1. Nella sua Storia della prima repubblica Aurelio Lepre ci offre, fra le molte altre, un’osservazione di particolare interesse: “Il mito della rivoluzione che si diffuse nell’immediato dopoguerra e si consolidò nei due decenni successivi ebbe caratteri del tutto particolari. Si sognò una rivoluzione che avvenisse per impulso esterno (crollo del ‘capitalismo imperialistico’ o definitiva affermazione pacifica del modello sovietico) e non a costo di una terza guerra mondiale e di una guerra civile. Una proiezione di questo sogno fu la vastità dei consensi che riscuoteva anche a livello di massa la teoria della crisi irrimediabile del mondo capitalista, che, si credeva, poteva essere in qualche modo ritardata, ma non evitata. Essa consentiva di ritenere raggiungibile, grazie alla forza dei processi storici, un obiettivo a cui non si voleva rinunciare ma di cui, in concreto, non si vedeva nessuna scorciatoia per arrivarci”. E aggiunge Lepre che lo stesso mito di Stalin aveva, in questo senso, addirittura una funzione tranquillizzante: tanto che Elio Vittorini poteva contrapporre il saggio gradualismo del “piccolo padre” georgiano al rigorismo rivoluzionario di un Lenin.
L’idea che guida le brevi note che seguono è che una tale visione evoluzionistica del superamento del capitalismo o della costruzione del “mondo possibile” si è imposta, con le debite varianti, fino agli inizi del XXI secolo, e che la crisi l’ha resa ormai inservibile, suonando nuovamente l’ora di Lenin.
2. Che un forte evoluzionismo sia il pur velato nume tutelare di quasi tutte le strategie anticapitaliste della seconda metà del vecchio secolo e degli albori di quello nuovo è cosa difficile da negare. La crescita della democrazia progressiva, poi quella del contropotere operaio, poi quella dei soggetti desideranti, infine quella della democrazia partecipata, dell’economia sociale e della moltitudine, tutte a loro modo presuppongono che il capitalismo tenda per propria natura ad estinguersi, o perché intossicato dal lento veleno di una crisi storica, o perché minato dalle nuove relazioni e dai nuovi soggetti che il suo stesso sviluppo è costretto a creare.
Una simile comunanza di prospettive fra strategie pur diversissime, (dovuta soprattutto al loro comune situarsi in una lunga fase di sviluppo – pur se a volte pensato come crisi sotterranea – del capitalismo) è resa ironicamente evidente dal sottile nesso che lega il moderato stalinismo dei comunisti post ’45 alle attuali iperdemocratiche apologie della moltitudine. In entrambi i casi il soggetto della trasformazione rivoluzionaria non si afferma nel precipitare della crisi (fosse anche un precipitare non istantaneo, ma scandito nel tempo), bensì nello sviluppo delle forze produttive: la scienza, la produzione centralizzata, la classe operaia nel primo caso; la comunicazione, la cooperazione sociale, il proletariato cognitivo nel secondo. E in entrambi i casi il capitalismo, di fronte alla crescente socializzazione della produzione, sembra divenire un puro guscio formale, tanto che ci si può illudere che basti situarsi nel punto più alto di quella socializzazione (lo Stato per gli uni, la cooperazione orizzontale per gli altri) per poter convivere col capitalismo stesso enucleandone le relazioni sociali comunistiche, e quindi lavorando al progressivo e definitivo affermarsi di ciò che già esiste. Questa astratta analogia finisce però qui. Togliatti sapeva di dover accompagnare quell’evoluzione con la costruzione di istituzioni politiche, culturali ed associative del tutto diverse da quelle proposte dal capitale: il partito di massa, le organizzazioni popolari, le amministrazioni rosse. Su quella costruzione, pur criticandone doverosamente le premesse e gli esiti, abbiamo tutti vissuto di rendita per lungo tempo. I cantori della moltitudine pensano invece che essa realizzi già da ora la cooperazione comunista, che non necessiti di altre istituzioni che non siano quelle in cui già da ora produce e vive, e quindi che abbia bisogno solo del reddito universale per poter fare a meno del capitale: niente rivoluzione, quindi, ma nemmeno evoluzione, semmai rivelazione del fatto che la comunità produttiva ha già assorbito in sé tutte le potenze del capitale stesso. Peccato che nel frattempo il capitale abbia invece sequestrato per sé, ed al massimo grado, tutte le condizioni fondamentali della produzione e della riproduzione sociale.
