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Suicidi in carcere. Sentenze non scritte di pena di morte e gli ergastoli percepiti

Nel mio caso non era il carcere, intesa come Istituzione Totale, era il carcere intesa come situazione esistenziale totalizzante: qualcosa che polverizzava più il futuro, che il presente. Provare a uccidermi era il mio unico atto di liberazione possibile rispetto a me stesso, ai miei errori, a tutto quello che avevo perso e che sapevo non avrei mai più ritrovato. Non era la claustrofobia della cella, ma il freddo nel guardarmi, nel giudicarmi, nell’incapacità di immaginarmi in un futuro vivibile. L’ergastolo, non come sentenza di un giudice, ma come destino che vede nella morte l’unico fine pena possibile.”

Ponticelli pallida madre: è la sintesi della vita di Angelo, dentro e fuori dalle relazioni di amore, di famiglia, di lavoro, di socialità. Dentro e fuori dal carcere, dalle comunità, dalle dipendenze. Un dentro e fuori che come un’altalena ha cancellato la progressione del tempo, arrivando a confondere ogni suo passato bruciato, con ogni orizzonte di futuro. Così questo pendolare lo ha condotto ad essere un balordo, senza esserlo. Un bastardo, pur volendo essere padre, figlio e marito esemplare. Un detenuto, un ergastolano: anche quando era a piede libero si portava questo nero nell’anima fatto di ferro e di paura.

È come vivere la vita di un altro, ma farlo talmente tanto in fretta da non accorgersene. Fino a ritrovarsi in una cella schifosa e a non avere nessuna voglia di uscire, proprio perché la prigione è quella che hai al cervello e non solo quella delle sbarre.”

Angelo non riuscì ad uccidersi. Non ne ebbe il coraggio, meglio, non ci ha provato con grande convinzione. I tentati suicidi hanno molteplici meccanismi, assai poco sintetizzabili, ma due categorie si possono comunque tentare di tracciare: a) i falliti suicidi, b) i suicidi troppo timidi per essere realmente suicidi. Angelo, sempre secondo me, appartiene alla seconda categoria: una specie di volerlo fare per dire a sé stesso e agli altri di averci provato.

Un urlo, più che un gesto: un urlo, però, che a volte uccide lo stesso. Dopo il carcere è stato qualche anno in comunità, ma una volta fuori ha ricominciato la fetente vita di sempre. Poi il fantasma di sé stesso gli ha chiesto nuovamente il conto e, guarda caso, sempre dentro una cella buia di una prigione. “Vuoi vivere o vuoi morire? Decidi, ma senza rompere le palle al mondo”, si senti dire una mattina da una vocina acida nel suo cervellino alienato. È vivo ed è un ottimo amico.

40 suicidi in carcere quest’anno. 1 ogni 3 giorni. 85 nel 2022. 70 nel 2023. Atti di autolesionismo quotidiani. Ma anche altro: morti provocate da auto annientamento dovuto alla atarassia, quel lasciarsi andare che nessuna autopsia può diagnosticare e nessuna statistica conteggiare. Perché?

Non ti vedi più. Questo è il problema. Il passaggio stretto della detenzione è crudele, vero, ma è la ferocia con la quale si cancella ogni avvenire possibile che ti annienta. Io, ad esempio, in carcere come in comunità stavo bene, anzi, trovavo anche equilibrio e interessi. Fuori non ho mai letto, neanche un fumetto, invece quando sono “chiuso” riesco a leggere tantissimo. Pensa che, ancora oggi, per leggere mi chiudo da qualche parte. Il mio guaio è che non riuscivo ad immaginarmi altro che quello. Quando ho provato ad uccidermi non reggevo più me stesso, non è che non reggevo il carcere. Non reggevo questa specie di mio ergastolo universale, circolare, forse frutto di una sentenza scritta anche da me, o dalla società e non da un giudice, ma comunque qualcosa che mi opprimeva, mi toglieva il respiro. Un ergastolo del cuore, del sentire, del dovere essere per forza lo sbandato violento e stupido. Non reggevo più questo orrore. La morte, il tentare di uccidersi, diventa scelta minima, quasi come comprarsi o no un gelato in casi come il mio. Diventa una delle opportunità concesse. Non sentivo di valere nulla per me e per nessuno: la cella, con i suoi riti e ritmi, ti sbatte in faccia ogni istante quanto sei meschino, fragile, inutile. La morte ti salva da te stesso, non dalla galera.”

Gli studiosi descrivono le Istituzioni Totali, chi pro o contro, sono d’accordo però nell’individuare queste “strutture” in luoghi ben precisi, con burocrazie ben definite. Una diagnosi, una sentenza, o altro che corrispondono a luoghi fisici: carcere, ospedale, manicomio, comunità e altri. Quello che stupisce, però, è che queste definizioni non spiegano i meccanismi che azionano i tanti suicidi, perché di per sé la situazione di deprivazione spiega solo una minima parte del fenomeno.

