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La guerra in Donbass e l’idea del referendum

Situazione in Donbass. Intensi tiri di artiglierie e mortai pesanti da parte ucraina, negli ultimi due giorni, concentrati sull’area meridionale del fronte con la DNR (Repubblica popolare di Donetsk). Arrivo di rinforzi nella zona di Troitskoe, come in preparazione di un attacco lungo la direttrice di Debaltsevo, nella LNR (Repubblica popolare di Lugansk). Le milizie della LNR denunciano l’uso della popolazione civile quale scudo per le provocazioni ucraine: si continua infatti a concentrare artiglierie, corazzati e sistemi “Grad” a ridosso degli agglomerati civili controllati da Kiev, in modo che le milizie non possano rispondere al fuoco: le ultime segnalazioni in tal senso giungono da Stanitsa-Luganska e Novoivanovka.

Anche a livello individuale non mancano le “imprese” delle forze golpiste. L’agenzia Novorosinform scrive che lo scorso 18 luglio le forze ucraine hanno abbandonato lungo la linea del fronte con la DNR il corpo di un ex miliziano, evidentemente morto sotto tortura e sul cui cadavere sono stati esplosi colpi di arma da fuoco per inscenarne la morte in combattimento. Andrej Gordeev – questo il nome dell’ucciso – aveva servito nelle milizie nel periodo 2014-2015 ed era stato catturato dalle truppe di Kiev il 14 luglio, mentre si trovava a Mariupol (sotto controllo ucraino) in visita a una ragazza, facendo evidentemente affidamento sulla veridicità dell’appello ucraino “Ti attendono a casa”, con cui si cerca di persuadere i miliziani a consegnare le armi, prospettando loro l’amnistia.

Il comando delle milizie della DNR ha rinnovato l’appello a non “credere alle false promesse provocatorie degli assassini ucraini; è il loro lavoro, per attirare ingenui cittadini nel loro territorio”. Secondo Novorosinform, si stanno moltiplicando gli episodi di ex miliziani o semplici simpatizzanti di DNR e LNR catturati, imprigionati e anche torturati dalle forze ucraine.

E si moltiplicano anche i casi in cui non si cerca nemmeno di nascondere l’attività degli istruttori NATO tra le forze di Kiev. L’ultimo episodio sarebbe stato scoperto dalla ricognizione della LNR nell’area di Aleksandrovka, nel rione di Stanitsa-Luganska. Secondo i comandi della LNR, paesi della NATO usano l’Ucraina e le forze ucraine per sperimentare in corpore vili i propri metodi di combattimento, servendosi anche della presenza di mercenari da Paesi baltici e dell’Europa orientale.

Tre giorni fa, due miliziani della LNR sono stati uccisi da cecchini ucraini, cui le forze di Kiev fanno sempre più ricorso: anche in questo caso, i reparti di tiratori scelti all’interno di diverse brigate ucraine vengono addestrati da istruttori NATO. Ai più alti livelli – Stato maggiore e Ministero della difesa – operano su base permanente 44 consiglieri di 13 diversi paesi dell’Alleanza atlantica.

Sul campo, a dispetto della tante volte annunciata decisione di Kiev di ritirare dal fronte i battaglioni neonazisti che, dopo gli enormi crimini commessi ai danni dei civili nei primi periodi dell’aggressione al Donbass, hanno poi operato principalmente quali “plotoni di fuoco amico” contro i richiamati poco propensi al combattimento, ecco che torna al fronte “Pravyj Sektor”. Il 17 luglio, l’organizzazione ha dato vita al 1° battaglione del Corpo volontario ucraino, composto di un gruppo di fuoco, una prima compagnia di assalto, una seconda compagnia di supporto e una terza compagnia di fucilieri. “Sarà difficile, ma interessante” ha dichiarato il comandante del nuovo battaglione”: sarà interessante vederne comportamento quando, invece dei civili inermi, avrà di fronte milizie forti di quattro anni di guerra.

E’ in questa situazione che si inquadra la questione dell’idea che Vladimir Putin avrebbe lanciato a Donald Trump, durante il summit di Helsinki, di un referendum, sotto egida ONU, sullo status non solo di DNR e LNR, ma dell’intero Donbass.

Come scrive “Colonelcassad”, dato che gli accordi di Minsk non prevedono alcun referendum, ma dato anche che ad ogni piè sospinto si ripete che “non c’è alternativa a Minsk”, allora la proposta potrebbe rappresentare una via d’uscita dal cul de sac in cui sono finiti quegli accordi. Vicolo cieco che vale pure per le questioni del ventilato contingente di pace ONU o dell’armamento della missione OSCE, o anche del tentativo fatto coi colloqui Volker-Surkov di aggirare l’esclusione di Washington sia dagli accordi di Minsk, sia dal cosiddetto “formato normanno”. Del resto, nota iarex.ru, il destino dell’Ucraina si decide a Washington: dunque, inutile continuare con Berlino o Parigi e tantomeno con Kiev. Ma, anche sulla questione del referendum, le posizioni sono distanti, per non dire opposte.