3. Più recentemente, nella variante europea del pensiero che si è chiamato altermondialista (mentre la variante latino americana ha prodotto ben altre esperienze), l’evoluzionismo ha assunto una veste particolarmente compiuta. La teoria generale, esplicita o implicita, che ha guidato, e con qualche successo, le iniziative dell’ultimo decennio presuppone che il capitalismo, pur con tutte le sue ingiustizie ed i suoi squilibri, lavori in qualche modo a favore dei suoi antagonisti perché di fatto supera i confini territoriali ed istituzionali degli Stati nazionali, e rende così possibile una trasformazione che abbia immediatamente una dimensione mondiale e sociale. Presuppone cioè, questa teoria, che il superamento degli Stati nazionali, pur generando all’inizio numerosi problemi per le classi popolari, sia comunque un progresso in quanto consente di emanciparsi dalla forma ristretta, politicista ed autoritaria del socialismo di Stato, favorendo una nuova alternativa al capitalismo, immediatamente autorganizzata, sociale e mondiale. Presuppone quindi che la società abbia in sé stessa le forze per organizzare la propria vita indipendentemente dal capitale e dallo Stato, e che invece della conquista del potere politico sia da perseguire la crescita cumulativa delle potenzialità della società stessa, e quindi il progressivo svuotamento del potere del capitale e dello Stato. Tutti questi presupposti concorrono a concludere che non è necessaria una diversa proprietà dei principali mezzi di produzione o la creazione di una nuova direzione dello Stato, perché il capitalismo verrà a mano a mano sostituito dall’economia associativa ed il suo Stato verrà rimpiazzato dalla crescita della democrazia autorganizzata. Che non c’è bisogno di una teoria anticipatrice e di un progetto organico di società alternativa, perché tutto sarà risolto dalla convergenza delle esperienze concrete. Che infine non c’è bisogno, se non occasionalmente, di unificare forze in funzione di obiettivi determinati, variabili di fase in fase, perché l’obiettivo fondamentale è la crescita del movimento stesso
Questa teoria, che pure non è affatto priva di meriti, a causa del suo rifiuto di misurarsi con la costruzione dello Stato e dell’organico modello di produzione di domani, si ritrova paradossalmente a dipendere dalle strategie del capitale e dello Stato di oggi, a rimaner coinvolta nelle pratiche della governance, a proporre alternative economiche parziali ed insufficienti e quindi a non cogliere né il senso e la gravità della crisi attuale, né il significato e la direzione delle nuove rivolte popolari che la crisi già produce.
4. Ed è proprio la crisi il vero discrimine: se la sua esplosione ci riporta a Marx, la sua momentanea “soluzione” ci riporta a Lenin. Ci riporta cioè alla necessità di mettere le classi, la loro lotta e lo Stato al centro dell’analisi, e di immaginare un’alternativa sociale che non può più essere una correzione di un presente ormai inemendabile e deve piuttosto presentarsi come rottura della situazione data, come proposta di un nuovo e coerente sistema di produzione Non si può infatti comprendere la forma reazionaria delle risposte date alla crisi (maggiore centralizzazione del capitale, maggior potere dei capitalisti sugli Stati, intensificazione dello sfruttamento e della rapina delle risorse sociali e naturali) se si analizza la realtà solo in termini di “processi oggettivi” e non anche in termini di classi. Non basta parlare di globalizzazione e di crisi se non si indica anche (come si sarebbe espresso il giovane Lenin) quale classe precisamente gestisce l’una e l’altra, quale classe precisamente può opporsi ad una tale gestione, e quale diverso ordine sociale deve essere costruito per rendere efficace una tale opposizione. E’ il fatto che le classi responsabili della crisi restano saldamente al potere a generare le risposte reazionarie; è la maggior presa di queste classi sullo Stato a rendere possibili tali risposte; e sarà solo l’espropriazione di queste classi e la conquista (e trasformazione) dello Stato ad opera delle classi opposte a rendere possibile sia l’inizio di politiche economiche alternative sia l’inizio di un diverso ordine sociale. Riforma dei mercati finanziari, ridefinizione della struttura delle imprese, politiche fiscali espansive, politiche industriali progressive, riconversione sociale ed ambientale della produzione, tutte queste ed altre sensatissime proposte divengono delle semplici amenità o delle scappatoie se sono svincolate dalla denuncia delle classi che le rendono impossibili, dall’individuazione delle classi che, al contrario, potrebbero renderle possibili, dalla definizione dei passi necessari alla conquista dello Stato e della particolare forma che lo Stato deve assumere per poter servire ai nuovi scopi.
