1. La crisi del capitalismo, lungi dall’essere esaurita, diventa sempre più acuta, a causa dell’incapacità del capitale di sviluppare un nuovo modello di accumulazione fattibile, evidenziandone, così, in maniera sempre più decisa il suo carattere sistemico.
Va sottolineato che parliamo da tempo di crisi sistemica poiché già nella sua strutturalità e globalità, questa crisi rende evidente la tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi più sviluppati, o meglio da noi sempre definiti paesi a capitalismo maturo. E’ chiara l’evidenza in questo caso dell’enorme distruzione di “forze produttive in esubero”, siano esse forza lavoro o capitale come esplicitazione di forma di lavoro anticipato, e quindi non vi sono più le condizioni per ripristinare un nuovo modello di valorizzazione del capitale che sappia dare la “giusta” redditività agli investimenti; diventa così pressocchè impossibile, e non conveniente in termini di profittabilità, creare possibilità per un nuovo processo di accumulazione capitalista, anche attraverso il cambiamento del modello di produzione.
Ciò significa che la costante sovrapproduzione di merci e capitali nei paesi a capitalismo maturo non trova più soluzione né nelle varie forme di presentarsi e di fuoriuscire dalle crisi congiunturali né di quelle di natura più strutturale, ma si va configurando sempre più un carattere di crisi globale accompagnata da crisi sistemica. Ciò perché le stesse relazioni di produzione entrano in conflitto con carattere endemico, distruggendo per la prima volta anche la stessa forzata convivenza padrone –lavoratore.
La crisi è sistemica perché sempre più ampia è la divaricazione fra sviluppo delle forze produttive e modernizzazione e socializzazione dei rapporti di produzione, al punto che sono ormai intaccati non solo questi ultimi ma le stesse relazioni sociali in tutti i paesi a capitalismo maturo; al punto che i nuovi soggetti del lavoro , del non lavoro e del lavoro negato, cioè quel soggetto che si fa classe proletaria sfruttata nonostante la modernità delle forme, non accetta più e non vede possibilità di emancipazione politica, culturale, sociale ed economica nella società del capitale.
Si cerca così di sopravvivere alla meglio intensificando la sostituzione della funzione del capitale produttivo con finanziarizzazione, delocalizzazioni, esternalizzazioni, privatizzazioni e riducendo drasticamente i costi di produzione con un attacco violento al generale costo del lavoro, alle stesse garanzie e diritti del lavoro, al salario diretto, indiretto e differito, provocando disoccupazione strutturale, precarizzazione istituzionalizzata, uso ricattatorio della forza lavoro immigrata per espellere manodopera locale, più costosa e più esigente in termini di diritti e garanzie.
E’in questo senso che va interpretata l’azione dell’Unione Europea, che non dotata di una autonoma capacità politica, impone ai paesi deficitari le stesse regole dei piani di aggiustamento strutturale che l’FMI ha applicato in tutti gli ultimi 30 anni per fare “strozzinaggio” sui paesi dell’America Latina e condizionarne le modalità di sviluppo, facendo così giocare ora in Europa come allora in America Latina, un ruolo centrale alle regole della Banca Mondiale oltre a quelle del Fondo Monetario Internazionale.
In Europa la strategia dell’austerità è un fallimento completo come procedimento per stabilire nuove basi per l’accumulazione a lungo termine. Nel 2010, anno in cui sono stati introdotti gli aggiustamenti generalizzati, il debito estero pubblico e privato dei paesi dell’eurozona era di 19,5 bilioni di euro. Alla fine del 2012, dopo tre anni di tagli e deterioramento della qualità della vita e del lavoro, il debito estero è aumentato fino a 20,8 bilioni. Nel 2010, il debito estero dei paesi dell’eurozona era di 5,6 bilioni, mentre nel 2012 era aumentato a 6,4 bilioni.
È evidente che le politiche di aggiustamento non sono servite a ridurre l’indebitamento. L’ostinazione con cui la Troika mantiene le sue politiche di aggiustamento, è dovuta al fatto che stanno avendo un gran successo nell’indebolire la lotta dei lavoratori e nel portare avanti la rapina del Tesoro, degli attivi pubblici e dei trasferimenti del valore aggiunto dai lavoratori al capitale.
