Le preoccupazioni di Wolfgang Munchau, editorialista del Financial Times e autodichiaratosi “guardiano dell'establishment”, sono motivo di soddisfazione per chi ha condotto la campagna per il NO sociale al referendum sulla controriforma costituzionale. Ma indicano anche come le vere preoccupazioni dell'establishment abbiano una cifra diversa dalle banalizzazioni e dalla reductio ad pocum che ci propinano i talk show televisivi (smettiamo di guardarli per favore, ndr).
Mentre qui si preoccupano dei soliti riti del politicismo, i guardiani si preoccupano delle conseguenze reali. In particolare sulla “tenuta” dell'Italia dentro l'Eurozona, non solo sul piano economico, ma soprattutto su quello politico. Una conferma in più che ciò che temono le classi dominanti è proprio la rottura dell'apparato di dominio costruito con l'Unione Europea e l'Eurozona.
Non temono dunque una generica protesta contro il liberismo o l'austerity, ma le proposte di rottura e fuoriuscita dai loro apparati. Diventa dunque decisiva l'ipotesi messa in campo in questi mesi – dal convegno sull'Ital/Exit di maggio a Napoli in poi – dalla Piattaforma Sociale Eurostop.
Ha saputo cogliere la contraddizione principale di questa fase, ha saputo costruire le condizioni per uno sciopero generale “politico” il 21 ottobre e per una espressione pubblica, popolare e di massa del NO sociale con la manifestazione del 22 ottobre.
Ha chiuso la campagna referendaria sotto le ambasciate della Germania, indicando e ammonendo contro le ingerenze esterne sul referendum.
Ha espresso con puntualità i contenuti e le forze del NO sociale sotto Palazzo Chigi la sera in cui Renzi è stato sconfitto e ha dato le dimissioni.
Un percorso coerente e sutto sommato lungimirante, anticipato da quei tre NO all'Unione Europea, all'euro e alla Nato sui è nato Eurostop esattamente un anno fa.
Alla luce della composizione di classe del NO nel referendum, è questo lo spazio politico e sociale – vasto, vero ed oggettivo – sul quale intervenire con efficacia nel nostro blocco sociale di riferimento, per quanto esso sia stato reso spurio dalla ristrutturazione degli anni '80 e dalla destrutturazione sociale successiva all'entrata in vigore del Trattato di Maastricht del 1992. Una visione e una funzione questa che non può che aumentare le distanze da una "sinistra" che vive con la sconfitta nel cuore e la paura nell'anima, tanto da non tentare neanche a gestire una vittoria, quando si presenta.
Nei prossimi giorni e nei prossimi mesi una nuova tabella di marcia è nell'ordine delle cose.
Qui di seguito riproduciamo un ampio stralcio del saggio di Wolfgang Munchau pubblicato su Eurointelligence all'indomani del risultato del referendum in Italia. Leggere con attenzione. (S.C.)
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Bentornati nella crisi dell'eurozona
di Wolfgang Munchau
Le dimissioni di Matteo Renzi dopo la vittoria schiacciante del No al referendum apriranno la strada a una crisi finanziaria, e secondo noi a una probabile uscita dall’euro; la rivolta dell’elettorato italiano contro l’establishment ha cause molteplici, ma per l’Italia sarà sempre più difficile dar vita a dei governi coerentemente pro-euro; il Presidente Sergio Mattarella nominerà probabilmente un governo tecnico col compito di stabilizzare il settore finanziario e di introdurre una riforma elettorale; l’Italia resta con un sistema bicamerale; il PD, l’unico grande partito coerentemente pro-euro, viene messo in crisi da questo voto, e si prepara al dopo-Renzi.
Ci sono due tipi di tragedie politiche. Quelle che si ripresentano come farsa e quelle che si trasformano in incubi interminabili. Le elezioni presidenziali in Austria fanno parte del primo tipo, il voto in Italia del secondo. Ciò che è scioccante, nel risultato italiano, non è la vittoria del “No” di per sé, ma la sua ampiezza – una maggioranza del 60% con un’affluenza al 70%.
Si tratta di un risultato che mette inquietudine a qualsiasi politico europeista in Italia e altrove. Questo risultato è destinato a confondere tutti quelli che avevano cercato di minimizzare il significato di una vittoria del “No” prima del referendum. Non si tratta più solo del fatto se il Movimento Cinque Stelle possa o meno arrivare a una maggioranza.