L’obiettivo della politica dei movimenti popolari diviene quindi, d’ora in poi, duplice. Da una parte deve esserci lo sviluppo delle istituzioni popolari di base, la crescita delle forme di autorganizzazione e di democrazia diretta e/o partecipata. Dall’altra deve esserci l’azione coordinata, scandita in tappe e fasi, finalizzata alla conquista e alla ridefinizione del potere di Stato. Da una parte il tempo lineare e cumulativo della crescita progressiva della soggettività popolare autorganizzata, dall’altra il tempo discontinuo e mutevole dell’intervento nella congiuntura politica. Da una parte l’agire cooperativo, dall’altra l’agire strategico. Senza l’uno non c’è l’altro. Senza il primo non c’è l’accumulazione delle conoscenze, delle relazioni e delle forze che consentano la conquista e trasformazione dello Stato e della produzione, non ci sono le autonome istituzioni popolari che, restando a distanza dallo Stato, riescano ad influenzarlo e trasformarlo senza però ridurre la politica socialista a statalismo. Senza il secondo non ci sono le risorse politiche, giuridiche ed economiche che consentano alle istituzioni popolari di costruire un nuovo ordine sociale e, prima ancora, di sopravvivere alla crisi.
5. Si dirà che classe e Stato non son più quelli di un tempo, e si dirà il vero. Classe è anche, oggi, lavoro mentale; è coacervo di diverse e diversissime frazioni (ma lo era già per Lenin); soprattutto, non sempre è il nome con cui i lavoratori possono esprimere al meglio la loro potenzialità politica. E così lo Stato non è più rinchiuso nei soliti confini istituzionali e nazionali, e “prendere” lo Stato non solo non equivale a “fare” il comunismo (lo sapeva, peraltro, anche Lenin), ma soprattutto comporta una strategia articolata che sappia discernere i diversi punti (istituzionali e sociali, pubblici e privati) in cui la statualità si esercita e si sposta, e sappia definire immediatamente un nuovo spazio sovranazionale in cui far vivere una nuova statualità. Ma senza l’analisi (e la lotta) di classe e senza lo Stato non si va da nessuna parte: ben lo dimostrano le classi dominanti, anch’esse assai diverse da prima, anch’esse frammentate, ma pur sempre capaci di “fare blocco” nel corso della crisi, concentrandosi, guarda caso, proprio sullo Stato come garante ultimo della loro sopravvivenza.
Il ritorno del problema, prima rimosso o edulcorato, delle classi e del potere di Stato, ci ricorda di nuovo che il superamento del capitalismo (ovvero il comunismo, ovvero la sua forma concretamente possibile che è il socialismo) non avviene per evoluzione, ma per rottura (o meglio attraverso una serie di rotture, tra cui quella nel potere e nella forma dello Stato). Ci ricorda che questo superamento non avviene come sviluppo delle potenzialità della situazione data, ma come costruzione di una situazione che non esiste ancora. Per realizzare una simile rottura, o serie di rotture, sono necessarie cose di cui da tempo si è persa la traccia: i) la definizione di uno scopo preciso, ovvero di una forma concreta di socialismo, che tenga conto delle caratteristiche specifiche di ogni formazione sociale; ii) l’analisi precisa delle concrete e variabili situazioni in cui di volta si presentano i rapporti fra tutte le classi e tra queste e lo Stato; iii) la definizione di una tattica che ogni volta riunifichi le eterogenee forze anticapitaliste facendole convergere sui variabili obiettivi che di volta in volta si mostrano come decisivi; iv) l’analisi precisa del contesto globale in cui si realizza questa tattica, e quindi dello spazio sovranazionale in cui essa possa svolgersi al meglio; v) la costruzione (e continua ricostruzione) di un soggetto politico unitario che possa guidare tutto questo processo. Come ognuno vede, per affrontare questi problemi è inevitabile rivolgersi a Lenin.
