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“Il socialismo è in cammino, dalle Ande al Mediterraneo”

 

Il socialismo è in cammino? Sembra che una delle realtà politiche più avanzate delle sinistre siano oggi i paesi dell’America Latina: non solo l’Argentina ed il Brasile protagonisti di boom economici che cambiano gli equilibri politici, economici ed energetici del globo, ma anche i paesi dell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra America), come Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Nicaragua, dove movimenti di ispirazione rivoluzionaria e di carattere socialista sono arrivati al governo ed hanno avviato programmi di investimenti sociali e nazionalizzazione delle grandi imprese. Nuove riflessioni su questi processi e le loro prospettive sono state stimolate dalla scomparsa (solo fisica perché è sempre vivo il suo pensiero!), poche settimane fa, di Hugo Chavez, che era stato il primo e principale sostenitore di un indirizzo esplicitamente socialista e di un cambiamento dei rapporti di forza internazionali, anche guardando al per lungo tempo isolato esempio di Cuba (socialista). E proprio a partire dalla collaborazione tra Venezuela e Cuba è nata nel 2004 l’alleanza dell’ALBA, si è allargata a Nicaragua, Ecuador, Bolivia, e le isole caraibiche di Antigua e Barbuda, Saint Vincent e Granadine. La struttura fondamentale di questa alleanza è una rete di scambi commerciali fondata non sul profitto, ma sulla solidarietà e complementarità delle risorse (in origine fu lo scambio del petrolio venezuelano con i medici cubani), e regolata da una propria moneta di conto, il Sucre.

Nell’occasione di una commemorazione del comandante Hugo Chavez organizzata dalla Rete dei Comunisti al Polo Carmignani a Pisa, abbiamo incontrato Luciano Vasapollo, docente di Metodi di Analisi Economica  alla Sapienza, Università di Roma ed economista attivo nella Rete dei Comunisti, che da trent’anni studia e frequenta l’America Latina ed è collaboratore per i temi della pianificazione economica di varie istituzioni, anche governative, di diversi paesi dell’ALBA.
Le domande che seguono sono state elaborate insieme a Francesco Marchesi ed Andrea Califano.


Cominciamo con una domanda di “riscaldamento”. L’elezione al soglio di Pietro di un argentino – Jorge Mario Bergoglio – anche al di là delle sue eventuali responsabilità o dei suoi silenzi durante gli anni della dittatura, ha fatto pensare a molti a una riedizione del modello Wojtyla, volto a far leva sui sentimenti religiosi delle masse sudamericane per indebolire i governi di sinistra. Certo le differenze non sono poche, a partire dalla forte e sbandierata fede cattolica di molti leaders della regione: un caso esemplare è la dichiarazione di Maduro secondo cui Chavez sarebbe intervenuto dal cielo per favorire l’elezione di Bergoglio.

Per poter dare delle risposte anche riguardo alla religiosità in America Latina bisogna conoscere in profondità quei popoli e quelle culture; in Europa soprattutto la sinistra è imbevuta di forte eurocentrismo e ha un rapporto con l’America Latina di natura neo-coloniale, che impedisce di comprendere che per esempio a Cuba la gente anche iscritta al partito è spesso religiosa – cattolica o legata a varie forme di sincretismo – e lo stesso avviene in Venezuela. Non mi meraviglia la battuta di Maduro: conosco da molto tempo e in profondità quella regione e trovo che quella affermazione rappresenti perfettamente lo spirito e l’atteggiamento venezuelano nei confronti della religione che è parte della cultura popolare.

Riguardo al Papa, dovremmo certamente giudicarlo sulle cose che farà, certo ci sono una serie di questioni che fanno riflettere: non sono solo voci quelle che circolano riguardo al suo schieramento durante la dittatura fascista in Argentina, sono fatti circostanziati. Se un governo con la  presidente come Kirchner, sicuramente una democratica e una progressista ma non certo una marxista, fa dichiarazioni in cui si afferma che l’attuale Papa fino a poco tempo fa era schierato con l’opposizione, i sospetti paiono fondati.