In pratica salvare l’Unione Europea e quindi salvare il modello di export tedesco significa semplicemente distruggere le possibilità autonome di sviluppo dei paesi europei dell’area mediterranea.
2. Diventa sempre più urgente la determinazione politica di un programma alternativo che permetta di superare il marasma sociale ed economico in cui si trovano i cittadini dei paesi europei e che deve partire dalla comprensione profonda delle contraddizioni con cui devono confrontarsi le classi subalterne nelle condizioni attuali del capitalismo europeo. E’ quindi centrale e dirimente l’individuazione di strumenti più adeguati per l’uscita dalla crisi; questa transizione deve necessariamente andare verso una socializzazione crescente dei mezzi di generazione della ricchezza sociale.
Senza una opportuna analisi della fase attuale del capitalismo in Europa e nel mondo, il programma alternativo corre il rischio di perdere la sua capacità di richiamo a causa delle incoerenze e delle contraddizioni.
In questo mese sono state lanciate due azioni che cercano di delineare i principi di una alternativa. La prima – intitolata “Qué hacer con la deuda y el euro? Un manifiesto”[1], promossa dalla rivista spagnola Viento Sur, dal “Comité pour l’Annulation de la Dette du Tiers Monde” del Belgio e firmata anche, tra gli altri, dal principale dirigente del “Blocco de Esquerda” del Portogallo – si propone come una alternativa al neoliberismo e all’aggiustamento in quanto strategia di gestione della crisi.
I firmatari ritengono che la forma della crisi corrisponda alla “crisi del debito sovrano”. Però sfortunatamente non spiegano quale sia il contenuto concreto, la sostanza, della crisi. Questo limite gli permette di evitare di analizzare l’Europa vera, l’Unione Europea, e si riducono ad un richiamo indefinito a “rifondare l’Europa” attraverso una “strategia di rottura con l’euroliberismo”.
Pretendono di finanziare il deficit pubblico “al margine dei mercati finanziari” mediante la monetizzazione del deficit “come avviene negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Giappone, ecc.”. Quindi, realizzare una gestione del deficit simile a quella di altre potenze imperialiste (ma a differenza di queste, senza una moneta e una banca centrale propria) significa per loro una prima “rottura con l’ordine europeo”.
Per il debito accumulato prospettano una moratoria e una cancellazione parziale del debito. Questa proposta, che già era stata pensata dalla Troika per il caso della Grecia, è per loro una “seconda rottura”.
Alla fine, propongono il controllo dei capitali e la socializzazione della banca. Pur riconoscendo che si tratti di qualcosa già intrapreso ad esempio dalla Svezia, per i firmatari costituisce comunque una “terza rottura”.
Queste tre “rotture” vengono pensate dopo aver rifiutato l’uscita dall’euro in quanto scelta senza senso né strategia. Dopo aver spiegato le loro proposte di “rottura” argomentano perché a loro giudizio “l’uscita dall’euro è una garanzia di rottura con l’euroliberismo”: poiché si otterebbe una finanziarizzazione del deficit al margine dei mercati finanziari, però si produrrebbe “una speculazione contro una nuova moneta”; poiché “il governo si vedrebbe forzato a ridenominare il debito pubblico nella nuova moneta nazionale, aspetto che equivarrebbe a realizzare una cancellazione parziale del debito”; poiché bisognerebbe “nazionalizzare la banca” il che “porterebbe all’aumento del debito pubblico”; poiché “i tipi di interessi tenderebbe al rialzo” e perché abbandonare l’euro equivale, secondo i firmatari, a promuovere una strategia “isolazionista e nazionale”.
In molti studi del CESTES (centro studi dell’USB-Unione Sindacale di Base-Italia , affiliata alla Federazione Sindacale Mondiale) abbiamo sottolineato che indipendentemente dal fatto che la sua profondità si sia evidenziata nelle Borse e nelle pratiche speculative dei grandi sistemi bancari, non si trattava della classica crisi finanziaria, poiché in tale “normale” situazione non si interrompono i processi internazionali di accumulazione del capitale.