6. Rivolgersi a Lenin, non al “leninismo”, che è un insieme di tesi apparentemente coerenti e definitive (quindi imbalsamate, quindi…non leniniste) su imperialismo, comunismo, dittatura del proletariato, partito. Certo, Lenin non può essere pensato al di fuori del campo a cui queste tesi appartengono, che è quello della rivoluzione. Ma ciò che maggiormente deve interessarci, ora, non è questa o quella tesi, bensì il modo in cui ciascuna di esse viene prodotta. Ciò he deve interessarci è uno stile di pensiero e di azione, uno stile che può essere riassunto come continuo e costante spostamento rispetto alla situazione data. Lenin è la continua ridefinizione della situazione sulla base della dinamica della lotta di classe ed in funzione degli spazi che di volta in volta si aprono, o si chiudono, per l’azione del movimento popolare. Lenin è l’attenzione minuziosa per la singolarità, per l’irripetibilità di ogni momento storico, per il farsi concreto di una condizione inedita, e dunque per la mutazione costante della situazione obiettiva e dei soggetti che nella situazione agiscono. Lenin, quindi, è un continuo movimento di rottura nei confronti delle convinzioni, delle linee politiche e delle forme organizzative che, maturate in una situazione precedente, tendono inerzialmente a ripeterne i problemi e le soluzioni, e quindi a restare prigioniere di vecchi rapporti di classe, quando invece nuovi rapporti si presentano. Questo è il nocciolo fondamentale del concetto di partito (e dunque di politica comunista) in Lenin. Non l’idea (ricevuta da Kautsky) per cui il partito è teoria, quindi scienza, quindi luogo della verità contro l’empirismo e le illusioni dei movimenti. Ma l’idea di una politica che sposta continuamente le concezioni immediate dei movimenti e del partito stesso, innalzandole alla comprensione dei rapporti reciproci fra tutte le classi e fra le classi e lo Stato e quindi alla comprensione del mutamento continuo di questi rapporti. In funzione di un obiettivo comunista che, proprio perché non è semplice ideale, ma idea precisa di una società rinnovata, è sempre soggetto, anch’esso, ad una ridefinizione incessante.
7. Nelle società dell’occidente capitalistico il più importante mutamento rispetto alla situazione precedente è il passaggio da un “capitalismo inclusivo”, che ridistribuiva le briciole dei propri profitti, (anche se ormai solo nella forma precaria dell’indebitamento forsennato dei consumatori), ad un “capitalismo a somma zero” nel quale ciò che gli uni guadagnano gli altri perdono, nel quale, cioè, i profitti vengono assicurati sia da un’ulteriore compressione dei salari sia (ed in misura crescente) dalla rapina delle risorse precedentemente distribuite ai lavoratori attraverso lo Stato sociale. Non si insisterà mai abbastanza sull’entità e sull’importanza di un tale passaggio che modifica completamente lo scenario in cui tutte le generazioni militanti che sono ancora all’opera sono cresciute, hanno formato le proprie convinzioni, hanno definito i propri interessi e valori. Il mutamento, fosse anche graduale, incerto e lento (ma in realtà è spesso netto e deciso) è tale da rendere sempre meno efficace anche il più diffuso, capillare e raffinato sistema di controllo, ben più diffuso, capillare e raffinato del traballante apparato di consenso garantito dal nesso tra partiti, sindacati e Stato: ossia l’abbagliante e ininterrotto spettacolo della merce di cui tutti siamo da decenni spettatori. L’induzione all’iperconsumo può convivere con una finta opulenza, ma non con un reale immiserimento: diviene inefficace quando coloro che sono abituati a desiderare tutto si trovano a non poter possedere nulla. Il meccanismo fondamentale del consenso di massa alla società occidentale comincia ad incrinarsi alla sua stessa base. Il divorzio tra consumatori e merce renderà ancor più acuta quella accelerazione dello scollamento tra masse e partiti e quindi tra masse e Stato che è la vera, profonda novità di questa fase. Chi vuole costruire un nuovo ordine sociale non si troverà più costretto a tentare, vanamente, di conquistare una propria influenza di massa agendo in uno spazio già saldamente presidiato dalle grandi organizzazioni partitiche e sindacali. Non potrà cavarsela tentando di aggiungere il segno “più” alle mobilitazioni gestite da altri. Avrà a che fare con un processo discontinuo di esplosione sempre più disordinata e tendenzialmente violenta di conflitti popolari inediti, spesso esterni alle organizzazioni tradizionali, inevitabilmente segnati, all’inizio, da marcati tratti populisti. Non è detto che tutti i conflitti avranno questa forma né che tutti saranno immediatamente così estremi. Ma è certo che soltanto lotte di tal fatta saranno all’altezza della situazione, e che esse potranno essere interpretate e trasformate soltanto da chi saprà proporre sia obiettivi immediati unificanti, sia prospettive future capaci di rispondere a tutti i problemi di una nazione e di uno spazio sovranazionale.
