, quando, tra il 1956 e il 1959, furono costruiti i lotti dal n° 48 al 52. La borgata, costruita appena 15 anni prima, era già contrassegnata da forti problemi abitativi. Appena si conobbero i destinatari delle case appena costruite, i baraccati provenienti dal centro città, montò una grande protesta fra i residenti del posto, anch’essi desiderosi di un’alloggio degno. In una Roma in costante espansione, la dolosa assenza di politiche abitative portava alla competizione per i pochi alloggi disponibili fra abitanti delle borgate, sbaraccati del centro e immigrati dalle zone più depresse d’Italia in cerca di lavoro.

Torniamo adesso ai giorni nostri, anzitutto constestualizzando il clima che si respira in città, e a San Basilio in particolare, sulle case popolari e l’emergenza abitativa. Il famigerato Piano Casa di Lupi ha avviato un processo di alienazione (vendita) del patrimonio pubblico, individuando negli alloggi popolari una delle principali voci su cui tagliare le spese e aumentare la rendita. Come in altre città d’Italia, anche a Roma è iniziato questo infame iter fatto di lettere di morosità, vendite, sfratti, sgomberi. San Basilio è uno dei luoghi al centro di quest’operazione: situato all’interno del Raccordo Anulare, esso presenta un alto numero di immobili da mettere a profitto, pasto prelibato per i pescecani della rendita fondiaria. Il quartiere vive ormai da tempo un’attenzione particolare da parte di amministrazioni ed affaristi vari, che, a colpi di murales e nuove potenziali infrastrutture, stanno già mettendo le basi per la progressiva gentrificazione (espulsione più o meno coatta dei ceti popolari attraverso l’innalzamento del costo della vita) del quartiere. Gli abitanti, storicamente legati alle lotte per il diritto all’abitare, non stanno a guardare: in maniera più o meno organizzata resistono agli sfratti e continuano ad occupare gli stabili vuoti, come da tradizione ormai cinquantennale.

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 (picchetto antisfratto davanti ad una casa popolare, maggio 2015)

In questo quadro si inserisce l’episodio del 6 Dicembre scorso, in cui gli abitanti del palazzo di via Filottrano hanno impedito l’accesso alla famiglia migrante, legittima assegnataria di un appartamento, per difendere la posizione di colui che quell’appartamento, fino a pochi giorni prima, lo occupava.

Senza entrare nel merito della singola storia dello sfrattato e degli assegnatari, gossip che lasciamo a coloro che in questi giorni ci hanno ricamato e speculato sopra, ci soffermiamo su alcuni aspetti che. Anzitutto proprio il fatto che il precedente inquilino era un occupante, costretto, come molti altri, a qesta forzatura perchè non poteva permettersi un tetto dignitoso. In secundis, la strana coincidenza per cui, nonostante a San Basilio ci siano centinaia di case vuote, il Dipartimento per le Politiche Abitative del Comune di Roma, peraltro aperto sostenitore della linea dura nei confronti di inquilini e occupanti, abbia deciso di assegnare proprio quell’appartamento. In terzis, la paradossale modalità per l’entrata in possesso dell’immobile, con una delegazione fatta di funzionari Ater, Polizia Municipale e, forse per la prima volta, la famiglia assegnataria, una modalità senza dubbio provocatoria in quel contesto. Infine la comparsa, guardacaso, dell’episodio sulle prime pagine nazionali nel giro di un’ora, quasi non aspettassero altro che creare il caso della “nuova Gorino”.

Con queste precisazioni è, ovviamente, lungi da noi giustificare o prendere le difese di quasiasi forma di razzismo, che come tale và condannata senza remore; nè tantomeno negare che vi siano alcune situazioni in cui le vicende delle case popolari o delle occupazioni si intrecciano con la criminalità più o meno organizzata, specialmente in un contesto complesso come Roma. Vogliamo bensì sottolineare quelli che, secondo noi, sono stati i veri obiettivi di quell’operazione: provare a guardare la luna, e non il dito.

La macchina del fango mediatica che si è innescata aveva molteplici fini. Di cui i principali erano due: da un lato, il solito soffiare sulla guerra tra poveri, indicando il migrante come colpevole di tutte le situazioni di disagio delle periferie, dalla mancanza di lavoro alla casa passando per l’accesso ai servizi pubblici (e il razzismo diffuso in molti quartieri popolari deriva proprio di questa martellante campagna); dall’altro, criminalizzare chi difende le case popolari ed in generale chi lotta per l’abitare, in questo caso indicandoli come razzisti o spacciatori intenti a difendere il proprio business. Ma anche prepararsi la strada verso un’intensa stagione di sfratti attraverso la divisione degli sfrattandi (il famoso dividi et impera) e testare la “temperatura” di reazione di fronte ad operazioni di questo genere in un quartiere simbolo della lotta per la casa e della difesa collettiva dei bisogni. Non potevano mancare, infine, le futili dichiarazioni dell’amministrazione capitolina, che prima si diverte a sbattere per strada la gente in nome della presunta legalità e poi prova a farsi bella pavoneggiandosi a paladina della giustizia sociale. La realtà però parla d’altro. La Delibera Regionale per l’Emergenza Abitativa, strappata con la lotta dai movimenti quasi 3 anni fa, giace ancora inattuata; sulle migliaia di sfratti esecutivi in città non si è presa una posizione; le delibere di Marino e Tronca per la messa a profitto di occupazioni e spazi sociali sono intatte; la truffa dei Piani di Zona continua a mietere vittime in città. Ci vorrà ben più di una visita di comodo alla famiglia migrante coinvolta in questo fatto di cronaca per far capire da che parte sta l’amministrazione pentastellata.

