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Si chiamava Palestina, si chiama Palestina

“….Su questa terra ha diritto alla vita. Su questa terra, Signora alla terra, La madre dei principi madre delle fini. Si chiamava Palestina. Si chiama Palestina. Mia signora ho diritto, che sei mia signora, ho diritto alla vita.”

Mahmud Darwish

Darwish ci guarda, fiero e amorevole, da un ritratto appeso alla parete, quando entriamo nella sede di Beit Aftal Assomud a Mar Elias, uno dei campi profughi palestinesi di Beirut.

Beit Aftal Assomud, La Casa dei figli della Resistenza, é un’associazione nata nel 1976 dopo il massacro di Tal El Zaatar, per prendersi cura degli orfani del massacro, ed é presente oggi in 12 campi profughi del Libano per intervenire sull’istruzione dei bambini, sulla loro salute, per dare loro l’assistenza sociale e sanitaria di cui necessitano. Un meraviglioso quanto indispensabile modello di welfare, scaturito dalla resilienza del popolo palestinese.

Mar Elias é uno dei cinque campi profughi visitati dalla delegazione internazionale organizzata dal Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila nel 37° anniversario del massacro.

Quello che troviamo è un paese in condizioni di arretramento generale, economico e sociale, un paese che non produce, importa per 22 miliardi di dollari ed esporta 2 miliardi di dollari. E’ un paese in cui 1 milione di libanesi su un totale di 4 milioni e mezzo vive al di sotto della soglia di povertà, la disoccupazione giovanile raggiunge il 40%, dove il popolo non ha diritto all’assistenza sanitaria perché il sistema sanitario è prevalentemente privato, il sistema della pubblica istruzione è carente, non ci sono né industria né agricoltura sviluppate, né pensioni dignitose per gli anziani, né politiche protettive per i giovani, dove non esiste il trasporto pubblico e le infrastrutture sono inadeguate.

Un paese che ha da poco varato una legge razziale che discrimina i 500 mila profughi palestinesi equiparandoli a stranieri e privandoli quindi del poco lavoro che avevano, di un diritto al lavoro peraltro già pesantemente segnato dal divieto di praticare 72 professioni. L’effetto di questa legge sono stati licenziamenti di massa con la motivazione della mancanza del permesso di lavoro.

Un paese in cui stanno rientrando o sono già rientrati i collaborazionisti degli israeliani fuggiti con gli occupanti dopo la sconfitta. Particolare indignazione ha scatenato il rientro di Amer Fakouri, responsabile militare e della sicurezza dell’ex carcere di Khiam (visitato dalla nostra delegazione), un torturatore, carnefice di migliaia di uomini, donne e bambini.

Contro il suo rientro in Libano le associazioni degli ex prigionieri, sostenute dal Partito Comunista Libanese, dal Partito dei Nasseriani, da Hezbollah e da altre forze politiche libanesi, hanno costruito una imponente mobilitazione che ha portato al suo arresto.

Il Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila é là, in Libano, anche quest’anno come ogni anno dal 2000, per testimoniare che il più grande massacro che esiste è sradicare un popolo dalla sua terra e mandarlo via; è là per continuare l’opera di Stefano Chiarini e Maurizio Musolino, compagni fondatori del Comitato, entrambi prematuramente scomparsi negli anni scorsi; è là per rivendicare il diritto al ritorno per i profughi e per chiedere giustizia per le 3.500 vittime del massacro ad oggi ancora vergognosamente impunito di Sabra e Chatila.

Diritti e giustizia dunque le parole d’ordine del Comitato.

Nei campi non c’è nulla di tutto ciò. Nei campi c’è invece il risultato di una guerra che dal 1948 non è mai finita. E a cui drammaticamente se ne è aggiunta un’altra, perché dal 2011 oltre 1 milione e mezzo di siriani è profugo in Libano, dall’inizio dell’aggressione alla Siria ad opera di una coalizione internazionale che vede al suo interno le maggiori potenze economiche e militari del mondo.

Il risultato é la drammatica quotidianità dei campi palestinesi e siriani, che ti aggredisce impietosa appena ne varchi l’ingresso: é la miseria, la disoccupazione, la mancanza d’acqua e di elettricità, il senso di soffocamento, il sovraffollamento, i fili eletttrici che a Chatila come a Bourji Al Barajneh ti sfiorano il capo mentre a terra il fango ti lambisce i pantaloni, sono le malattie croniche fisiche e psicologiche.

Questo é il volto disumano del sionismo. Sono gli sguardi dei bambini, come sempre le prime vittime di ogni guerra, che dai loro grandi occhi neri urlano la disperazione di tutti i poveri del mondo. Un peso che non puoi togliere dalla valigia al tuo rientro a casa.

Bambini che appena ne hanno la possibilità riscattano il loro diritto ad un’infanzia normale, ad un’infanzia che vuole ridere, gioire, cantare, ballare, suonare, divertirsi, come durante lo spettacolo musicale a cui abbiamo assistito nel campo di BAS Bourj Al Shemali, un campo della città di Tiro, nel sud del Libano. Quel concerto che, ad ognuno di noi, ancora oggi al ricordo, lascia gli occhi lucidi.

Ma la disperazione e la barbarie dei campi a qualcuno non bastano. Non bastano agli Stati Uniti, che vogliono cancellare per sempre dalla storia il popolo palestinese, con il piano del secolo ordito da Trump. Non gli bastano, e allora ecco il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, e allora ecco i tagli all’UNRWA, ed ecco l’invenzione del governo libanese di dare la nazionalità ai palestinesi per cancellare il diritto al ritorno.

Ma, come ci ha detto il segretario del Partito Comunista Libanese, anche gli USA stanno vivendo una loro fase di arretramento. Non riescono più a fare quello che facevano prima, a fare cadere i governi, come è accaduto in Afghanistan, Iraq e Libia. Non lo hanno fatto in Siria, non lo hanno fatto in Iran.

E allora questa fase transitoria diventa centrale. Diventano centrali i colpi inferti all’imperialismo americano e al sionismo in Siria. Ma anche in Libano, come la risposta di Hezbollah all’aggressione israeliana del 25 agosto scorso, salutata con esultanza da tutte le forze della resistenza libanese e palestinese.

Quello a cui abbiamo assistito durante il nostro viaggio è un esempio senza pari di resistenza a questa aggressione che dura da 71 anni, ad opera di potenze enormemente superiori a livello militare, che ha comportato indicibili pene, privazioni, soprusi, perdite di vite umane, ma che nelle parole di coloro che abbiamo incontrato porta con sé un’infinita umanità e una prospettiva incancellabile di vittoria.

Perché, come dice Darwish, si chiamava PALESTINA. Si chiama PALESTINA.

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