Tra l’altro quando è servito demolire il blocco sovietico, il Papa polacco e la Chiesa cattolica hanno svolto un ruolo centrale, basti pensare proprio a Solidarnosc; oggi in America Latina, seppure in forme molto diverse, esistono governi di transizione verso il socialismo e altri che, pure non essendo socialisti, hanno forti connotati anti-imperialisti, progressisti e democratici. Che sia stato eletto un Papa argentino con quel passato fa pensare certamente al precedente di Wojtyla; insieme al terrorismo militare e mass mediatico dispiegato dagli Stati Uniti e dall’Occidente non è improbabile che anche la Chiesa cattolica possa svolgere un ruolo di depoliticizzazione; i presupposti purtroppo ci sono, ma speriamo che non si realizzi quanto stiamo dicendo.

 

Passiamo all’argomento ALBA: si può dire che, confrontandola con il modello socio-economico proposto dall’Unione Europea e basato sul free trade, l’ALBA abbia elaborato una forma di fair trade, imperniato sui bisogni della popolazione? In generale che forma assume questa integrazione tra Stati?

Il processo di integrazione latino-americana è qualcosa di più generale e complesso rispetto all’integrazione semplicemente bolivariana. Sinceramente i termini che avete usato non mi piacciono proprio: il modello è, da una parte, il neo-liberismo sfrenato dell’Unione Europea, imperniato sulla leadership tedesca e sulla costruzione di un polo competitivo alternativo all’area del dollaro, i cui punti caratterizzanti sono le esportazioni tedesche e la deindustrializzazione dei paesi mediterranei. All’interno poi di una nuova divisione internazionale del lavoro che comporta attacchi allo Stato sociale e al costo del lavoro, precarietà diffusa e che produce, di fatto, un nuovo colonialismo interno in cui i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna), diventati paesi importatori, rappresentano la colonia interna a uso e consumo della Germania, producono deficit e debito che viene poi comprato dal surplus nella bilancia dei pagamenti dei paesi del Nord. Una oligarchia non solo bancaria ma in generale politico-economica, volta alla costruzione di un nuovo polo imperialista.

La costruzione dell’ALBA è, dall’altra parte, qualcosa di molto più serio: lì non si sta giocando semplicemente una partita progressista e democratica, ma quella dell’edificazione di ciò che, dati i rapporti di forza internazionali, Castro chiama “il socialismo possibile”. Oggi non c’è l’URSS, non c’è nemmeno un rapporto di forza favorevole ai movimenti anti-colonialisti e comunisti. Ma come si pesa e come si considera una rivoluzione, perché di questo si tratta? L’ALBA pone al centro dei suoi processi costitutivi la socializzazione dei mezzi di produzione, la nazionalizzazione delle risorse – in primis il petrolio – e del sistema bancario; un sistema economico e produttivo in cui gli scambi si basano sulla solidarietà e sulla complementarietà e non sulla legge del profitto: è una transizione al socialismo che si costruisce sulle macerie del capitalismo, che certamente ancora sopravvivono.
Per analizzare fino in fondo l’ALBA bisogna coglierne lo spirito: non si sta costruendo un socialismo sulla base di un unico modello da esportare, come è avvenuto in Europa in passato. Si tratta di socialismi che hanno percorsi, culture, modelli differenti: il socialismo comunitario di Evo Morales è diverso dalla rivoluzione cittadina di Correa, è diverso il socialismo bolivariano di Chavez e del Venezuela, o il socialismo martiano e marxista di Cuba, ma sono tutti uniti intorno alla costruzione di una società che, in questa fase di transizione, può essere definita un socialismo non di mercato ma con mercato, che mette in discussione in maniera profonda la legge del profitto.

Come si configura all’interno di questa descrizione dell’ALBA, il protagonismo del Venezuela, o, si potrebbe dire, la sua egemonia? Alcuni critici che si collocano all’estrema sinistra hanno anche parlato di un imperialismo interno non molto diverso da quello dell’URSS.

Queste posizioni esistono e sono portate avanti da alcuni gruppi trotzkisti che fanno dell’estremismo e del settarismo il loro cavallo di battaglia. Frequento quelle zone e vedere che, spesso, organizzazioni trotzkiste sono schierate con l’opposizione di destra e con le oligarchie è estremamente fastidioso, ma soprattutto dannoso per lo sviluppo dei processi rivoluzionari. Non c’è molto da aggiungere sull’argomento se non citare Lenin quando definiva l’estremismo la malattia infantile del comunismo.