Dietro i suicidi in carcere, invece, si dovrebbe parlare di Istituzioni Totalizzanti, traslare quindi il concetto detentivo, dal luogo dove viene effettuata, alle implicazioni emotive che comporta che, in questo, non sono intrinseche nel luogo, quanto nelle elaborazioni mentali che quel luogo spinge a fare. Implicazioni che vanno ben oltre le misure restrittive della detenzione.

Contesti sociali di appartenenza, traumi fatti o subiti, alienazioni perpetue, dipendenze croniche, mancanza di stimoli e prospettive professionali, stigma e tantissime criticità che provocano i suicidi tra le mura carcerarie, vero, ma si riferiscono direttamente a contesti che non sono in quei luoghi, che sono nel ricordo o nell’orizzonte di un futuro che si percepisce impossibile o di un passato indigeribile. Angelo, ad esempio, sovrapponeva le condizioni estreme della vita carceraria, con il suo “fuori” altrettanto estremo. Era, a suo dire, l’oscillazione devastante tra questi due dentro che lo stava portando al creatore.

Mentre spesso l’attenzione dei media si concentra sulle condizioni carcerarie che, per quanto orribili, da sole non spiegano questa mattanza, anche perché spesso si ci uccide a inizio o a fine pena e, ancora, durante detenzioni non lunghissime. L’ergastolo percepito da Angelo è fatto di entrambe queste detenzioni e, per quanto orribile dirlo, è una sensazione che scaturisce dalle sentenze non scritte di inutilità e marginalità perpetua che la società emette e che, in qualche modo, il carcere tira fuori.

Non è un caso, quindi, che si eseguono queste condanne a morte non scritte, perlopiù nei giorni comandati: ad agosto, come nelle festività. Non perché con il caldo manca l’aria condizionata o a Natale il banchetto di famiglia, quanto perché sono giorni in cui il cervello del condannato si sposta in altri luoghi, quelli della memoria e dei bilanci: sono questi due macigni che spingono al gesto estremo.

Poi è anche vero che la brutalità della vita detentiva fa deflagrare ogni malessere ma, di fondo, agisce su psiche turbate, dove le torsioni della prigionia scavano solchi che solo un diritto reale alla tenerezza, oltre che ad un reinserimento sociale, può lenire.

Una volta Angelo mi disse che da quel buio una mano lo aveva afferrato per i capelli e tirato fuori. La cosa mi fece scoppiare a ridere: Angelo è calvo. Però, stabilito di voler vivere, dovette chiudere con entrambe le detenzioni e uscito da Poggioreale cambiò tutto, anche rispetto alla detenzione del suo fuori. Casa, abbigliamento, giri sociali, abitudini, numero del telefono, rapporti con la famiglia: uno tsunami identitario forzato, forse frutto di disciplina, ma che fino ora gli ha salvato la vita.

Del resto il detenuto 7047 delle galere fasciste, Antonio Gramsci, per salvarsi dalle trasformazioni molecolari che la vita detentiva gli imponeva, si diede una disciplina ferrea. Quel “per sempre”, che si impose scrivendolo in tedesco, che indicava un’attenzione intellettuale verso il suo Io di fuori, il suo Io identitario, senza cadere nelle trappole delle maschere dell’imprigionato, della ossessione verso sé. Gli stessi “Quaderni” sono frutto di questa auto disciplina da contrappore alla disciplina fascista: una Resistenza.

Così negli ergastoli “percepiti” della modernità turbocapitalista bisogna dare come implicite le pene accessorie non scritte che traslano il carcere, da luogo fisico, a luogo dello spirito: dove l’annientamento non è dato dalla detenzione brutale, ma dalle implicazioni che questa imprime a fuoco nei cervelli dei più fragili e nei disfunzionali. Una torsione che, molto aldilà dei reati commessi e dalle sentenze da scontare, può trasformarsi in ergastoli o in pene di morte.

Non resta che opporsi, anche per chi detenuto non è, con una disciplina che rimandi ad altri valori e a futuri possibili. Immagini, forse, ma uniche forme per preservare la Dignità di chi è caduto nelle tante detenzioni della società del consumismo. Resistenza Umana, da contrappore alla tenaglia dei due nero, quello specifico della detenzione e quello sfumato della super alienazione, che vede nella segregazione lo strumento principe per trasformare l’Uomo in altro.

Comprendere la mia malattia. Accettarla. Mi ha dato la possibilità di creare uno spazio dove non mi sento giudicato. Così ho trovato degli interessi che, ancora oggi, mi isolano dai contesti di degrado nei quali sono cresciuto. Ma devo ricordarmi che sono gli unici che ho e che questa forma di nuova detenzione, che mi auto impongo, mi rende diverso dagli altri.

Oggi posso trascorrere intere domeniche a leggere. Posso giustificarmi del fatto che non vedo mio fratello da anni, perché è ancora dentro i casini e non vuole uscirne. Una specie di egoismo, ma forse è l’unica difesa che ho da quel nero che, storto o morto, ho dentro di me. Arrivare sul confine tra la vita e la non vita ti dà una forza magica: sono l’Angelo che rubava nelle chiese le elemosine nelle cassette dei santi, ma sono anche l’Angelo che oggi è a servizio degli amici e si sta riallacciando gradatamente al genere Umano. Sono entrambe queste cose e guardarmi dall’alto, da quel confine assurdo della voglia di farla finita, mi ricorda chi sono e cosa devo fare per non tornare ad esserlo.