8. Non è più questione, dobbiamo precisarlo, di “conquista delle casematte”: le casematte (la scuola, gli apparati del welfare, la produzione culturale, ma anche le fabbriche ed i quartieri popolari) le abbiamo conquistate negli anni ’70 del novecento. Per tutta risposta i nostri avversari le hanno prima di tutto distrutte, costringendoci ad uscirne verso un terreno aperto ed esposto, poi hanno inondato questo terreno, facendoci impantanare più di Napoleone a Waterloo, e infine, così impantanati ed immobilizzati, hanno iniziato a bombardarci con colpi ad “alzo zero”. Fuor di metafora, le casematte (ossia le istituzioni “orizzontali” dello Stato e le grandi strutture della produzione e della riproduzione sociale) sono state disarticolate o dissolte dalla privatizzazione, dalla flessibilità, dal decentramento, dalla trasformazione di tutta la produzione culturale in impresa capitalistica. Infatti, pur se nate come mezzo di disciplinamento esse avevano mostrato di poter diventare luoghi in cui, pericolosamente, i lavoratori potevano aggregarsi in maniera stabile, proteggersi dal mercato, inventare rapporti nuovi. Così il compito del controllo è stato affidato non più ad istituzioni stabili, ma ai flussi apparentemente ingovernabili della finanza, delle merci, dell’immaginario, tutti convogliati nella rete mondiale della comunicazione. Una rete in cui si impantana ancora oggi gran parte dell’intelligenza sociale, almeno quando questa potenziale intelligenza ritiene che i rapporti parzialmente liberi e paritetici (ma in realtà mediati dalle imprese della comunicazione) che si stabiliscono nel web possano risarcire l’acuirsi delle diseguaglianze reali, o quando sostituisce il pensiero con l’obbligo al commento breve, alla continua diversione tematica, alla logica binaria (mi piace/non mi piace) che la comunicazione stessa, in quanto momento della circolazione della merce, e quindi del capitale, non può non imporre.
Ma con l’incrudirsi della crisi nemmeno i flussi bastano più a garantire il controllo: e così le classi dominanti hanno messo mano ai vecchi strumenti, peraltro mai abbandonati, della coazione economica e della decisione politica, adeguandoli alle mutate condizioni generali. Chi ha interpretato l’avvento dei flussi come inizio della liquefazione del potere si è sbagliato di gran lunga. Essi infatti promanano da entità maledettamente solide e capaci di pensiero e strategia: gli apparati “verticali” dello Stato (resi ancor più efficaci dalla loro dislocazione sovranazionale) e le grandi imprese. Ed oggi i governi, le agenzie sovranazionali e le corporation, pur continuando a gestire il soft power dei flussi, modificano ulteriormente i rapporti tra le classi e quelli tra le diverse aree del capitalismo ricorrendo senza più ritegno all’ hard power, ossia alle armi pesanti del ricatto economico e di una forza politica che può ormai saltare le fastidiose mediazioni sociali appellandosi (in un quadro di rispetto formale della democrazia) alle costrizioni del mercato mondiale e delle sue istituzioni.
I flussi mostrano così di esser stati solo la preparazione all’uso della forza: l’uso congiunto del ricatto economico e della forza politica (che è forza non perché sia, al momento, violenza, ma perché è indiscutibile) diviene sempre di più la forma d’azione prediletta dalle classi dominanti nell’epoca della crisi, e le raffinate procedure inventate dal novecento per indurre gli individui ad una volontaria sottomissione cedono il passo all’esercizio diretto del potere.
Non sono le casematte, quindi, a dover essere conquistate, e nemmeno ci si può illudere di raggiungere il comunismo navigando nei flussi del capitale: è piuttosto il quartier generale che deve essere preso, è ad esso che bisogna approssimarsi, per tappe e per fasi, è contro di esso che deve essere di volta in volta aggregata la volatile, mutevole, disordinata realtà dei futuri (ma in realtà già presenti) movimenti popolari. Nella rottura (per quanto incerta, per quanto tendenziale, per quanto reversibile possa essere) del rapporto tra masse e Stato, nella necessità di convergere contro il quartier generale avversario (ossia contro il punto in cui di volta in volta si condensa la pluralità dei centri del potere avversario), nella conseguente necessità di proporre un diverso ordine sociale, suona nuovamente, come si diceva all’inizio, l’ora di Lenin. Ma non è, a rigore, né un ritorno di Lenin presso di noi, né un nostro ritorno al leninismo. E’ piuttosto un ritorno di quello che chiameremo “momento Lenin”, in assonanza con quel “momento Minsky” che designa, col nome dell’economista che l’ha preconizzato, l’inevitabile ed endogeno esplodere della crisi finanziaria del capitalismo. E’ il momento in cui ha sempre agito Lenin, nelle convulse vicende delle due rivoluzioni russe (1905-1917): un momento in cui lo Stato mostra la propria natura profonda, tutte le precedenti convinzioni del movimento popolare vengono sconvolte, tutti i precedenti schieramenti vengono ridefiniti ed in cui i soggetti politici del movimento, se vogliono essere all’altezza della situazione, devono mutare radicalmente idee e stili di intervento. Ma è un momento che noi siamo costretti ad affrontare senza Lenin, ed almeno per tre ordini di motivi.