Più nel merito non parlerei di egemonia venezuelana: ricordiamoci che l’ALBA nasce come accordo politico, sociale ed economico tra Venezuela e Cuba, in cui i due paesi partono da strutture socio-produttive e politiche differenti. In Venezuela, nel 2004, vigeva ancora la mono-produzione del petrolio, mentre il miglior risultato della grande rivoluzione cubana è stato certamente lo sviluppo del talento umano attraverso una forte ed efficiente istruzione pubblica; a Cuba serviva il petrolio per uscire dalle difficoltà energetiche post ’89, il cosiddetto periodo especial, e al Venezuela insegnanti e medici.

L’ALBA nasce dunque come rapporto di complementarietà tra questi due paesi. Il processo reale di integrazione si coglie dunque benissimo, per me che visito il Venezuela dall’89, nella diffusione di scuole e ambulatori pubblici in un paese che aveva uno dei tassi di analfabetismo più alti nel mondo e in cui molte donne nemmeno sapevano che cosa fosse un’ecografia.
È ovvio che se si ragiona solo in termini di mercato capitalista, in una logica di sfruttamento, oggi il profitto e le rendite si realizzano più nel petrolio che nel talento umano; ma nel caso dell’ALBA ogni paese, fuori da questa logica, mette a disposizione quello che di meglio ha e produce, rispondendo ai bisogni sociali nella logica solidale e di uno sviluppo a compatibilità socio-ambientale.

 

Domanda netta: quali prospettive per Cuba dopo i Castro?

Perché dopo i Castro? Messa così sembra che a Cuba viga una forma di nepotismo, una grande famiglia dominante, mentre i Castro rappresentano semplicemente i comandanti della guerriglia, quindi il punto più alto della rivoluzione del ’59. E’ innegabile che Fidel Castro sia non solo il leader della rivoluzione ma più in generale un uomo che ha segnato e continua a segnare in profondità la vita politica dell’America Latina. Quando è andato al governo Raul Castro non si è trattato di un avvicendamento all’interno della famiglia. Bisogna ricordare chi erano i capi rivoluzionari della Sierra Maestra che hanno costruito la rivoluzione: i fratelli Castro, Camilo Cienfuegos e Che Guevara: morti gli ultimi due rimaneva Raul che, ricordiamolo, ha comandato per cinquant’anni le forze armate di un paese sotto embargo, e che ha subito circa 4000 morti da attentati terroristici di marca CIA, e si trova solo a novanta miglia dalla più grande potenza imperialista del mondo.

Piuttosto che pensare a cosa succederà dopo i Castro, concentriamoci su cosa sta succedendo oggi a Cuba. Per esempio poche settimane fa si sono tenute le elezioni che hanno eletto i 600 parlamentari di cui oltre il 50% donne con un’età media di 48 anni: il nuovo vice-presidente della Repubblica Miguel Diaz Canel ha 52 anni, la presidentessa dell’ICAP (Instituto cubano de amistad con los pueblos) Kenia Serrano ha 36 anni. Anche nel Consiglio di Stato, i cui 31 membri hanno in mano la direzione del paese, l’età media è di 57 anni: considerando che Castro e Ventura ne hanno 83 e 84, significa che l’età media è considerevolmente bassa. E questo ha a che fare con il processo di ringiovanimento dei dirigenti e con la formazione continua di giovani quadri.

Ciò vuol dire che la rivoluzione è viva, ha una forte dinamica interna. Ha i suoi limiti e le sue contraddizioni ma il grande merito è che questi errori sono stati sempre riconosciuti; per esempio a Cuba il modello di pianificazione è stato rivisto già sette volte, riconoscendo i problemi esterni ma anche gli errori interni: è proprio questa forza dinamica che la rende una grande rivoluzione.

 

Tornando all’ALBA: quali sono i suoi rapporti con le due potenze emergenti dell’America Latina, Brasile e Argentina che hanno, come minimo, un forte profilo anti-neoliberista?

Per capire il processo di integrazione latino-americano, bisogna considerare l’area dell’ALBA, già fortemente caratterizzata in senso socialista, quanto meno in transizione verso il socialismo. Poi ci sono gli altri paesi che sono retti da governi democratici, sono paesi progressisti e caratterizzati da un forte senso nazionale anti-imperialista e anti-colonialista e capaci di esprimere politiche di opposizione al neo-liberismo. Sono paesi emergenti, competitori degli Stati Uniti. Il Brasile è uno dei BRICS e l’Argentina è vicina a quei livelli di sviluppo. Sono paesi che da anni hanno rapporti di scambio, di integrazione e di pieno rispetto dell’ALBA. Non sono paesi socialisti ma si muovono su un fronte comune anti-imperialista, che li rende di fatto alleati come partners economico-commerciali dell’ALBA.

