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Arezzo sottosopra: tre inchieste e quattro reati per Banca Etruria

La storia del governo Renzi comincia a somigliare – dopo solo due anni – agli ultimi scampoli dei governi Berlusconi. Tra grandi dichiarazioni indignate e rassicuranti (”non ci saremo processare nelle piazze”, “abbiamo fatto ripartire il paese”, “andiamo avanti e vdremo chi ha i voti”, ecc) e un montante disgusto popolare per il palese conflitto di interesse nella vicenda delle banche “salvate” ammazzando i piccoli risparmaitori. E non poteva mancare, in questo clima da fine corsa appena iniziata, l’affollarsi di procedimenti giudiziari che sfiorano – per ora – i membri del governo ma aleggiano intorno (si fa per dire) alle “famiglie toscane” che spadroneggiano a palazzo Chigi.

Soltanto alla procura di Arezzo – sede centrale di Banca Etruria, la più direttamente “imparentata” con l’esecutivo – pendono almeno tre filoni di inchiesta e si ipotizzano come minimo quattro reati a carico degli amministratori della banca appena commissariata.

Si va dall’”ostacolo alla vigilanza” e “fatture false” (accuse probabilmente legate all’ispezione della Banca d’Italia che aveva portato a una sanzione di 2,5 milioni contro gli amministratori poi dimissionati) fino al “conflitto di interessi” vero e proprio, perché gli amministratori si erano disinvoltamente autoattribuiti 185 milioni di fidi (più stipendi milionari) mentre la banca che dirigevano stava affondando e rifilando ai piccoli clienti le famose “obbligazioni subordinate” che di lì a poco sarebbero valse zero.

Quest’ultimo particolare sarà molto probabilmente al centro dei molti esposti che gli obbligazionisti raggirati stanno per presentare al tribunale, con la classica accusa di “truffa”.

L’elenco degli indagati convolge certamente l’ex direttore generale Luca Bronchi e l’ex presidente Giuseppe Fornasari per la questione delle “sofferenze” (due miliardi di euro) mai portate tra le passività in bilancio (un trucco contabile molto usato per nascondere la situazione reale: so che quei soldi non rientreranno mai, ma continuo a calcolarli tra gli “attivi” per tenere in piedi il bilancio).

Le fatture false riguarderebbe invece alcune consulenze fasulle, ma per una spesa finale di 15 milioni “regalati” a qualcuno.

Il conflitto di interessi investe invece in pieno il periodo dal 2009 al 2014, e quindi dovrebbe interessare (il condizionale è d’obbligo in assenza per ora di avvisi di garanzia) sia l’ex presidente Lorenzo Rosi (al centro di un’altra gustosa vicenda societaria in simbiosi, pare, col padre di Matteo Renzi), sia ovviamente l’ex vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ben noto ministro nientepopodimeno che delle “riforme costituzionali”. Al centro quei 185 milioni, di cui 142 effettivamente utilizzati e mai restituiti.

Infine gli obbligazionisti truffati, che stanno preparando una class action insieme alle varie associazioni dei consumatori, capitolo comunque già all’attenzione del procuratore capo di Arezzo.

Difficile che da questo ingorgo non venga fuori qualche altro dettaglio interessante, o addirittura nuovi filoni di indagine (è noto che quando un business furbesco viene scoperto, qualcuno degli ex congiurati viene colpito dall’ansia di confessare tutto…). Difficile, insomma, che la famiglia Boschi possa uscirne come descritto da miss Maria Elena e da tutto il Pd, che si appresta a respingere la mozione di sfiducia individuale presentata alla Camera dal Movimento 5 Stelle.

 

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