9. Il ritorno del “momento Lenin” avviene nell’assenza (a volte temporanea, a volte definitiva), di molte delle condizioni presenti all’epoca del leader bolscevico. Si può anzi dire – ma qui non è possibile argomentarlo – che tutte le singole risposte date da Lenin sulle questioni dell’imperialismo, della classe, della dittatura del proletariato e del comunismo non sono più soddisfacenti. Ma si deve anche aggiungere che tutte le domande di Lenin sono ancora decisive, inaggirabili. Quali contraddizioni mondiali si aprono nello sviluppo ineguale del capitalismo, e come è possibile utilizzarle? Quale alleanza costruire tra le diverse frazioni del lavoro e tra esse e tutti gli strati sociali diversamente colpiti dal capitalismo? Come spezzare il potere politico delle classi dominanti e come costruire un nuovo Stato che sia anche, da subito, un “non-Stato”? E così via.
Ci si concentri di nuovo, fra le tante, sulla questione del partito. L’esigenza fondamentale di Lenin, al riguardo, è quella di distinguere sempre fra due modalità della lotta di classe e popolare: una che resta interna alla logica della riproduzione del capitale e l’altra che costruisce le condizioni organizzative, culturali e politiche per fuoriuscirne. Ammesso che la risposta di Lenin stia nel contrapporre l’organizzazione alla “cattiva” spontaneità (ma le tesi del Che fare? sono, sul punto, infinitamente più ricche) si può ragionevolmente ritenere che questa risposta sia oggi, come si dice, “superata” (perché la stessa “organizzazione”, ossia il partito, ha dato troppo spesso una pessima prova di sé, perché molte volte i movimenti extrapartitici mostrano più intelligenza delle segreterie di partito, perché le funzioni che nel novecento spettavano al solo partito oggi sono distribuite – quasi come nell’ottocento – su diverse ed autonome “istituzioni di movimento”…). Ma non si può ritenere che sia “superato” il problema di distinguere le diverse forme dell’azione di classe e popolare, e di selezionare e generalizzare quelle più adeguate. Oggi è anzi particolarmente necessario lottare contro le forme che si attardano a chiedere la “buona” globalizzazione, la “buona” Europa, la “regolazione” del mercato finanziario (come se fosse possibile arrestare uno tsunami con una diga di cannucce) e via vaneggiando, ed è particolarmente necessario operare una frattura con le strategie nate prima della crisi. Una tale frattura, però, non passa più fra movimento e partito, fra esperienza e teoria, fra spontaneità ed organizzazione, ma attraversa ciascuno di questi poli, partito compreso, e può essere portata alla luce oggi da un partito, domani da un movimento, dopodomani da una rete di media, a condizione che nei partiti, nei movimenti, nei media agiscano gruppi politico-intellettuali di lavoratori capaci di direzione all’interno di una congiuntura data, capaci cioè di svolgere quella che potremmo chiamare la “funzione Lenin”.