E’ invalsa di sovente sui media occidentali una contrapposizione tra i processi politici, per esempio, del Brasile “buono”, pienamente democratico, e del Venezuela “cattivo” e autoritario, come a voler contrapporre due modelli per il continente. Ciò è una vera e propria falsificazione della realtà che parte da quell’ormai anacronistico modello eurocentrico di cui abbiamo parlato, che è forse meglio definire occidentalcentrico ed imperialista.

In questi giorni, dopo la morte di Chavez, si è parlato di America Latina e di Venezuela in modo vergognoso. E’ chiaro che questo “terrorismo mediatico”, come sono solito definirlo, fa gioco: quando si definisce “dittatoriale” la leadership di Chavez ci si dimentica che è passato in 15 anni per 16 elezioni democratiche. D’altro canto ci si dimentica che Dilma viene dalla guerriglia antifascista, che Lula è stato operaio e sindacalista. Entrambi i governi si sono opposti e si oppongono con forza alle ingerenze degli USA che vedono ancora nell’America Latina il loro giardino di casa.

L’integrazione anti-imperialista latino-americana passa dunque sia per la transizione al socialismo dei paesi dell’ALBA, sia per i governi progressisti come quello brasiliano e argentino.

 

Lei parla esplicitamente di costruzione del socialismo in corso in Sudamerica, e della conseguente edificazione di ciò che anche Che Guevara chiamava «uomo nuovo». Più modestamente, si può effettivamente parlare, a più di dieci anni dall’inizio di questo processo, della crescita di una vera e propria generazione di giovani sudamericani estranei alla narrazione del neoliberismo?

Sicuramente sì, perché la costruzione dei processi di transizione socialista in America latina è completamente diversa da ciò che siamo stati abituati a vedere in Occidente: nella Nuestra America è avvenuta un’inversione di paradigma. Mentre nel capitalismo, anzi, nella logica occidentale del mercato e del profitto è l’economia che detta le regole alla politica (cioè le decisioni politiche sono funzionali alle compatibilità macroeconomiche dello sfruttamento, e quindi abbandonano le compatibilità sociali ed ambientali sull’altare del profitto), nei paesi dell’ALBA si è messa al centro la politica: la politica di base, cioè dei movimenti sociali e dei sindacati conflittuali;  la politica in senso nobile, deve dominare e quindi determinare le scelte economiche. Se in un paese bisogna garantire la creazione di servizi sociali ed occupazione, è la politica a decidere le linee essenziali del cambiamento, e l’economia applica alle decisioni della politica.

Perché questo accada la politica dev’essere in mano a partiti e movimenti che siano espressioni di un blocco sociale del mondo del lavoro e del lavoro negato ben determinato e configurino governi democratici, progressisti e rivoluzionari, che si muovano sull’orizzonte del superamento del modo di produzione capitalistico. Questo non è altro che la transizione al socialismo: ciò è avvenuto con Chavez, con Morales, con Correa. Per esempio, in Bolivia i diversi movimenti contro la privatizzazione dell’acqua e quelli dei quartieri e di genere si sono uniti con i movimenti sindacali – quello dei Cocaleros, quello dei Mineros – e, mantenendo le loro specificità, si sono dati uno strumento politico unitario, cioè il MAS (Movimiento al Socialismo-Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos).

In Italia, i partiti, Rifondazione Comunista compresa, hanno sempre cercato di mettere il cappello sui movimenti, si pensi per esempio a quelli antiglobalizzazione del 2000-01, di assorbirli nella loro logica. Invece in Bolivia sono i movimenti a darsi lo strumento politico, che serve per portare le loro istanze al governo, salvaguardando l’autonomia e la specificità dei singoli movimenti, uniti nel bene comune che è il percorso per il socialismo. E’ quindi un governo popolare, che fa sua le istanze delle strutture del lavoro: questo discorso vale sia per la Bolivia, l’Ecuador dove sono predominanti i contadini, sia in Venezuela, dove riguarda anche una grande classe operaia.

