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Napoli. Riapertura dell’area archeologica ad opera dell’Asilo

È il completo stato di abbandono. L’area archeologica adiacente all’Orto Urbano dell’Asilo Filangieri è stata una discarica a cielo aperto per troppo tempo. Un deposito per scoloriti pezzi di arredo, ingranaggi di ingegneria idraulica e anche qualche pannolino. Per non parlare delle gloriose attività di Parkour che bambini e ragazzini praticano su muri pericolanti datati al IV secolo a.C.. E non stranitevi se a qualsiasi ora del giorno e della notte pezzi architettonici di età romana potrebbero piombarvi in casa lanciati come dal miglior tiratore al piattello, sfondando porte e finestre. Questo è quello che succede in Vico Maffei , quartiere San Gaetano, nel pieno centro storico di Napoli. O meglio, quello che accadeva fino a un mese fa, quando alcuni archeologi della comunità dell’Asilo Filangieri hanno costituito l’Archeotavolo: un gruppo di lavoro che dal 24 maggio 2015 si è adopera attivamente per il recupero e la riapertura dello spazio archeologico afferente al Complesso Monumentale dell’Ex Asilo Filangieri.

La struttura si inseriva nel progetto di ampliamento dell’antico convento di San Gregorio Armeno. Il monastero fu fondato da monache armene che, nella fase bassomedievale, si organizzarono in un agglomerato di case, raccolto attorno a una chiesa e circondate dall’alto muro detto di “clausura”. Con la predilezione del principio di vita comune, conseguente al Concilio di Trento del 1563, ci fu una completa riorganizzazione architettonica del complesso. I lavori furono affidati all’architetto Giovanni Vincenzo Della Monica che, a partire dal 1572, realizzò cappella, refettorio e dormitorio. Infine venne realizzato un corpo di fabbrica affacciato su Via Maffei. A lavori conclusi, l’antico vico della Campana fu inglobato nelle nuove strutture e vi rimase solo il tratto più meridionale, corrispondente all’attuale Vico S. Luciella. Dopo il primo conflitto mondiale, l’edificio attiguo al chiostro venne acquistato dalla contessa Giulia Filangieri di Candida che dedicò al figlio Ugo l’educandato maschile per i piccoli orfani napoletani. Questi restò attivo fino al terremoto dell’Irpinia del 1980 che portò alla distruzione e conseguente abbandono del luogo degradato a punto di ritrovo della malavita locale. I resti più antichi pare corrispondano alle strutture murarie coincidenti con il limite orientale dell’isolato, delimitato dall’attuale Via S. Nicola a Nilo, e dalla sequenza di battuti stradali in sostanziale continuità almeno dalla metà del IV a.C. fino al XVI secolo. Tre filari di blocchi in ortostati di tufo giallo, associati a un battuto in scagliette e taglime di tufo, corrispondono ai resti della seconda metà del IV secolo a.C.

L’orientamento di muro e battuti segue l’andamento Nord-Ovest, congruo all’impianto urbano di Neapolis documentato in altri settori della città. Sono databili al III-I secolo a.C. i lacerti di un pavimento in signino associato a una struttura in opus reticulatum attualmente visibili nel vano sotterraneo dell’area di scavo. Successivamente, a partire dalla seconda metà del I secolo d.C., venne rialzato il livello stradale e si attesta un avanzamento verso est del muro dell’isolato. Appartengono a questa fase un condotto fognario orientato nord-ovest/ sud-est e molteplici strutture murarie in opera reticolata associate ad altrettanti battuti. La persistenza del percorso stradale è ben attestata fino all’epoca altomedievale (V-X sec.). La fondazione del muro di delimitazione del convento di San Gregorio Armeno, in epoca bassomedievale (XI-XV sec.), è posta sul limite orientale dei percorsi stradali preesistenti. In età vicereale (XVI-XVII sec.) si riconosce un consistente riassetto urbano: il grande edificio con accesso monumentale si imposta su strati di riempimento, databili alla seconda metà del XVI secolo, all’interno dei quali è stato ritrovato un nuovo condotto fognario posto più a est rispetto a quello di età imperiale. La strada presenta rifacimenti del piano di calpestio fino al XVII secolo. Le strutture relative a questa fase costituiscono il nucleo meglio conservato dell’area archeologica. Si tratta di un grande palazzo con corte centrale e vani distribuiti su due piani. Gli ambienti al pian terreno si affacciano su un androne pavimentato in opera spicata a mattoncini e i loro ingressi conservano stipiti ed architravi costituiti da cornici modanate in piperno. A sud, un accesso immette in un vano scala con gradini in pietra lavica, mentre, una scala minore, probabilmente di servizio, era stata realizzata in corrispondenza del tratto nord-occidentale.Sull’intonaco delle pareti prospicenti al cortile sono tuttora visibili alcune decorazioni graffite o dipinte (galeoni, soldati, ritratti e ampie vedute) forse riferibili a una fase di riutilizzo dell’edificio.

