Alcuni giorni fa una autobomba è esplosa vicino l'ambasciata italiana a Tripoli. Ne abbiamo riferito nei giorni scorsi anche sul nostro giornale. L'Italia è il primo paese occidentale ad aver riaperto la propria sede diplomatica in Libia. A questo fatto è dedicato oggi un preoccupato editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera.
In particolare l'editoriale è preoccupato della posizione del governo italiano, che è apparsa troppo frettolosa nell 'aprire l'ambasciata in Libia e nella capitale controllata dal governo “di unità nazionale” di Serraj, mentre la polarizzazione e la divisione in Libia vede crescere il peso di Haftar, l'uomo forte che controlla Tobruk, sostenuto dall'Egitto e ora anche dalla Russia.
Le preoccupazione di Mieli e del Corriere della Sera coincide con quella di altri ambienti. Insomma la politica estera italiana in Libia (oggi affidata ad un personaggio come Alfano, sic!) starebbe ancora una volta mettendo una toppa peggiore del buco.
Sono passati sei anni dal “tradimento” del governo Berlusconi verso Gheddafi, con cui aveva da poco sottoscritto un trattato di amicizia, e che vide l'Italia allinearsi ai bombardamenti francesi e britannici sulla Libia e alla liquidazione fisica del leader libico. Ma la destabilizzazione e il caos prodotto da quella aggressione militare continuano a far saltare ogni tentativo di stabilità del paese. La divisione di potere tra “quelli di Tripoli e quelli di Tobruk”, con in mezzo milizie armate indipendenti e nuclei di miliziani dell'Isis e di altri gruppi jiahdisti, continua a mantenere il paese dove l'Italia ha forti e storici investimenti nel petrolio e nel gas, nel caos e nella guerra civile permanente.
La newsletter Affari Internazionali, che riproduciamo integralmente più sotto per il suo interesse, è firmata da Roberto Aliboni, consigliere scientifico dell'Istituto Affari Internazionali ed esperto strategico autorevole. Una persona che sa di cosa parla, magari anche giungendo a conclusioni assai diverse dalle nostre. Nella newsletter non si affronta il ruolo dell'Italia nel caos libico. Ma l'editoriale del Corriere della Sera di oggi è indicativo del brivido di paura che corre lungo la schiena di chi (dall'Eni al governo) deve cercare di capire quale sarà il futuro di un paese importante per l'Italia come la Libia ed è consapevole di non averne azzeccata una dal 2011 fino ad oggi.
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Dalla newsletter Affari Internazionali
di Robero Aliboni*
In novembre la Brigata per la Difesa di Bengasi – una formazione islamista formata nel giugno 2016 e collegata agli estremisti di Tripoli del mufti al Gharayani e di Khalifa Ghweil – ha attaccato da Giufra, Libia centrale, le forze di Haftar – stanziate nella “mezzaluna del petrolio” già dal settembre scorso – con il proposito di alleggerire la pressione dell’Enl (Esercito nazionale libico) sugli islamisti di Bengasi e di Derna.
L’Enl li ha ributtati indietro e fra dicembre e gennaio ha continuato a tenerli sotto il tiro della sua aviazione. In queste missioni, tuttavia, sono stati colpiti uomini e materiali di Misurata presenti a Giufra, aprendo un duro contenzioso fra Misurata e Tobruk.
Più intenzionalmente, le forze aeree e la 12° brigata di fanteria dell’Eln hanno attaccato a Sebha, Libia meridionale, una postazione della Terza Forza di Misurata riuscendo a togliergliela (1). La Terza Forza occupa i campi petroliferi del Fezzan dal 2014, escludendo i rivali dalla regione e assicurando la linea di rifornimenti che da Sebha arriva a Misurata attraverso Giufra.
Rischi di nuova polarizzazione
Questi sviluppi da un lato attestano il rafforzamento militare di Haftar, grazie all’appoggio crescente che riceve da Egitto e Russia, e la sua espansione sul territorio; dall’altro costituiscono per Misurata una non trascurabile minaccia logistica e militare (tanto più che la Forza ha subito nel tempo non poche perdite ed è attualmente troppo allungata e frammentata), alla quale la città potrebbe decidere di rispondere riaprendo il conflitto civile.
Alcuni osservatori sottolineano che nella missione in Libia centrale della Brigata per la Difesa di Bengasi c’è proprio l’obbiettivo di spingere Misurata a rispondere all’Enl.
Qual è l’interesse degli islamisti ad agire in questo senso? Se un nuovo scontro militare si aprisse, l’area politica centrista e moderata che oggi bene o male Misurata rappresenta con il suo appoggio a Serraj potrebbe essere indotta ad allearsi di nuovo con l’ala islamista estremista.
Si tratterebbe di un’alleanza tattica, ma, come si è visto in Siria, di tali alleanze tattiche è lastricato il fallimento politico dei moderati. Si può aggiungere che i tentativi di putsch di Khalifa Ghweil a Tripoli sono una dimensione della stessa strategia. Il rischio di una nuova polarizzazione e di un nuovo scontro militare in Libia non è da sottovalutare.
Il fallimento dell’accordo di Skhirat e il ‘reset’
Se le tendenze al cambiamento e al rovesciamento degli equilibri militari esistono, è perché l’Accordo di Skhirat e il Comitato presidenziale guidato da Sarraj hanno largamente fallito.