Così, attraverso le politiche delle nazionalizzazioni (delle banche o dell’industria del petrolio, per esempio), la proprietà passa dalla struttura privata allo Stato; e, con i tempi ed i ritmi adeguati, le nazionalizzazioni si trasformano in socializzazioni, e l’utile derivante dalla vendita del petrolio e degli altri prodotti viene usato per investimenti a carattere sociale. Ecco che in questi processi dell’ALBA si realizza gratuità dei servizi pubblici, come le scuole, i servizi sanitari, l’edilizia pubblica (per mantenere bassissimo il prezzo d’affitto). Nascono le imprese sociali, le cooperative ed i distretti socialisti, mentre le multinazionali vengono scacciate o emarginate e viene sottratto loro quel dominio che gli ha permesso da sempre di realizzare profitti a scapito delle politiche sociali.

La politica determina le scelte economiche: cambia completamente il paradigma e la  dimensione e la struttura economica del paese, si delineano insomma le basi della transizione al socialismo.

I giovani trovano rappresentanza politica in queste nuove istanze ed abbandonano quella che invece era la rappresentanza falsa ed istituzionale tipica dei partiti dell’area capitalista.

 

I programmi sociali dei paesi dell’ALBA hanno tratti sostanzialmente assistenzialisti o qualcosa di più? Quali analogie o differenze possiamo indicare con i programmi assistenziali avviati da paesi decisamente più a destra (Messico, Colombia, Perù) grazie al boom delle materie prime, ovvero il cosiddetto commoditirs consensus?

Non c’entra nulla. In questi paesi che tu citi troviamo un sistema capitalista, in cui i mezzi di produzione sono tenuti non solo dai piccoli privati ma dalle multinazionali, dagli oligopoli e dai monopoli: qui, con una cultura cattolica e paternalistica, e con l’uso spregiudicato delle ONLUS, si pensa infine a fare un pochino di welfare dei miserabili.

I percorsi del socialismo non sono fondati sulla redistribuzione assistenzialistica, ma invertono la questione in termini di socializzazione della ricchezza: quella che prima era ricchezza privata, cioè ricchezza sociale estorta ai lavoratori, viene invece redistribuita socializzandola. La tendenza è quella della nazionalizzazione e della socializzazione, quindi del passaggio da un sistema di proprietà privata ad uno che mette i mezzi di produzione in mano al popolo ed ai lavoratori.

E’ chiaro che i processi di transizione al socialismo  sono lunghi: mentre si sta costruendo il socialismo convivono forme di proprietà privata e di mercato, ma sempre l’obiettivo è che questi si riducano fino a scomparire e che quindi, anche con il cambiamento dei rapporti di forza internazionali, ci si proietti verso una fase alta del socialismo. L’errore dell’URSS è stato quello di scambiare la fase di transizione come se si trattasse di un socialismo già completamente realizzato e quindi già in marcia verso il comunismo, disconoscendo le contraddizioni e i limiti che sono proprie di una fase di transizione.

 

In Sudamerica si stanno sperimentando in questi anni proposte sociali a tal punto avanzate che, dal nostro punto di vista, risulta complesso comprenderne a fondo le contraddizioni. Penso ad esempio all’esplicito conflitto avvenuto in Ecuador tra una impostazione keynesiana, o comunque statalista, della redistribuzione sociale che alcuni identificano nelle politiche del governo Correa, e l’attitudine “benecomunista” tipica delle organizzazioni politiche degli indigeni. Nel 2010 ho avuto modo di parlarne all’Avana con Isabel Monal, che considerava centrale la contraddizione, per così dire, tra Stato socialista e Pachamama. Che tipo di dialettica o conflitto si configura tra lo Stato centrale e le istanze autonomiste delle comunità indigene? Inoltre, possono queste esperienze dirci qualcosa sulle discussioni, molto presenti nella sinistra europea, sul rapporto tra pubblico e comune?

Isabel Monal è mia amica fraterna, lavoriamo negli stessi centri studi, e da lunghi anni svolgiamo ricerche insieme in campo marxista; tra le altre cose portiamo avanti un dibattito attorno al problema per il socialismo di sussumere anche la contraddizione capitale-ambiente.