10. E con ciò veniamo al secondo dei motivi per cui siamo senza Lenin. Ossia al fatto che non esiste un Lenin, e, più ancora, non esistono gruppi che possano svolgere la “funzione Lenin”. Che non esista un Lenin non è la cosa più grave, anche se non si deve sottovalutare il ruolo delle personalità nella storia, non foss’altro perché si è fatta larga esperienza degli effetti nefasti delle personalità negative. Ciò che è grave è che non esistano gruppi politico-intellettuali capaci di sostituire Lenin, ossia di porsi all’altezza della nuova situazione. Del resto, ciò è in parte inevitabile: giungono all’appuntamento con gli anni nuovi gruppi dirigenti formatisi negli anni vecchi, quelli dell’ evoluzionismo, dell’adeguamento, della declamazione poetica e della prassi prosaica, della fatuità e dell’approssimazione, del pluralismo concepito non come metodo per produrre idee determinate, ma come indeterminato coacervo di affermazioni contraddittorie. Anni in cui, soprattutto, l’ideologia della comunicazione ha sostituito l’obbligo del pensiero ed ogni nuova nozione, appena elaborata, invece di divenire oggetto di approfondimento analitico, è divenuta informazione da immettere nella rete, moneta per accedere a questo o quell’ambiente, gergo di reciproco riconoscimento, segno di un qualche specialismo da custodire gelosamente. Anni in cui dire qualcosa, comunicarla, appunto, sembrava assolvere dal compito di farla, di metterla alla prova in una pratica comune ed organizzata, di modificarla in base all’esperienza. Anni di comunicazione, e non di lavoro politico.
I tempi ci costringeranno a prendere le cose sul serio, perché ormai ne va della nostra esistenza politica e, forse, non solo di quella. E ci costringeranno a formare gruppi politico-intellettuali uniti da una comune analisi dei problemi nazionali ed internazionali, forti di un progetto concreto e dettagliato, esperti in tutti i campi del sapere, capaci di tutti i linguaggi. E, in conseguenza di tutto ciò, legati da una profonda solidarietà. Sia chiaro: non ci aspettiamo eroi od eroine. Basterebbe avere la mentalità di un onesto militante comunista o socialista degli anni ’70 dello scorso secolo: essere cioè convinti del fatto che la politica è realizzazione di un’idea di giustizia e di eguaglianza; che la realizzazione di questa idea può essere realisticamente differita nel tempo, ma che in ogni situazione si deve fare di tutto per avvicinarsi ad essa; che ci vuole una sostanziale coerenza personale; che per fare politica si deve studiare e lavorare; che nel fare politica non ci si deve arricchire, o comunque elevare al di sopra della propria classe. E’ troppo? Fortunatamente no: molti e molte, tra noi, già sono così, molti saranno costretti dai fatti, oltre che dalla propria coscienza a conformarsi a questo sobrio modello di militante, molti giovani si avvicineranno alla politica in questo modo.
Ma per formare i gruppi dirigenti che ci servono è necessario che questi militanti nuovi o rinnovati vengano unificati con un grande sforzo soggettivo, a tratti giacobino, e che si capisca che gruppi di tal fatta, per elaborare in maniera continuativa le idee forti oggi necessarie, devono essere ovviamente aperti alla discussione con tutti, ma anche relativamente chiusi al loro interno, devono costituirsi più per cooptazione che per elezione e dotarsi della volontà di far vincere le proprie tesi. Possono anche, in certe fasi, dividersi e disperdersi: ma devono comunque essere in grado di “fare blocco” nei momenti di crisi. Questo è, in genere, il modo in cui si costruiscono e si affermano le idee valide. Non si tema di creare piccole sette, germi, magari, di involuzioni verticistiche o semi autoritarie. Prima di tutto perché non si parla, qui, di un solo gruppo (infatti non c’è un modo solo di dire la verità), ma di diversi gruppi in cooperazione e competizione tra loro; poi perché ogni gruppo non deve necessariamente fondare o rigenerare un partito, ma deve piuttosto accogliere membri di diverse istituzioni di movimento; poi perché il partito non sarebbe comunque l’unico soggetto politico del movimento popolare; ed infine perché lo scopo di ciascuno di questi gruppi dovrà comunque essere un socialismo pluralista. Una volta acquisita l’idea che il movimento popolare deve essere pluralista, e pluralista la società a cui esso tende, una volta acquisito ciò, l’unità, la coesione e l’univocità di indirizzo dei gruppi costitutivi di questo pluralismo può spaventare solo chi confonde la dialettica delle idee con l’indifferenza postmoderna (e quindi ormai arcaica) per la verità.