Il fatto è che in questo momento non c’è alcun sistema elettorale al mondo che possa portare a una stabile maggioranza pro-euro in Italia. Renzi era l’ultima possibilità che l’Italia aveva di rendere sostenibile la propria appartenenza all’euro, e lui l’ha distrutta. Certo, la preoccupazione più immediata riguarda l’incombente crisi bancaria e finanziaria. In proposito si legga il nostro resoconto sotto. Ma la prospettiva nel medio termine è ancora più preoccupante.
Siamo sostanzialmente in disaccordo con la visione prevalente, secondo la quale un nuovo governo tecnico potrebbe garantire stabilità politica. Renzi se n’è andato. Dubitiamo che rimarrà il leader del suo partito dopo una sconfitta così massiccia. Il voto potrebbe pure distruggere il Partito Democratico così come lo conosciamo. Date un’occhiata a come gongola Massimo D’Alema, ex primo ministro, nel celebrare la sconfitta di Renzi. Il predecessore di Renzi a segretario generale del partito, Pierluigi Bersani, che si chiedeva se l’insurrezione contro Renzi fosse quella di una pecora o di un toro, è stato salutato dai suoi sostenitori al grido di “toro”.
Il partito aveva accettato Renzi come proprio leader soltanto finché tirava ed era vincente. Ma non è mai stato gradito. Il discorso di dimissioni di Renzi è stato all’insegna della dignità, ma lo era anche quello di David Cameron poco dopo avere ammesso la sconfitta. Entrambi si erano giocati tutto e hanno commesso errori di valutazione di proporzioni storiche.
La politica non perdona. Ora vediamo l’Italia che si avvia sulla strada dell’uscita dall’eurozona, non tanto perché comprendiamo il meccanismo preciso col quale questa uscita avverrà o il momento in cui avverrà, ma perché comprendiamo la dinamica delle forze che stanno dietro questo processo.
A lungo abbiamo sostenuto che la combinazione di alto debito, zero crescita e un sistema bancario insolvente è incompatibile con l’appartenenza a una unione monetaria in cui la Germania fa da àncora deflazionistica.
Ciò che è insostenibile alla fine cadrà. La traiettoria precisa di questa fine potrà rimanere ancora poco chiara per un po’, ma il risultato di ieri ci dice che l’elettorato alla fine troverà il modo.
Siamo fortemente in disaccordo con l’opinione prevalente che circola tra i commentatori italiani, secondo i quali l’uscita dall’euro non è possibile perché non è consentita né prevista, o perché il sistema impedirà che avvenga. Ci sembra che siano tutti vittime delle loro pie illusioni. Le loro speranze appaiono molto più flebili alla luce fredda di questo mattino.
E dunque dove siamo diretti, da qui in avanti? Il Presidente Sergio Mattarella oggi accetterà le dimissioni di Renzi e nominerà un governo tecnico, che dovrà guidare il paese fino alle prossime elezioni. L’obiettivo di questo governo sarà la stabilizzazione finanziaria e la riforma elettorale. La legge attualmente esistente assumeva che la riforma costituzionale sarebbe stata approvata, e dunque non dava alcuna disposizione per l’elezione del Senato. Una nuova legge elettorale è dunque necessaria per questo motivo, ma non sarà cruciale nel determinare la direzione politica fondamentale del paese.
Da un punto di vista tecnico simpatizziamo con la proposta di Luciano Violante, un politico del PD, che sul Corriere della Sera di oggi suggerisce una riforma costituzionale molto limitata che introduca un voto costruttivo in stile tedesco, che non preveda la fiducia; vale a dire, il parlamento potrebbe ritirare la propria fiducia verso il governo solo se riesce a eleggerne un altro. Tutto ciò può essere sensato ma probabilmente non avverrà, e non risolverà il problema fondamentale.
Il problema dell’Italia non è la struttura del suo sistema politico, ma il suo contenuto, e più precisamente la mancanza di volontà politica di andare verso una convergenza economica con il resto dell’eurozona. Quando sarà finito il momento del governo tecnico, e questo dovrà dare il passo a un governo politico nel 2017 o 2018, ci aspettiamo che esso sarà anti-euro.
Renzi era l’ultima possibilità dell’Italia di avere un governo riformista. Renzi ha fallito perché ha tragicamente preferito dare la priorità al genere sbagliato di riforme.
Cosa accade ora alle banche italiane? La ricapitalizzazione della banca Monte dei Paschi di Siena era stata finora guidata dall’aspettativa di un successo all’elezione referendaria, non perché il referendum fosse direttamente legato alle banche italiane, ma perché l’incertezza politica risultante da una vittoria del “No” avrebbe rischiato di far deragliare tutto il processo. La sconfitta di Renzi al referendum si è ora materializzata. Cosa succederà, ora, a Monte dei Paschi e al resto delle banche italiane? Per ora Monte dei Paschi non è fallita. La conversione volontaria del debito subordinato della scorsa settimana è riuscita a malapena a raggiungere l’obiettivo di un miliardo di euro. Il prossimo passo, tuttavia, è in dubbio.