Non esiste una dicotomia tra keynesismo di Correa e comunismo degli indigeni: in primo luogo attribuire un carattere keynesiano alle politiche di Correa è una distorsione eurocentrica. Il keynesismo nasce e si sviluppa tutto all’interno del capitalismo, è stata una fase in cui la forza del movimento operaio ha imposto incrementi di salario indiretto attraverso l’espansione delle spese sociali, e quindi una redistribuzione sociale del reddito sia nel salario diretto che nel salario indiretto e differito. I partiti e movimenti europei che vogliono trovare in queste forme di capitalismo moderato e più a carattere sociale elementi di socialismo lo fanno perché hanno del tutto abbandonato la prospettiva della trasformazione radicale per la strategia del superamento del modo di produzione capitalistico; cioè il loro orizzonte si ferma alle compatibilità consociative con un modello di capitalismo keynesiano e quindi temperato, che nulla ha a che fare con la transizione al socialismo.

Correa invece guida un movimento che nelle sue specificità è comunque sulla strada della transizione al socialismo, con tempi e modalità diversi da quelli di Cuba o del Venezuela o della stesa Bolivia.

I dibattiti del marxismo in Sudamerica – che hanno un centro nella Rete delle reti “In difesa dell’umanità” che abbiamo fondato nel 2004 a Caracas con tanti intellettuali, in particolare latinoamericani, come Isabel Monal e Atilio Boron – vertono proprio su questi problemi: come può il socialismo per il XXI secolo assumere anche le contraddizioni che purtroppo il marxismo storico ha sottovalutato? Cerchiamo di comprendere la questione indigena e la questione ambientale non come problematiche sociologiche o antropologiche, bensì all’interno della contraddizione e del conflitto tra capitale e lavoro. E’ una questione di classe: i movimenti contadini sono in primis movimenti di sfruttati contadini; in Bolivia si parla di Campesindios.

 

Isabel Monal infatti mi aveva spiegato questi due modi diversi di intendere l’indigenismo.

Piccoli gruppi indigeni, strumentalizzati sia dalla destra e dalle oligarchie che dagli estremisti di sinistra e da alcuni gruppi trotzkisti, hanno cercato di riportare alcune contraddizioni che i processi ovviamente incorporano, e le hanno utilizzate contro Correa. Ma si tratta di minoranze; i grandi movimenti di contadini e lavoratori sono tutti interni al MAS in Bolivia, ad Alianza País in Ecuador e via discorrendo. Fanno parte di un processo di nuova rappresentanza socialista contro lo sfruttamento del lavoro salariato.

 

La vostra proposta di una sorta di ALBA tra i PIGS mi pare sottintenda una seconda considerazione più generale: nella complessiva ristrutturazione seguente alla crisi del 2008 e tutt’ora in corso è necessario per questi paesi cominciare a pensarsi come sud del mondo, fuoriuscire culturalmente dal nord opulento. E’ corretto?

E ‘ corretto, in due accezioni. Quella del 2008 è stata, con l’epifenomeno dei mutui subprime, la manifestazione di una crisi di accumulazione che si può far partire già dal 1971 (data di chiusura unilaterale da parte degli USA degli accordi di Bretton Woods), ovvero una crisi di lungo periodo, quarantennale, caratterizzata sin dall’origine come crisi di sovrapproduzione e di sovraccumulazione, che ha assunto carattere sistemico, e prima ancora strutturale.

Dalla crisi strutturale del 1929 il capitalismo uscì con un nuovo regime di accumulazione, caratterizzato dal fordismo e dal keynesismo, e con il sostenimento della domanda bellica fino alla tragedia della seconda guerra mondiale.

Noi della Rete dei Comunisti riteniamo che l’attuale crisi non abbia prospettiva di uscita in chiave economica: questo non significa che siamo per generiche ipotesi crolliste, ma che le condizioni oggettive sono di fine del capitalismo e tutto sarà determinato dai rapporti di forza e dalle soggettività in campo.

Del resto, come dico sempre ai miei studenti, se le prime imprese borghesi prendono forma a cavallo tra Duecento e Trecento, il capitalismo si fa sistema e per intero modo di produzione capitalistico all’inizio dell’Ottocento – dopo che c’è stata, tra l’altro, l’espropriazione delle risorse del Sudamerica, la cosiddetta accumulazione primaria, quando il colonialismo spagnolo ha portato via il ferro e l’oro che sono serviti da basi delle fabbriche europee; a cui è seguita trecento anni dopo la rivoluzione francese e poi la prima rivoluzione inglese in cui il capitalismo si trasforma in vero e proprio sistema.