Si cerca così come soluzione della crisi di sopravvivere alla meglio intensificando la sostituzione della funzione del capitale produttivo con la finanziarizzazione, le delocalizzazioni, esternalizzazioni, privatizzazioni e riducendo drasticamente i costi di produzione, con un attacco violento al generale costo del lavoro, alle stesse garanzie e diritti del lavoro, al salario diretto, indiretto e differito, provocando disoccupazione strutturale, precarizzazione istituzionalizzata, uso ricattatorio della forza lavoro immigrata per espellere manodopera locale, più costosa e più esigente in termini di diritti e garanzie.
Può anche avvenire che la crisi finanziaria si accompagni a un radicale mutamento del modello di accumulazione capitalista e l’annesso sistema produttivo; ciò è avvenuto probabilmente solo in un caso nel 1929, determinando radicali cambiamenti politico-istituzionali che si associano alla definizione di un diverso modello di produzione e di sviluppo. Ed ecco che in questo caso la crisi assume connotati di strutturalità e può nascere un nuovo modello di accumulazione capitalista, come è avvenuto nel dopo ’29 con la complessità del modello keynesiano nelle sue diverse forme ed esplicitazioni.
In questo contesto,noi abbiamo più volte proposto che è indispensabile un programma per superare la crisi della Eurozona a beneficio dei lavoratori che può arrivare solo grazie ad una importante accumulazione delle forze che doti di maggior potere il movimento di classe dei lavoratori europei. Bisogna avere a disposizione una proposta alternativa all’Unione Monetaria subordinata ad una globalizzazione finanziaria imposta dal dominio mondiale del capitale statunitense. E una proposta alternativa al mercato unico creato in funzione degli interessi del capitale europeo. Per questa ragione, il dibattito sull’euro sta discutendo la costruzione di una alternativa al caos economico e sociale generato dalle politiche di gestione della crisi dell’UE.
Invece, secondo gli autori di questo manifesto europeo, l’uscita dall’euro è impossibile perché implica proprio l’attuazione delle proposte che loro avanzano! (soppressione del debito e nazionalizzazione bancaria). Per qualche misteriosa ragione che non viene menzionata, se si prendono queste misure al di fuori dell’euro il paese verrebbe sottomesso a rappresaglie da parte dei mercati finanziari, cosa che non avverrebbe con la loro proposta, semplicemente perché hanno deciso di non tenere presente i mercati finanziari.
A queste assurdità vanno aggiunte anche altre proposte deliranti: “l’idea è estendere questa politica su scala europea” (ossia, propongono di cacciare l’euroliberismo dagli uffici comunitari, rimpiazzandolo con “coloro che rompono con l’Europa” senza dirci come); le rappresaglie contro un governo di sinistra dovranno essere neutralizzate con contromisure che includano “il ricorso effettivo a misure protezioniste, se necessario” (questo lo dicono dopo aver rifiutato l’uscita dall’euro perché secondo i firmatari le strategie competitive implicano “l’abbandono della strategia di lotta comune europea”). La loro alternativa si basa sulla rifondazione dell’Europa anche se “la rifondazione dell’Europa non può essere condizione necessaria per mettere in pratica una politica alternativa”.
Dicendo una cosa e il suo contrario, ci dimostrano che per loro l’uscita dall’euro non è una necessità, né un risultato ineludibile dell’evoluzione attuale delle cose; per loro “l’uscita dall’euro è una minaccia o un’arma a cui ricorrere in ultima istanza”. Non sappiamo come vogliano utilizzare in ultima istanza la suddetta arma, perché poi alla fine finiscono per collassare nelle solite proposte del partito socialista europeo: un bilancio europeo più grande, una fiscalità comune e un fondo di investimenti europei. Non sembra proprio che queste proposte di “rottura” abbiamo bisogno di armi, sia in prima che in ultima istanza.
