Un pensiero alla deriva si aggira nella “sinistra” italiana. Un pensiero col baricentro mobile, che consente interpretazioni apologetiche del capitale come imbizzarrimenti “antagonisti”. Naturalmente le prime corrispondono in qualche misura alle necessità ideologiche del capitale in crisi, visto che forniscono una visione di “grandezza immortale” del capitale stesso, dipinto come capace di organizzare il mondo e il pensiero dei suoi sottomessi, di usare la crisi come mezzo di coercizione (un’invenzione, in pratica, non una condizione reale), di disporre di tutto in modo pieno e onniscente, non avendo più alcun “limite esterno”.
Le seconde sono autoconsolazioni, modi di accettare il mondo anche quando si agisce conflittualmente, rinunce a pensare il processo della trasformazione sul piano storico (nel corso dei decenni, se non addiritura dei secoli), strutturale, di classe, arroccandosi nella corta visione del “qui e ora”.
Il punto di partenza, secondo noi, è che il concetto di “capitale” usato dentro questo schema di pensiero non ha nulla a che vedere con quello analizzato da Marx nel corso di una vita (un modo di produzione, una “logica oggettiva del reale, senza alcun piano”) e moltissimo con quello immaginato da Deleuze-Guattari (una macchina repressiva, un potere tutto politico-ideologico che “usa” l’economia per imporre il proprio dominio). Non si tratta di difendere delle “purezze ideologiche”, ma di mettere sui piedi – non sulla psiche – l’interpretazione del reale per ricavarne anche qualche idea di “antagonismo razionale con effetti pratici” e non soltanto suggestioni “etico-esistenziali” della stessa durata temporale dei mortaretti di fine anno.
Nel mezzo sono possibili articolazioni spurie e grande fascino verbale e altrettanta impotenza. E’ l’esito finale dei frammenti di discorso una volta riuniti nella “sintesi negriana”? Lo speriamo, naturalmente. Ma sappiamo anche che la fine di un’ideologia consolatrice va promossa, costruita, sedimentata in azione innervata di pensiero e pensiero capace di azione. E’ insomma una scomparsa che va perseguita come obiettivo, non soltanto “sperata”.
Questo contributo di Carlo Formenti, pur centrato esclusivamente su un testo di Lazzarato, ci sembra cogliere numerosi “buchi neri” nel pensiero degli “operaisti senza operai” che hanno esercitato un ruolo negativo, ma di forte impatto, nella storia italiana degli ultimi 50 anni.
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Analizzando la svolta liberista delle socialdemocrazie europee, Luciano Gallino1 parla di “cattura cognitiva”, riferendosi alla doppia capitolazione delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio di fronte alla controrivoluzione neoliberista: mancata opposizione agli attacchi del nemico di classe e sostanziale accettazione dei suoi paradigmi teorici (Gramsci avrebbe parlato di egemonia e di rivoluzione passiva). In un testo recente2, ho tentato di dimostrare come il processo di cattura cognitiva sia andato ben oltre i confini della socialdemocrazia, coinvolgendo anche la cultura dei movimenti e delle sinistre radicali. La breccia che ha consentito lo “sfondamento” del fronte ideologico anticapitalista è stata la rinuncia a descrivere il conflitto sociale in termini di lotta di classe. Nel testo citato nella nota precedente, ho messo al centro della mia analisi critica: 1) i “nuovi movimenti” che, dall’inizio degli anni Ottanta, hanno progressivamente spostato l’asse dei conflitti sociali verso le contraddizioni di genere, le tematiche ambientali e la lotta per l’estensione dei diritti individuali nel quadro della “democrazia reale” (con estrema approssimazione, si potrebbe parlare di uno slittamento dalla lotta per l‘uguaglianza socioeconomica alla lotta per il riconoscimento delle differenze culturali); 2) la lunga deriva del pensiero post-operaista, a sua volta in progressivo allontanamento dal concetto di classe. In questa sede mi occuperò esclusivamente di questo secondo bersaglio polemico, concentrando l’attenzione su un testo di Maurizio Lazzarato3 che ho potuto leggere solo successivamente alla pubblicazione del mio ultimo libro.