Il carcere, almeno nei miei sprofondi, entra poco: è una piccola parte, nemmeno la peggiore, delle mie prigioni. Però è quella che ha messo a nudo la mia fragilità, spingendomi ai tentati suicidi. Si ci ammazza in carcere perché ci sta un preciso momento in cui si vede con nitidezza quanto si è scesi nella fogna e quanto non ci sia una strada per uscirne. È quello il botto del buio pesto, quello in cui una piccolissima cosa, che sia una scorreggia di un compagno o uno scarafaggio che si aggira sul pavimento che fa esplodere tutto. La rabbia che ti fa bruciare è improvvisa e persino il dolore di tagliarsi o conficcarsi uno stuzzicadenti nella mano ti distrae da quel nero dentro che è talmente solido da ingoiare ogni luce.”

Forse è questo l’errore delle analisi sui suicidi in carcere. Si discute tra la definizione di “dentro” e si contrappone a quella del “fuori”, mentre in realtà molte di queste esistenze oscillano tra due dentro. La Pubblica Opinione si indigna sulle condizioni inumane del dentro stigmatizzando carenza di strutture, sovrappopolamento, carenza di personale eccetera eccetera, mentre spesso è l’assenza di un fuori che spinge all’auto annientamento e al suicidio.

Quel “fuori che aspetta” come elemento principale di sogni, di bisogni, di speranze che nelle vite perdute si liquefano progressivamente in una grammatica dove sparisce il tempo. Passato, Presente, Futuro triturati in un nero che non lascia spazio all’amore.

Quando il detenuto Angelo ha percepito il fermarsi del tempo, del suo tempo, ha anche decretato la sua fine. Il suicidio, secondo me, è il fisiologico esercitare l’ultimo dei propri diritti, quando tutti gli altri sono stati offuscati e non il gesto estremo di non reggere alla detenzione, ma quello di rivendicare una libertà. L’unica libertà possibile. “Ci vuole umiltà e non orgoglio” scriveva Pavese, ma nel caso dei suicidi in carcere ci sta la combinazione di questi due fattori.

“Aprire tutte le prigioni dell’essere affinché l’umanità abbia tutti gli avveniri possibili”

Rubo la citazione di Gaston Bachelard, da “Il bosco di bistorco” il primo libro edito da Sensibili alle Foglie, la cooperativa editoriale messa su, proprio dentro un carcere, da Renato Curcio, Stefano Petrelli e Nicola Valentino: esperienza che va letta proprio in chiave di Resistenza di un Io identitario rispetto alla decomposizione di ogni Io carcerario.

Ma come hai resistito?

Difficile da spiegare. Penso che sia la capacità, del detenuto o sofferente che sia, di mantenere un filo di comunicazione con sé stesso. Senza recidere quelle specificità proprie che ti mantengono Uomo, quando tutto ti spinge a diventare bestia. Una luce, uno spazio mentale, una piccolissima cosa nella quale si mantiene un margine di Dignità. Quando questo filo sottilissimo si rompe, si entra in una spirale dove alla devastazione delle Istituzioni e della propria stessa vita, si aggiunge un non so ché di cronico, di eterno, di irreversibile che rende la sopravvivenza stessa impossibile.

Gli altri, forse anche in buona fede, tentano invece di legittimare questa discesa verso una omologazione tra la figura del carcerato e il carcere stesso. Una sovrapposizione che cancella ogni speranza, che annega quel che resta di te in una vergogna sorda, invalidante. Il suicidio diventa quindi non l’atto finale di una scelta, ma la conseguenza di una incapacità a reggere l’ergastolo nel cuore e non tanto la detenzione che si sta scontando. Ma il carcere è questo: annientare, non rieducare. Nascondere, non punire. Come ti spieghi, ad esempio, che hanno proibito farina e lievito a Cospito? Come ti spieghi che gli hanno già proibito musica e foto di famiglia?

È la scelta, non tanto del sistema Carcere, quanto della società intera di annullare, piegare, scomporre ogni residuo di Umanità in chi cade, quanto in chi sbaglia. Riuscire a resistere a questi pesi non è dato dalla forza, anzi, ma dalla leggerezza. Essere farfalla, non leone. Poi ci sta, almeno nel mio caso, la creatività: il perdersi dietro un passatempo anche ore, abitudine che rende ogni tipo di detenzione superabile. Non è il solito “adda passà a nuttata”, anzi è volerla vivere, in qualche modo, fino in fondo. Decidere di essere libero. Di essere, contemporaneamente, attore e spettatore della propria tragedia. Io mi sono salvato così: una lettera d’amore a donne che non conoscevo, una poesia che non sapevo decifrare, un sogno che sapevo di non poter vivere. Ma quando si sceglie di continuare a stare al mondo, nonostante ci si senta un numero grigio e si sia palesato dentro l’idea di darsi la morte, bisogna inondare di colori la propria esistenza. Di avveniri possibili, esattamente come dici tu.”

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