Alla metà del XVII secolo è ascrivibile la rasatura del piano superiore dell’edificio e la contestuale colmata dei piani inferiori con materiale edilizio derivante dalla distruzione degli ambienti stessi. Tale intervento è riconducibile alla fase di ampliamento spaziale a seguito della riorganizzazione della vita comunitaria del convento in epoca tardo-cinquecentesca.

Ebbene, tutto il materiale archeologico recuperato in questi ambienti tra gli anni 2002-2005: ceramiche, maioliche, materiali architettonici, affreschi è tenuto in centinaia di cassette in uno stato di completo abbandono, all’interno di un rudere pericolante mai ristrutturato dai tempi del terremoto in Irpinia. Inevitabile pensare a quanto il sistema economico attuale non investa tempo, soldi ed energie e non sia interessato realmente alla cura di questi spazi storico-artistici e culturalmente identitari. Se ne parla soltanto in termini di produzione, marketing, di qualità del prodotto artistico determinata dalla quantità dell’introito. Il problema più urgente per chi deve spendere soldi stanziati dalla Comunità Europea all’interno delle aree archeologiche è la creazione di punti bar e bookshop. Si usano parametri e criteri di valutazione inadatti per classificare oggetti e discipline che necessiterebbero di un rinnovamento anche del linguaggio, che scaturisca da un nuovo modo di concepire e interpretare l’arte, la storia, l’archeologia. Parlare di valorizzazione di un monumento storico, di un reperto archeologico, toglie valore a ciò che ha già un valore di per sé. I monumenti, i reperti, sono portatori di un messaggio che dal passato ci arriva codificato. Sta a noi imparare la loro lingua e renderne accessibile il messaggio, consapevoli del fatto che solo tra interlocutori che parlino la stessa lingua esiste vera comunicazione. In questo modo sarà possibile comprenderne il valore, avvicinare le persone alla cultura e probabilmente trarne anche vantaggio sociale oltre che economico.

Paradossalmente, anche il linguaggio di chi studia le antichità è ormai completamente contaminato da un pensiero neoliberale che è assorbito in tutte le trame. Mi piacerebbe per esempio, che si parlasse di Archeologia del processo creativo e non di Archeologia della produzione, che si desse più importanza a ciò che muoveva gli artigiani dell’antichità alla creazione, che si guardasse alle modalità di creazione del manufatto non in termini di cicli produttivi (quasi un rimando alle odierne catene di montaggio). Era il loro tempo, non il nostro. Era la loro visione delle cose sulla quale si è appiattito il nostro linguaggio post-industriale. Bisognerebbe ribadire e sottolineare quanto siano specifiche e irripetibili le creazioni dell’antichità (ceramiche, tessili, metallurgiche, ecc.), il corpo complessivo delle loro tecnologie e con essi i loro sistemi linguistici. Tutto in Italia riporta ad un antico e glorioso passato, a cominciare dalle rovine e dai segni che riaffiorano nei centri delle grandi città. Ma di che tipo è l’interazione con quelle rovine e con quei segni? Il latino e il greco antico si impartiscono ai ragazzi molto presto e continuano ad essere materie portanti nei nostri Atenei. Niente in contrario. Ma quanta contraddizione c’è tra questo ostentato sciovinismo e il degrado in cui riversa il patrimonio storico-artistico? Basti pensare a Pompei.

L’Archeotavolo dell’Asilo ha scelto di mobilitarsi anche nella direzione della trattativa con le istituzioni: comune, soprintendenza, unesco. Il progetto dell’Asilo intero sarebbe quello di riuscire a espandere la pratica dell’Uso civico anche su quell’area archeologica che al complesso monumentale appartiene. Apertura dello spazio, accesso e fruizione liberi, attività per il quartiere, Autogestione.

Domani, 21 giugno La Comunità dell’Asilo riaprirà alla cittadinanza l’area archeologica dalle 10.00 alle 15.00. Riappropriamoci e prendiamoci cura di ciò che è nostro.

 

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