Prima che si sapesse il risultato del referendum, il Sole 24 Ore scriveva che i rappresentanti del fondo sovrano del Qatar oggi avrebbero incontrato la dirigenza del Monte dei Paschi per un “anchor” investment di un altro miliardo, a patto che il risultato del referendum fosse positivo. Ora ci si aspetta che l’accordo venga cancellato e che ci sia l’ingresso di un altro miliardo di capitale proveniente da investitori statunitensi. Senza questi investimenti Monte dei Paschi dovrebbe raccogliere non due, ma quattro miliardi di euro in una campagna di rifinanziamento da lanciare alla fine di questa settimana. Ci si aspetta che ora questo piano venga scartato.
In un editoriale, il Sole 24 Ore chiede un salvataggio pubblico di Monte dei Paschi – che era già stato approvato dalla Banca d’Italia prima dei risultati degli stress test di questa estate – salvataggio che dovrebbe essere messo in atto immediatamente per evitare il rischio di contagio, in particolare verso il programma di raccolta di capitale da parte di Unicredit, che dovrebbe iniziare col nuovo anno. Sul Corriere della Sera, Federico Fubini delinea il salvataggio pubblico che è stato concordato con la Commissione Europea come misura di emergenza. In caso di immediato stress di mercato per il sistema finanziario italiano, il governo dovrebbe effettuare una ricapitalizzazione “precauzionale” relativa ai buchi di bilancio di Monte dei Paschi evidenziati dai risultati degli stress test pubblicati in estate. Tutto il debito subordinato di Monte dei Paschi sarebbe spazzato via, sebbene gli obbligazionisti al dettaglio potrebbero poi essere risarciti.
Secondo tre fonti citate dal Financial Times, i risarcimenti sarebbero limitati a 100.000 euro a persona, assimilando gli investimenti al dettaglio in debito subordinato ai depositi garantiti. Il costo politico sarebbe elevato, ma limitato dall’impegno a risarcire le famiglie. Sarebbe decisamente inusuale per un governo dimissionario emettere un necessario decreto di urgenza come questo, ma Renzi non ha ancora formalmente presentato le sue dimissioni al Presidente della Repubblica. Fubini spera che, se il salvataggio di Monte dei Paschi sarà condotto impeccabilmente, si possa evitare il contagio al resto del sistema bancario italiano.
Un altro scenario possibile è quello che la direzione di Monte dei Paschi comunichi ai supervisori bancari che intende cancellare il piano di ricapitalizzazione, e che il Sistema Unico di Supervisione europea decida di attivare la risoluzione bancaria. Dopo la risoluzione, la ricapitalizzazione pubblica non può essere considerata precauzionale. La sequenza degli eventi qui è critica. Fubini assume che il Sistema Unico di Supervisione darebbe a Monte dei Paschi più tempo per raccogliere capitale, sebbene a rigore non sia tenuto a questo. Piuttosto, la risoluzione sarebbe coerente con l’approccio rigido adottato dal supervisore bancario nel corso di quest’anno. Ma sarebbe anche un primo caso di risoluzione di una banca .
Come detto prima, a parte alcune delle banche più piccole che si trovano in difficoltà, come la Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Carige, che devono tutte liberarsi dei crediti inesigibili e raccogliere capitale, sebbene in misura minore di Monte dei Paschi, a tutti viene in mente Unicredit. Il Financial Times ricorda che Unicredit sta pianificando di raccogliere capitale per 13 miliardi di euro, che è una somma enorme, specialmente se la raccolta avviene insieme a una vendita di asset, ma i banchieri sono ottimisti su questo. Una parte della vendita di asset è già in corso.
Proprio questo fine settimana, il Financial Times riportava la vendita di Pioneer Investments da parte di Unicredit; French Amudi lo acquisterebbe, ed è vicino alla conclusione dell’affare per una cifra di oltre tre miliardi di euro. Una risoluzione rapida e ordinata della crisi di Monte dei Paschi, che eviti un più ampio stress sui mercati, sembra un prerequisito necessario per la riuscita della ricapitalizzazione di Unicredit. Data la sua dimensione e la sua attività internazionale, se Unicredit andasse in difficoltà ci sarebbe una vera crisi.
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