Se abbiamo dedicato tanto spazio alla spiegazione della proposta è perché riflette una costante presente in quasi tutti gli sforzi per unificare le lotte e i progetti, la mancanza di una analisi rigorosa da parte della sinistra, anche di quella che si proclama radicale, della vera natura delle istituzioni comunitarie e della crisi stessa. Se non ci fossero prestigiosi economisti di sinistra tra i firmatari bisognerebbe pensare che questa proposta sia una favoletta, un racconto per bambini applicato a una politica di fantasia: l’orco – il mercato finanziario – esiste, però non ci fa paura perché noi non lasceremo che entri nelle nostre case.
3. Un altro spirito politico e sociale è nella la proposta firmata da Pedro Montes, da Julio Anguita e da altri compagni della sinistra spagnola. Nonostante la proposta dei compagni spagnoli abbia gravi limiti e contraddizioni, in questa però troviamo un punto di incontro per portare avanti un programma di rottura con il progetto imperiale europeo. Il “Manifiesto por la recuperación de la soberanía económica, monetaria y ciudadana: SALIR DEL EURO”[2] non si fa illusioni sulla vera natura dell’Unione Europea; infatti riconosce che “lo Stato sociale non è compatibile con l’Europa di Maastricht” e “il carattere irriformabile dell’Europa nata soprattutto dopo l’apertura della zona euro all’Est” e quindi “l’imprescindibile e urgente necessità di rompere con le forzature dei Trattati europei non può essere paralizzata o occultata da progetti di altra natura”.
La nostra discrepanza con i firmatari di questo manifesto non si fonda sulla caratterizzazione dei trattati e delle istituzioni comunitarie, poiché sembra chiaro che sia per loro che per noi, le politiche neoliberali di aggiustamento non sono solo un aspetto congiunturale vincolato alla specifica condizione attuale in cui si trovano i rapporti di forza fra le classi, ma sono le stesse strutture comunitarie, la loro legislazione e le regole di funzionamento che costituiscono una proposta capitalista e imperialista irriformabile, che non lascia nessuno spazio per un progetto di socializzazione dei mezzi di generazione della ricchezza.
Il problema è che il loro manifesto vuole “creare le condizioni per uscire dalla crisi” con un anacronistico “recupero della sovranità nazionale”, in questo caso attraverso le politiche monetarie. Così, dicono che l’incorporazione [della Spagna] nella moneta unica è la ragione principale della situazione di destabilizzazione attuale, dimenticando che sin dalla sua entrata nella UE nel 1986, la Spagna ha cominciato a partecipare ad una divisione europea del lavoro che spingeva per la deindustrializzazione della periferia del Sud per ricostruire (attraverso le delocalizzazioni) una base di componenti industriali prodotti a basso costo salariale nella periferia dell’Est.
E’ in termini di centro-periferia che si è formato uno spazio imperiale in Europa, sulla base delle stesse strutture comunitarie che precedono di decenni la messa in pratica della moneta unica; anche questa è stata una decisione politica europea che aveva il fine di generare una certa autonomia per il progetto comunitario di fronte svolgendo un ruolo centrale nella competizione globale contro l’egemonia dell’imperialismo statunitense sul sistema finanziario internazionale, decisione che ha avuto scarso successo a questo proposito.
I firmatari del manifesto spagnolo condividono l’illusione per cui uscire dall’euro significherebbe recuperare spazio per realizzare politiche simili a quelle degli anni ’60 e ’70: una politica del tasso di cambio per fare svalutazioni competitive (che comporterebbe anche “l’uscita” dal mercato finanziario globale che fissa attualmente i tassi di cambio: salvo gli Stati Uniti, solo le altre potenze con importanti riserve possono intervenire nei mercati delle divise per modificare il tasso di cambio delle loro monete nazionali); una monetizzazione del deficit per “fornire liquidità al sistema e stimolare una domande ragionevole” (come se la quantità di denaro fosse una variabile indipendente che determina la circolazione di una maggiore quantità di valori di scambio, o meglio di ricchezza reale prodotta! Vale la frase che la leggenda attribuisce al grande rivoluzionario , ma non certo esperto di questioni finanziarie-monetarie, Pancho Villa : “Manca denaro? Allora stampatelo!”).