11. Ed infine, Lenin è sempre e comunque “senza Lenin”. Agisce sempre, cioè, senza che siano assicurate le condizioni del suo operare. Proprio perché si distacca continuamente dalla situazione precedente, la “funzione Lenin” consiste nel negare la validità delle forme politiche date e dunque nel ricostruire senza posa forme politiche nuove, transitorie anch’esse. Il mito della granitica compattezza del partito bolscevico è, appunto, un mito: in tutti i momenti cruciali della sua azione, Lenin è “solo”, è in minoranza, è spesso preso quasi per matto, è una minaccia per tutti coloro che restano su posizioni ormai battute dal tempo. Questo presunto teorico della “politica assoluta”, questo grande costruttore di macchine politiche centralizzate ed efficienti, è in realtà anche il più grande “dissolutore” delle forme politiche in funzione della costruzione delle migliori condizioni per l’emancipazione popolare; in tal senso è il miglior critico della politica, proprio perché non difende mai nessuna soluzione politica per sé stessa, non si “accomoda” mai in nessuna delle organizzazioni che pure ha costruito, non ne lucra una qualunque rendita di posizione, ma tutto giudica in funzione delle esigenze dell’emancipazione popolare: come testimoniano i suoi feroci, e spesso ferocissimi strali contro il suo stesso partito, contro lo stesso Stato “proletario”. Per questo motivo si può dire che tutte le nostre riflessioni sulla forma della politica, tutta la nostra sacrosanta preoccupazione di evitare che il mezzo corrompa il fine, e quindi tutte le necessarie prese di distanza da molte delle singole idee di Lenin sul partito, sui soviet, sulla dittatura proletaria, non raggiungono il loro scopo se non riprendono, su questo punto, lo stile di Lenin, se non comprendono che qualunque forma politica può essere catturata dall’avversario e che anche la più democratica delle organizzazioni può trasformarsi nel suo contrario, quando resta prigioniera della situazione che l’ha generata. Proprio come avviene, oggi, alla “democrazia di movimento” nata a Seattle, a Porto Alegre, a Genova: formidabile elemento di aggregazione di nuovi soggetti politici, centro di sperimentazione di quella gestione della molteplicità che è divenuta acquisizione irreversibile di qualunque movimento popolare, ma a tutt’oggi incapace di uscire dai suoi limiti di classe, che si riassumono nell’essere, pur con significative eccezioni, movimento della frazione “colta”, “qualificata” del popolo e non dell’insieme delle frazioni popolari, movimento di negoziazione di spazi liberi all’interno di un sistema che deve invece oggi essere ribaltato completamente, movimento che tutto risolve con la “partecipazione” quando la maggior parte del popolo non ha più il tempo e le risorse per partecipare ad alcunché.
12. Ecco riassunti i motivi che ci fanno dire che, pur senza Lenin, è suonata di nuovo l’ora di Lenin. I pensatori da “libro nero” negheranno quest’evidenza, o la riterranno foriera di sventura, ma di loro, qui, non ci curiamo. Dal “gracidante limo dei neòteroi” (così a Montale capitò di definire gli innovatori letterari ad oltranza) si alzerà invece il solito cra cra: “troppo vecchio!”, “abbiamo bisogno di aria nuova!”, e via banalizzando. A costoro diremo, una volta per tutte, che l’opposizione tra vecchio e nuovo non ha nessun valore, né conoscitivo, né politico, né etico. Anzi, visto che la continua creazione di nuovi prodotti serve a tenere in piedi un sistema che si fonda su vecchi rapporti sociali, verrebbe da aggiungere che l’innovazione è oggi una delle forme della reazione.
Ma lasciamo da parte questo discorso: ci basti dire che ciò che veramente deve interessarci non è né il nuovo né il vecchio, bensì la comprensione di ciò che ritorna (perché se ritorna vuol dire che ha qualcosa a che vedere con l’essenziale) e della forma inevitabilmente originale ed inedita che questo ritorno assume. Ed è proprio di Lenin il saper comprendere, con un solo gesto politico e teorico, sia il riemergere delle irrisolte contraddizioni del capitalismo, sia l’aspetto inatteso e sorprendente che ogni volta esse assumono.
E’ per questo insieme di cose che noi dobbiamo, oggi, “occupare Lenin”, ossia riconquistare lo spazio di pensiero politico che Lenin ha inaugurato, riportarci, diversamene da Lenin e senza di lui, nel campo del continuo riproporsi e del continuo trasformarsi del tema della rivoluzione.
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Si riveda a tal proposito anche il discorso pronunciato da Mao Tse Tung nel 1957 “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”,testo fondamentale per la comprensione della dialettica masse/partito e suo rapporto con lo stato socialista in fase di costruzione.Gli spunti di riflessione qui proposti sono,ancora oggi,di straordinaria attualità e vitalità, anche in rapporto alle avvenute e dirimenti,nuove articolazioni e frammentazioni del movimento di classe.