La mia critica di fondo – attorno alla quale ruotano tutte le altre – a Negri e allievi riguarda l’incapacità di prendere atto della natura storicamente determinata – e dunque contingente – del paradigma teorico fondato sulla figura dell’operaio massa. Dopo la destrutturazione della fabbrica fordista, che ha annientato la forza contrattuale della classe operaia occidentale, la tradizione inaugurata dai Quaderni Rossi si è avvitata nella nostalgica ricerca di nuovi soggetti in grado di incarnare il dogma secondo cui sarebbero sempre i comportamenti del lavoro a determinare il corso dello sviluppo capitalistico. Il glossario neo/post operaista si è così arricchito di una serie di categorie – operaio sociale, moltitudini, ecc. – nello sforzo di mantenere in vita il mito dell’autonomia delle classi subalterne, proprio mentre la «guerra di classe dall’alto»4 andava distruggendo l’uno dopo l’altro tutti gli spazi di autonomia reale. Gli ultimi anelli di questa catena di illusioni sono stati i lavoratori della conoscenza e i lavoratori autonomi di seconda generazione, descritti, rispettivamente, i primi come nuova avanguardia in grado di incarnare il punto più alto della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione, i secondi come pionieri di un “esodo” consapevole e spontaneo dalla condizione di lavoratore dipendente. Illusioni frustrate dalla doppia crisi della “nuova economia” digitale (2001) e dei suprime (2007) che ha fatto strame delle velleità di leadership economica e culturale delle “classi creative” e ha evidenziato il carattere eteronomo dei processi di fuoruscita dal lavoro dipendente. La dura lezione della crisi avrebbe potuto e dovuto suggerire una riflessione autocritica: occorreva tornare a ragionare sulla relazione fra conflitto sociale e composizione di classe (allargando necessariamente il campo di analisi al sistema mondo), ma soprattutto sarebbe stato necessario rispolverare la “cassetta degli attrezzi” marxista (sia pure con le ovvie esigenze di aggiornamento e rinnovamento), accantonando le suggestioni post strutturaliste che hanno ispirato il pensiero tardo operaista. Non è successo e benché lo scossone, come conferma il lavoro di Lazzarato sul quale concentrerò l’attenzione da qui in avanti, qualche effetto lo abbia prodotto, la deriva prosegue, continuando a generare i suoi involontari effetti di cattura cognitiva da parte del campo ideologico avversario.
L’analisi della crisi da cui prende le mosse l’argomentazione di Lazzarato è ormai condivisa dalla maggioranza delle sinistre radicali, non solo da quelle di tendenza post operaista; tale analisi si basa su due assunti di fondo: 1) per il nuovo modello di accumulazione capitalistica la crisi non rappresenta più un’eccezione bensì la norma; 2) tutte le chiacchiere in merito alla necessità di mettere mano alle regole (o meglio, di reintrodurre regole che da tempo non esistono più) di funzionamento del sistema finanziario sono, appunto, chiacchiere, dal momento che oggi ciò significherebbe mettere in discussione il capitalismo stesso. Si potrebbe dire che il primo assunto si limita a riproporre una tesi che la marxiana critica dell’economia politica aveva avanzato già più di un secolo e mezzo fa: le crisi non sono incidenti dell’economia capitalistica ma ne rappresentano il normale meccanismo di funzionamento. La novità consiste nel fatto che, nella attuale fase del capitalismo finanziarizzato e globalizzato, la crisi tende ad assumere un carattere che va al di là dell’evento ciclico: sia perché la volatilità diventa, a mano a mano che i mercati finanziari si rendono autonomi dai mercati industriali, uno stato permanente, sia, o meglio soprattutto, perché la crisi è oggi il principale strumento di governo delle classi subordinate. Una volta accettato il primo assunto, il secondo ne discende come un corollario: quanto più l’accumulazione assume carattere finanziario, tanto più il sistema tende a divenire irriformabile, per cui i sogni di un nuovo New Deal sono destinati a rimanere tali.