Somiglia in parte decisiva, questa del manifesto spagnolo, a quella proposta lanciata da tempo dalla fazione del capitale internazionale più a guida britannica e di settori di una parte dei potentati della cosiddetta sinistra euroscettica, che auspicano la creazione di un “secondo euro”, puntando a svalutare e a ristrutturare il debito pubblico complessivo, cercando di attuare anche politiche di nazionalizzazione di alcune imprese e politiche industriali di miglioramento della produttività. Questa strategia radicale di fuoriuscita dall’”euro 1”, prevedendo al limite anche il ritorno alle vecchie monete nazionali, richiamandosi ad una improponibile, e allo stato dei processi di globalizzazione ormai incompatibile, sovranità monetaria ed economica nazionale. Si tratta in pratica oggi di una proposta insostenibile economicamente e finanziariamente nell’ambito dell’attuale fase della mondializzazione finanziaria del capitale.
E’ in pratica priva di reali possibilità attuative sia per le forti pressioni protezionistiche sia per una sicura connessa fuga dei capitali e quindi condizioni che abbasserebbero le capacità di investimento interno al sistema europeo.
4. Se il manifesto europeo coordina il mercati finanziari affinché questi non ostacolino le loro immacolate proposte di gestione della crisi finanziaria, il manifesto spagnolo, non preoccupandosi dei problemi, li sopprime per decreto; “bisogna smettere di preoccuparsi transitoriamente del deficit”, affermano. Però questo è possibile solo se lo Stato dispone di strumenti non monetari per pianificare l’assegnazione delle risorse: l’alternativa non è quindi preoccuparsi o non preoccuparsi del deficit; l’alternativa è disporre di uno Stato che assegni le risorse primarie , cioè le forze produttive (capitale e lavoro) attraverso la pianificazione o di uno Stato che ridistribuisca le risorse mediante il bilancio e il deficit. L’alternativa non passa tra l’aggiustamento perenne e la sovranità nazionale, ma tra la continuità del capitalismo in stagnazione e la bancarotta, e la socializzazione di massa dei mezzi della ricchezza sociale.
Per questo non serve solo, come dice il manifesto spagnolo, l’uscita dall’euro in quanto condizione necessaria per risolvere la crisi. È una condizione necessaria, ma non sufficiente.
Non basta volere la rottura con la zona euro: bisogna proporre una riconfigurazione dello spazio produttivo e sociale europeo che non può avvenire sulla base del contrastare lo Stato di fatto ormai storico della scomparsa delle sovranità nazionali, ossia sulla base di un morto che per quanto lo si invochi, non resusciterà mai.
Da parte nostra come CESTES, in tutti i nostri studi e ricerche si dichiara la necessità di un cambiamento radicale socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica ; percorso questo che è già sperimentato, ad esempio nei paesi dell’area dell’ALBA, e in particolare in Bolivia dove i movimenti sociali, di indios, i contadini, i minatori hanno determinato nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento politico della democrazia partecipativa.
Su questa strada sembra incamminarsi il nuovo movimento antieuro e anticapitalista nato in questi giorni in Italia, (Ross@), attraverso lo sviluppo dell’esperienza di riflessione e lotte del “Comitato NO debito” che unisce organizzazioni sindacali conflittuali di classe come USB, Rete 28 Aprile, e organizzazioni politiche come la Rete dei Comunisti, Rifondazione Comunista e molte altre strutture dei movimenti sociali anticapitalisti italiani.
L’errore dei compagni spagnoli firmatari del manifesto è quella di muoversi da keynesiani di sinistra, e quindi non solo nell’identificare questa crisi come da sottoconsumo, senza intenderne il carattere sistemico, ma la loro ipotesi dell’”Europa sociale buona” si scontra con la loro stessa impostazione di crescita nella compatibilità capitalista. Infatti ecco che da ormai due anni si moltiplicano in questo senso proposte per alzare il denominatore del rapporto debito pubblico-PIL per ridurre l’impatto di tale indice attraverso stravaganti idee dei keynesiani di sinistra per stimoli alla crescita: green economy e progetti ambientali, e progetti infrastrutturali tanto fantascientifici quanto inutili. E per tutto ciò le soluzioni di finanziamento potrebbero derivare da l’emissione di nuovi strumenti finanziari, come gli eurobond per attrarre liquidità dal resto del mondo e sostenere tale modalità di investimenti, in una nuova crescita che porterebbe come conseguenza anche alla messa a privatizzazione della stessa spesa sociale (ospedali privati , università private, fondi pensione, ecc.).