Vi sono dunque parecchi risvolti significativi dietro all’episodio di qualche giorno fa, esattamente come ve ne sono all’interno di un avvenimento meno eclatante dal punto di vista mediatico, ma strettamente collegato al primo per zona e modalità d’intervento: lo sgombero dell’ ex-Penicillina su via Tiburtina, lo stabile che, durante il corteo dell’8 Settembre per I 42 anni dalla morte di Fabrizio Ceruso, avevamo segnalato, indicando l’unica strada percorribile: esproprio, bonifica, restituzione alla collettività.

L'obiettivo del blitz delle forze dell'ordine, all'interno dello scheletro che fino alla metà degli anni '90 ospitava “uno degli stabilimenti più all’avanguardia d’Europa” per la produzione chimica di penicillina e non solo, era quello di sgomberare gli occupanti che da anni abitavano in una parte dell'edificio. Proprio qualche settimana fa vari esponenti dell’estrema destra romana avevano messo in campo la solita pantomima dell’entrata nello stabile con trasmissioni televisive compiacenti per speculare sul disagio di chi vive una condizione disperata per mancanza di politiche degne.

Quello di cui non parlano i media, e tanto meno le amministrazioni, è il vero problema che rappresenta quel rudere: l’ex fabbrica, infatti, al suo interno custodisce ancora molti dei materiali che all’epoca venivano prodotti, ovvero una gran quantita di rifiuti speciali che rendono il luogo un vero ecomostro. Proprio la presenza di tali rifiuti rendono quello stabile di scarsa appetibilità per gli squali del mattone, poichè la sola bonifica costerebbe svariati milioni di euro.

Anche in questo caso, come in molti altri sulla Tiburtina dallo sgombero della baraccopoli di Ponte Mammolo in poi, si continua a perpetrare un meccanismo perverso: attuare operazioni di presunto “decoro” per scopi economici ed elettorali, da qualche tempo addirittura su “invito” delle organizzazioni di estrema destra, senza minimamente curarsi del disagio creato e della fugacità della soluzione prospettata. In mancanza della volontà politica di prendere in mano questa come tante altre situazioni, si attuano interventi spot che non risolvono nè il problema degli occupanti nè del riutilizzo dello stabile, lasciando che la situazione torni, in meno di 48 ore, esattamente come prima. Almeno finchè il prossimo politicante di turno non deciderà di farci un’altro pò di propaganda, magari con l’aiuto dei soliti media compiacenti.

 

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Segnalazione dell’ex-Penicillina al corteo per Fabrizio Ceruso, settembre 2016

L’analisi di questi due episodi ci impone alcune considerazioni. Anzitutto che la storia si ripete, e probabilmente continuerà a ripetersi. A distanza di più di 40 anni, la mancanza di politiche abitative degne continua a creare competizione fra gli sfruttati per l’accesso alla casa. Nella storia di San Basilio i competitori hanno assunto le forme più varie, dai baraccati del centro ai meridionali passando, come nel 1974, per gli assegnatari delle case popolari. Oggi, complice la campagna mediatica di creazione del capro espiatorio, è il migrante l’avversario per l’accesso ai servizi essenziali. I quartieri periferici romani sono al centro della contraddizione, presi tra I “fuochi” del disagio quotidiano e della continua istigazione alla guerra tra poveri. Se non si riuscirà ad intervenire ed essere protagonisti in questi contesti, saranno sempre più forti le pulsioni razziste dettate da questo meccanismo ed la conseguente divisione del fronte degli sfruttati.

Altro aspetto da inquadrare è l’inizio della guerra a sfrattati, ceti popolari, movimenti per la casa: non sono certo questi episodi a sancirne l’avvio, ma di certo segnano un’evoluzione e una costante attenzione dei gruppi di potere sulle strategie di offesa, sempre più multiformi, sottili, penetranti. Dividere il fronte di resistenza facendo leva sui sentimenti “di pancia”, criminalizzare e reprimere I quartieri popolari e chi difende il diritto alla casa con ogni mezzo, attuare campagne mediatiche mirate, sfruttare compagini politiche di estrema destra per fomentare la guerra fra poveri, sono tutte parti del complesso sistema d’attacco di cui si stanno appena delineando i contorni, e che non sappiamo cosa ci riserverà in futuro.

Infine, non possiamo che constatare il ripetersi dei meccanismi di presunto “decoro” che tanto avevamo criticato alle amministrazioni precedenti, come il caso della ex-penicillina, e molti altri, dimostrano. L’asse tiburtino presenta una serie innumerevole di problemi, tra cui senza dubbio la trasformazione della consolare in un casinò a cielo aperto, senza alcuno spazio di socialità slegato dal profitto. Anzichè intervenire su questo importante aspetto della vita sociale della zona, si continuano ad attuare, per incapacità o mancanza di volontà politica, provvedimenti che hanno l’unico effetto di aumentare la percezione di un disagio già presente ed incolpare dello stesso le vittime che lo subiscono.

Un contesto complicato, in cui le cui linee di intervento non sono semplici né chiare. L’unico dato certo è che se non ci sarà una presenza in queste contraddizioni, nei luoghi e nelle composizioni dove esplodono, difficilmente si potranno attraversare le rotture che si creeranno da qui in avanti. Si continuerà invece a subirle, in un perenne vortice di eventi cui è impossibile stare dietro. Connettere di più ciò che, a fatica, costruiamo, con quello che si muove nella realtà esterna, due mondi troppo spesso distanti, può essere un buon inizio. Per riuscire, come nella Battaglia di San Basilio del 1974, a guardare, appunto, la luna, i veri responsabili delle politiche di sfruttamento, e non il dito, ovvero coloro che vivono la stessa situazione di difficoltà. Puntare verso l’alto, e non verso il basso, la giusta rabbia che esplode quando si lede la dignità popolare.

 

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