Washington e Kiev pretenderanno quasi sicuramente, come condizioni esclusive, che il referendum si tenga dopo il passaggio dei confini sotto controllo ucraino, dopo l’elezione di autorità ucraine in Donbass (con la partecipazione anche dei partiti fascisti ucraini) e, soprattutto, che il controllo sullo svolgimento sia ucraino, escludendo il coordinamento con DNR e LNR. Di fatto, nota iarex.ru, si entrerà in un circolo vizioso senza fine.

In effetti, la reazione di Kiev è stata più che prevedibile. La vicepresidente della Rada, Irina Gerashchenko, ha dato in escandescenze alla sola parola: “nessun referendum sotto le canne dei fucili, in un territorio in cui da quattro anni i cervelli sono lavati dalla propaganda russa e dove comandano le marionette del Cremlino”. Più o meno dello stesso tono le parole del viceministro per i Territori occupati, Georgij Tuka: “Né Trump né Putin sono in grado di cambiare la Costituzione ucraina; può farlo solo il popolo ucraino e noi non riconosciamo alcun referendum nei territori occupati”. Il Ministro degli esteri Pavel Klimkin ha definito l’idea del referendum un “tentativo di prova generale del disfacimento dell’Ucraina”. Referendum impossibile dai punti di vista politico e giuridico, ha detto Klimkin e “nessuno, letteralmente nessuno” crede alla possibilità di una libera e sincera espressione di volontà popolare “sotto la pressione della Russia”.

Dunque, conclude Aleksandr Zubcenko, perdurante l’attuale regime a Kiev, non è possibile alcun referendum. Poroshenko ha da tempo iniziato la propria campagna elettorale e nel suo programma è scritto “piena liberazione di Donbass e Crimea”, anche se è vero che non trova appoggio tra la popolazione l’altro slogan di “guerra fino alla vittoria per la liberazione dei territori occupati”. Oltre il 70% della popolazione è per “la fine della guerra a Oriente”.

Un po’ di gioco al “poliziotto cattivo e quello buono” al Ministero degli interni. Il vice ministro, Vadim Trojan, ha ordinato ai reparti di frontiera di tenersi pronti per il ritorno del Donbass sotto controllo ucraino, secondo il “Meccanismo dei piccoli passi” messo a punto dal Ministro Arsen Avakov. Da parte sua, quest’ultimo, che appena pochi mesi fa aveva recato a Washington il proprio piano di variante di forza per il Donbass, si sarebbe improvvisamente messo sulla via del compromesso, esprimendosi per la possibilità che al Donbass venga riconosciuto il diritto all’uso della lingua russa, la cui negazione aveva rappresentato uno dei cardini della resistenza al golpe di majdan. Avakov avrebbe rilasciato la relativa dichiarazione a Ukrainskaja Pravda, considerata dai più una sorta di “megafono” del Dipartimento di stato.

Ora, come riportava la Tass già venerdì scorso, stando alle parole del portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale USA, Garret Marquis, non sembra proprio che la Casa Bianca intenda acconsentire all’idea del referendum, dato che gli accordi di Minsk “non consentono la possibilità di tenere un referendum” e inoltre, dice Marquis, “l’organizzazione del cosiddetto referendum in una parte di Ucraina non controllata dalle autorità di Kiev non sarebbe legittima”. Può darsi che, proprio nella consapevolezza delle reazioni USA, anonime fonti diplomatiche russe abbiano intenzionalmente fatto trapelare la notizia – pare che Trump avesse chiesto a Putin di aspettare a parlarne pubblicamente – in considerazione del fatto che difficilmente l’idea possa trovare consensi al Congresso, e più invece nell’opinione pubblica.

D’altra parte, è il caso di notare come appaia fuor di luogo ogni riferimento al referendum con cui nel marzo 2014 la Crimea decise il ritorno nella compagine russa: oggi, la proposta è di accordare uno status speciale all’intero Donbass, mantenendo la regione nella compagine ucraina, con un’autonomia significativamente maggiore. Anche se è vero che l’eventuale ammissione di un tale referendum, porterebbe legittimazione anche a quello crimeano, finora non riconosciuto a livello internazionale.

E, nel Donbass? Come ha dichiarato a News Front Aleksandr Iljashevic, del quotidiano “Enakievskij rabocij” della DNR, il referendum che la DNR tenne per proprio conto nel 2014 si sarebbe forse “dovuto organizzare in altro formato, con osservatori internazionali; ma, all’epoca, all’estero non se ne volle sapere. Oggi in Donbass non si nota particolare euforia per l’idea del referendum o, quantomeno, non tanta come quando si discuteva dell’introduzione di forze di pace. La notizia è stata accolta in modo tranquillo; probabilmente, perché la gente non crede che si possa davvero tenere. Sorge subito la domanda: e allora, perché non si è tenuto prima? E’ chiaro a tutti che il referendum è il momento con cui tali guerre debbano concludersi: la via più civilizzata e il modo più semplice per conoscere la volontà degli abitanti del Donbass. E Kiev e Washington lo avversano perché sanno che gli abitanti del Donbass voterebbero contro l’attuale regime ucraino”.

E, in Italia, chi sostiene il Donbass e chi invece inneggia proprio a quel regime?

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