A quelli che vogliono “difendere” lo Stato sociale e la sovranità nazionale in Europa, li aspetta lo stesso destino degli artigiani che lottavano per mantenere un certo tipo di corporazioni del XIX secolo e dei preti rurali britannici che volevano re-instaurare le leggi dei poveri. Il capitalismo è cambiato, e in Europa, di fronte alle difficoltà nel combattere l’egemonia dell’impero statunitense, il capitale ha rafforzato i modelli di divisione imperiale del lavoro, di modo che l’interconnessione tra le economie locali impedisca l’uscita “nazionale” che non si fonda sull’isolazionismo estremo, una possibilità alla portata solo di chi dispone di risorse naturali importanti.
5.Da subito è possibile contrapporsi ai i meccanismi di potere dei centri-polo, delle aree del sistema di dominio del modo di produzione capitalista, come sta tenacemente realizzando l’alleanza del socialismo per il XXI secolo dell’ALBA. E per le organizzazioni antimperialiste e anticapitaliste socialiste che agiscono in Europa si tratta di acutizzare le contraddizioni contrapponendosi direttamente alle regole dei potentati dell’Europolo, a partire dalle grandi lotte dei sindacati di classe, dei movimenti conflittuali sociali di massa, uniti nella battaglia contro il pagamento del debito al sistema bancario e finanziario e contro l’Europolo della Troika.
I paesi della periferia europea necessitano di un sistema monetario e finanziario alternativo all’euro e alla globalizzazione. Però non si può concepire un sistema di questo tipo nell’ambito del mercato unico neoliberista tale come è stato costruito nei Trattati europei. Le regole di funzionamento di questo mercato impediscono una soluzione che apporti stabilità al processo di accumulazione, almeno nel senso che s’intende per “stabilità” sotto il sistema capitalista, cioè un periodo relativamente lungo di crescita nel quale si susseguono cicli successivi di espansione e di contrazione economica.
Per tutto questo l’alternativa monetaria e finanziaria deve inserirsi in una proposta di integrazione economica e sociale del tutto differente da quella perseguita dall’Unione Economica e Monetaria e dal mercato unico.
Nelle tendenze attuali non rimane da scoprire nessuna forza interna al sistema che permetta di pensare alla possibilità di una ricomposizione delle condizioni del “patto sociale” del periodo post-guerra, che ha dato origine al cosiddetto Stato sociale keynesiano dei paesi centrali, ancor meno per un’eventuale estensione dello stesso verso la maggioranza espropriata e impoverita del pianeta.
L’alternativa possibile e necessaria richiede una maggiore qualificazione e sofisticazione nelle richieste e nelle analisi dei lavoratori e dei loro rappresentanti, dei cittadini e delle loro organizzazioni. Richieste di miglioramento sociale, ma anche di ampliamento degli spazi di decisione democratica partecipativa, per inaugurare la fase della trasformazione tecnologica, le decisioni di produrre e distribuire sotto il controllo di tutti i lavoratori; decisioni subordinate ad un processo politico e sociale di discussione sul ruolo che devono occupare le macchine e la scienza nelle nostre vite. E’ inaccettabile che l’avanzamento tecnologico, invece che liberare l’umanità dal lavoro pesante, provochi la disoccupazione; invece di migliorare la qualità di vita, provochi nuove forme di inquinamento, invece di incrementare il sapere globale, sequestri la conoscenza nascondendola tra il muro dei brevetti e i diritti di proprietà.
E’ altresì importante che il cambiamento del sistema monetario e finanziario sia una risposta congiunta, poiché il peso della periferia europea mediterranea è molto superiore a quello dei singoli paesi presi separatamente, e la sua capacità di resistenza e negoziazione è molto maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe permettere di realizzare utili da indirizzare verso investimenti per usi sociali.