Per evitare la ricaduta della Libia nella guerra civile, occorre rinegoziare l’Accordo di Skhirat e integrare in esso le forze che se ne sono sentite o ne sono state escluse. Il ‘reset’ suggerito dall’International Crisis Group in uno studio recente è il tema all’ordine del giorno (2).
E in effetti, la rinegoziazione è già in corso nel quadro Onu. Nella Commissione per il dialogo politico (nata con gli Accordi di Skhirat) si discute di nuovi assetti, in particolare della riduzione a quattro o a cinque dei membri del Consiglio presidenziale e dell’inserimento di un primo ministro per assolvere le funzioni di guida politica oggi svolte dal presidente del Consiglio.
Una piattaforma complessiva è emersa nella conferenza organizzata il 13-14 dicembre 2016 al Cairo con la partecipazione essenzialmente di esponenti delle opposizioni. Martin Kobler, il mediatore capo dell’Onu in Libia, l’ha apprezzata.
Mediazione politica autorevole cercasi
Ma l’Onu, a causa del fallimento degli Accordi di Skhirat e dell’insufficiente e talvolta ambiguo sostegno che ha ricevuto dai suoi fautori internazionali, difficilmente è il luogo in cui oggi possa emergere un accordo politico effettivo.
L’accordo potrà anche essere consacrato nel quadro Onu, ma deve emergere fra i libici, che al posto delle caselle e dei programmi devono trovare un equilibrio condiviso di obiettivi e di poteri.
Quest’accordo è problematico perché Haftar ha acquisito un margine di prevalenza militare e ha gli elementi per credere di poter ampliare questo margine e vincere. Tuttavia, benché indebolita sul piano militare, Misurata resta per Haftar un rivale militare di primo piano.
Se una mediazione politica autorevole non si farà viva in tempi brevi, Misurata potrebbe decidere di sfidare militarmente Haftar piuttosto che negoziare con lui e i suoi alleati. Gli sviluppi sul terreno fra dicembre e gennaio di cui abbiamo parlato hanno già riavvicinato le varie anime di Misurata di contro al campo avverso, facilitando un’eventuale opzione militare.
Esiste una mediazione autorevole che possa portare i libici all’accordo politico che l’Onu difficilmente può oggi promuovere? Autorevoli commentatori dei fatti di Libia, come Mezran (3) e Pack (4), suggeriscono d’aspettare che l’amministrazione del Presidente Trump nomini, secondo quanto sembra di sapere, un inviato presidenziale speciale nella persona di Phillip Escaravage, un vecchio amico e collaboratore di Trump, buon conoscitore della Libia.
Essi sviluppano degli argomenti per sottolineare che una stabilizzazione della Libia conviene agli Usa. Ma quali sono gli obiettivi del presidente Trump in realtà non è ancora chiaro. Essi comunque potrebbero divergere significativamente dagli interessi europei.
Aspettando Trump e l’Europa
Intanto la diplomazia dei maggiori Paesi europei ha già integrato la nozione di un ‘reset’ degli Accordi di Skhirat, è consapevole dei rischi in atto e sta esercitando pressioni soprattutto sui patroni regionali di Tobruk e Haftar perché si moderino militarmente e politicamente favorendo un compromesso.
Gli ultimi passi che l’Italia ha compiuto verso la Libia sono troppo vicini al governo Serraj e potrebbero risultare più dannosi che utili nel tentativo di ricostituire le condizioni per un compromesso politico fra le parti libiche.
Il lento ma evidente riemergere dalla crisi Regeni con l’Egitto potrebbe invece mettere anche l’Italia in grado di agire con efficacia nella direzione di una mediazione da parte europea.
È da dire che, mentre inizia la presidenza Trump, agli occhi dei libici e dei Paesi della regione gli europei appaiono anche più deboli del consueto. Essi, del resto, non hanno fatto nulla per coordinarsi fra di loro e cercare così di accrescere la loro autorità.
Tuttavia, il tentativo di una mediazione come quella in corso va fatto, anche per cercare di preparare le condizioni per un’autonomia europea nel Mediterraneo. All’epoca della crisi di Suez, nel 1956, gli Usa negarono tale autonomia agli europei nel Mediterraneo, ma hanno poi protetto gli interessi europei nel quadro dell’Alleanza. Oggi il rischio è che quest’autonomia venga negata ancora più recisamente e senza nessuna contropartita.
(1) W. Pusztai and A. Delalande, “A New Civil War Could Break Out in Libya”, War Is Boring, in https://warisboring.com/a-new-civil-war-could-break-out-in-libya-1e0fa7c20cf0#.rl0p7auk9.
(2) International Crisis Group, The Libyan Political Agreement: Time for a Reset, Brussels, 4 November 2016 in https://www.crisisgroup.org/middle-east-north-africa/north-africa/libya/libyan-political-agreement-time-reset.
(3) Karim Mezran, The Case for Wider US Engagement in Libya, Atlantic Council, January 4, 2017, in http://www.atlanticcouncil.org/blogs/menasource/the-case-for-wider-us-engagement-in-libya.
(4) J. Pack and N. Mason, A Trumpian Peace Deal in Libya?, Foreign Affairs, Snapshot, January 10, 2017 in https://www.foreignaffairs.com/articles/libya/2017-01-10/trumpian-peace-deal-libya.
*Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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