Noi pensiamo quindi che il capitalismo attuale non esprima più alcuna possibilità espansiva né a livello economico né a livello finanziario né tanto meno a livello di cultura e civiltà; va costruito quindi un modello nuovo. Bisogna cioè mettere l’accento sulle relazioni Sud-Sud, mentre quelle Nord-Sud sono relazioni verticali di espropriazione, imperialiste, neocolonialiste. Noi pensiamo che si possano costruire relazioni Sud-Sud tra gli sfruttati della terra, con un processo ad alto contenuto non solo anti-imperialista ma anche a forti connotati anticapitalisti.

La costruzione del polo imperialista europeo a guida tedesca sta avvenendo al prezzo del massacro dei popoli dell’area mediterranea. Se ne esce mediando con la BCE? Se ne esce ritrattando gli accordi di Maastricht? Con un capitalismo temperato e di nuovo keynesiano? Noi pensiamo che tutto ciò non sia possibile, al contrario diciamo che se ne esce realizzando il compito immediato di processi di lotta, oltre che teorici, per non pagare il debito, anzi per spostare il denaro del debito ad investimenti sociali, a scuole ed ospedali, a edilizia pubblica ed all’occupazione a tempo pieno, pieno salario, pieni diritti.

Al contempo bisogna uscire dall’euro: non può essere né una scelta di un governo capitalista, né di un paese solo; bisogna uscire dall’euro come area, partendo dai PIIGS ed allargandosi ai paesi del Nordafrica. E’ ovvio che vediamo nell’ALBA un modello: si tratta di svincolarsi dalla BCE e dalla Trojka come l’ALBA latinoamericana si è svincolata dal FMI; costruire un’alleanza di paesi incentrata sull’internazionalismo di classe; creare un’alleanza economico-commerciale basata non sulla legge del profitto ma sulla legge della solidarietà e della complementarità.

Sarà necessario, per evitare la speculazione sui tassi di cambio, ovvero per non passare dai mercati del dollaro e dell’euro, darsi una moneta di conto, anche all’inizio virtuale, come ha fatto l’ALBA con il Sucre. Noi le abbiamo dato il nome Libera.

Quest’area si può allargare non solo ai paesi dell’Africa mediterranea, ma a tutti quelli che hanno subito il peso dei processi di sfruttamento e delocalizzazione dei decenni neoliberisti, a cominciare dall’Europa dell’Est. Nel mondo ci sono molte relazioni possibili al di fuori dei poli imperialisti dell’Europa e degli Stati Uniti: oltre all’ALBA ci sono i BRICS, come l’Argentina, la Russia e l’Iran, che non sono socialisti ma sono competitori dell’Europa e degli USA, disposti ad aprire relazioni orizzontali.

E’ chiaro che i processi sono lunghi: questa è una prospettiva strategica. Ma è necessario riprendere le lotte sociali e rivendicative, dare un nuovo protagonismo ai lavoratori, ai migranti e ai giovani: attraverso i movimenti rivendicativi si possono costruire rapporti di forza nella prospettiva strategica del superamento del capitalismo.

Qual è l’errore – anzi, peggio, la scelta – della sinistra europea, anche quella cosiddetta d’alternativa? Il ritenere che anche la radicalità deve stare all’interno della compatibilità capitalista, quindi l’abbandono definitivo dell’idea di mantenere anche nelle lotte tattiche l’orizzonte strategico irrinunciabile della transizione al socialismo.

Parlare quindi oggi di rivoluzione anche in Europa non è un’utopia, ma significa rigenerare protagonismo nelle lotte di massa degli sfruttati, dei migranti, dei precari, degli studenti, dei senza casa, quindi di tutto il mondo del lavoro e del lavoro negato, che può riappropriarsi del senso della storia. La storia non ha percorsi lineari, come ci vogliono far intendere, ma è fatta di salti, di rotture rivoluzionarie, determinate dai rapporti di forza in campo tra le soggettività che rappresentano lo scontro nel conflitto capitale-lavoro. Come ci insegna il comandante Fidel: «Rivoluzione è il senso del momento storico».

* Intervista realizzata per il giornale “Quote Rosse”

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