La nazionalizzazione delle banche è la parte più importante del processo generale per uscire dalla finanziarizzazione dell’economia globale, e finché non si sarà realizzato questo obiettivo continuerà il deterioramento della qualità della vita e del lavoro al sol fine di aumentare il tasso di profitto. Rompere la logica del capitale finanziario significa nazionalizzare le decisioni d’investimento per favorire le attività socialmente utili, sottoposte a un criterio di rendimento sociale ed ecologico, che sono criteri di medio e lungo termine.
Il controllo sociale degli investimenti è imprescindibile per dinamicizzare l’attività produttiva, e per orientare il credito in funzione di ottenere il massimo sviluppo dell’occupazione e dell’utilità sociale, e tali funzioni sono fortemente differenti da quelle che applica la banca privata che è orientata al criterio del massimo profitto a breve termine.
La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e di dipendenza dall’aiuto pubblico è anche un requisito per evitare la fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni, energia e trasporti potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine che permetta di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei paesi della periferia europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile.
Per queste ragioni, l’uscita dall’euro deve essere un momento che rientra all’interno di un processo di unificazione e rafforzamento delle forze di rottura nell’insieme della periferia dell’eurozona; ha senso solo all’interno di un nuovo progetto geostrategico e geopolitico di riconfigurazione dello spazio euro-mediterraneo che faccia da contrappeso alle forze reazionarie dei paesi periferici e da fronte comune di difesa all’offensiva del centro (geografico) politico-economico capitalista dell’Unione Europea.
Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere, tatticamente inizialmente per evitare profondi attacchi speculativi, un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea e al contempo sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di pianificazione a compatibilità socio-economica con forme di investimento sociale e di accumulazione favorevole ai lavoratori.
L’uscita dall’euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in primo luogo tra i paesi della periferia mediterranea con quattro momenti intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare un disastro per tutti.
I quattro momenti sono: a) La determinazione di una nuova moneta comune all’Europa mediterranea (a titolo esemplificativo potremmo chiamare questa moneta “LIBERA”, cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti nella costruzione dell’euro); b) La rideterminazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica (a titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS – Area Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e azzeramento almeno di una parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le istituzioni finanziarie, e l’imposizione di una rinegoziazione dello stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei capitali dall’area stessa.
Tutti questi elementi si devono però realizzare simultaneamente, per evitare la decapitalizzazione dell’intera regione periferica e per assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli investimenti.
6. Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova area, quella che abbiamo chiamato ALIAS , cioè di una nuova ALBA euro-afro-mediterranea, con nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di una pianificazione economica per uno sviluppo sociale collettivo solidale, complementare, e un benessere qualitativo per l’insieme della popolazione della nuova area economico-commerciale e monetaria, ma che si fondi su una comune strategia politica a carattere socialista.
Per questo, una alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia.
Costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi da subito nella piena autonomia da qualsiasi modello consociativo, concertativo e di cogestione della crisi per riaffermare, attraverso la pianificazione socio-economica della solidarietà e complementarietà, la volontà di autodeterminazione dei popoli nella democrazia politica partecipativa. Solo così l’autonomia di classe assume il vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma soprattutto da sempre lo stesso sistema di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione capitalistico.
Subordinare l’economia alla politica sarebbe una alternativa alla mondializzazione capitalista realmente esistente. Qualsiasi alternativa fattibile deve portare avanti la creazione di un polo di controegemonia sociale e politica che dovrà rispondere alla nuova dimensione territoriale dei mercati e dei processi produttivi. E quindi in tal senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore della crisi ma trovare anche nella crisi gli elementi del rafforzamento della sua soggettività tutta politica.
Se le nuove richieste si dirigono verso lo spazio di produzione e distribuzione della ricchezza sociale, prima o poi si concretizzeranno in una strategia complessiva di rottura con lo stesso capitalismo.
[1] “Che fare con il debito e con l’euro? Un manifesto” [N.d.T.].
[2] “Manifesto per il recupero della sovranità economica, monetaria e cittadina: USCIRE DALL’EURO” [N.d.T.].
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