Un testimone riapre il caso del 30enne morto a Le Sughere e svela l’esistenza delle «celle bianche» dove i carcerati vengono massacrati di botte. Dove non ha potuto (o voluto) la giustizia, è arrivata la televisione.
Il caso di Marcello Lonzi – morto in carcere, a Livorno, l’11 luglio del 2003 a trent’anni – torna al centro della cronaca dopo che il programma di La7 «Linea Gialla» ha mandato in onda le dichiarazioni di un ex detenuto a Le Sughere.
«C’era un detenuto accanto a me, chiedeva del dottore. Una guardia fece: ”Il dottore viene appena ha voglia”. Poi passa un’altra guardia, più giovane, che chiede: ”Ma cosa vuole questo qui che urla, urla, urla”. Gli risposero: ”Vuole il dottore”. Questo qua, il poliziotto giovane, si girò verso il detenuto e disse: ”Cosa vuoi che ti curiamo noi, come si è fatto al Lonzi?”. E io questo l’ho dichiarato al pm».
Caso riaperto? Difficile anche solo sperarlo. A dieci anni di distanza, la morte di Marcello Lonzi rimane un mistero. Era un afoso giorno di luglio, di quella che venne definita «l’estate più calda del secolo». Mancavano tre mesi alla scarcerazone di Marcello, che però viene ritrovato morto in cella. Il medico legale metterà agli atti che si trattò di «morte per cause naturali», infarto. Tre diverse procure, nel corso degli anni, hanno archiviato il caso: nessun pestaggio dietro le sbarre, come pure la famiglia dell’uomo aveva sostenuto con forza (e come alcune foto suggeriscono).
Lo scontro, come sempre nei casi di malapolizia, è sulle perizie: in una prima autopsia si parla di «un’unica frattura costale e tre lesioni occipitali, ma senza nessuna incidenza». A tre anni di distanza, un nuovo esame autoptico fa emergere altri particolari: sette costole rotte e lo sterno fratturato. Il consulente medico spiega il tutto come conseguenza di un massaggio cardiaco, ma l’anatomopatologo Alberto Ballocco sostiene tutt’ora che sarebbe più appropriato parlare di «massacro cardiaco». L’ex detenuto intervistato da La7 prosegue: «A Livorno esistono le cosiddette celle lisce. Sono celle in cui non c’è né il letto né altro. Solo un materasso in terra. È lì dove ti menano. A me hanno spaccato i denti davanti solo per essere tornato con dieci minuti di ritardo da un permesso. Quando sei giù all’isolamento prendono il telefono e dicono: ”Mi mandi la squadretta?”. Vengono in quattro, cinque, sei. E vengono con le tute mimetiche, gli scarponi, i manganelli, i sacchi pieni di sabbia. E te le danno anche con quelli. Perché all’esterno non vedi l’ematoma, con quelli».
Ai margini, l’appello di Maria Ciuffi, madre di Marcello: «Mio figlio è morto sicuramente per un pestaggio. Non sono un medico, ma non sono neanche scema». Si rimane così, con le ennesime parole taglienti come lame, che squarciano il velo sulla situazione delle carceri in Italia – per l’Europa, «disumane e degradanti» -, in attesa che qualcuno decida di fare luce una volta per tutte sul caso Lonzi, su tutti i casi di malapolizia, su tutto quello che succede nelle patrie galere.
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