Non meno condivisibile suona la critica che Lazzarato avanza, proprio a partire dalla diagnosi sulla natura della crisi, nei confronti del concetto foucaultiano di governamentalità. Il regime dell’austerità comporta infatti, tanto a livello di un potere politico che prescinde ormai dalle tradizionali forme di ricerca del consenso, sia a livello di un potere aziendale che, accantonati i miti “orizzontalisti” degli anni Novanta, regredisce verso forme di accentramento gerarchico, il ricorso a tecniche di imposizione, divieto, norma, direzione, comando, ordine e normalizzazione (l’elenco è di Lazzarato). Ancora più clamoroso appare il fallimento del progetto ideologico di sostituire – attraverso la categoria del “capitale culturale” – la figura del lavoratore salariato con quella dell’imprenditore di sé. Il fallimento non si riferisce tanto allo sforzo di cattura cognitiva delle classi subalterne da parte del potere politico ed economico, che non subisce alcuna interruzione (basti pensare alle ossessive celebrazioni mediatiche delle virtù taumaturgiche di auto-imprenditoria, startup, ecc.), quanto alla delegittimazione di tutti quei discorsi che, “da sinistra” contribuivano ad alimentare analoghe illusioni (capitalismo molecolare, lavoro autonomo di seconda generazione, ecc.), attribuendo una patente di “ambiguità” ai processi di privatizzazione/individualizzazione finalizzati a smembrare il corpo di classe. Purtroppo Lazzarato non sviluppa queste intuizioni in una critica coerente e radicale del paradigma teorico che sostanzia il concetto di governamentalità; al contrario, il suo discorso resta saldamente ancorato al pensiero post strutturalista di Foucault, Deleuze e Guattari, finendo in questo modo per dare a sua volta il proprio contributo alla cattura cognitiva. Per dimostrarlo, prenderò in considerazione alcuni nodi tematici del suo discorso: la condizione dell’indebitato come nuovo criterio dell’appartenenza di classe; il capitalismo come macchina astratta e la distinzione fra capitale e capitalismo; il rapporto fra stato e capitale; la tesi della natura ciclica dell’accumulazione originaria; la tesi secondo cui il capitale non avrebbe più limiti esterni; la riproposizione della categoria del rifiuto del lavoro.
Partiamo dal tema del debito. L’indebitamento come tecnica di assoggettamento delle classi subordinate non è una novità storica, anche se è indubbio che il peso del debito nei meccanismi dell’attuale crisi finanziaria – sia in quanto debito privato (basti pensare alla bolla del debito immobiliare scoppiata nel 2007 e a quella del debito studentesco destinata a scoppiare nei prossimi anni), che in quanto debito pubblico – sia decisivo; ma basta questo per affermare che la divisione di classe non è più fra capitalisti e salariati ma fra debitori e creditori? Personalmente penso che si tratti di un’assurdità, come ho già argomentato a proposito di analoghe tesi avanzate da Antonio Negri e Michael Hardt5. L’ipertrofia del debito privato nasce: 1) dall’onda lunga della compressione dei salari, a sua volta provocata dall’esigenza capitalistica di recuperare i margini di profitto erosi dalla crisi e dalle lotte operaie degli anni Settanta, 2) dalla necessità di sostenere i consumi falcidiati dai tagli salariali. Invece Lazzarato rovescia la relazione causa effetto: non si costruisce un’economia del debito per ovviare agli effetti dei bassi salari ma si abbassano i salari per costruire un’economia del debito. È grazie a questa inversione prospettica che si arriva ad affermare che la divisione di classe non è più fra capitalisti e salariati bensì fra debitori e creditori, mettendo in secondo piano la lotta di classe dall’alto che ha massacrato i salari (il rifiuto del lavoro salariato, inteso come tendenziale riduzione a zero del livello salariale, è oggi la parola d’ordine dei capitalisti piuttosto che quella dei proletari i quali, ridotti a working poor appaiono costretti a pietire un lavoro qualsiasi in cambio di salari di fame). Lazzarato arriva addirittura ad affermare che «gli operai non rappresentano più una classe politica e non la rappresenteranno mai più». Si tratta di una tesi quanto meno bizzarra, ove si consideri che la classe operaia non è mai stata tanto numerosa a livello mondiale, e che nei Paesi in via di sviluppo le sue lotte sono in continua crescita. Ma soprattutto si tratta di abdicazione di fronte alla sfida teorica di analizzare le mutazioni di una classe operaia occidentale che, mentre “dimagrisce” nelle forme classiche del proletariato industriale, prolifera sotto forma di una galassia di soggetti (disoccupati e sottoccupati, working poor, migranti, lavoratori del terziario arretrato, precari, ecc.) che sta a sua volta iniziando a organizzarsi e a lottare (basti pensare alle mobilitazioni del 18 e 19 ottobre 2013 a Roma e alle lotte dei lavoratori americani delle grandi catene commerciali).
Tuttavia Lazzarato, esponente di quella curiosa genia di “operaisti senza operai” in cui si sono trasformati lui e i suoi compagni di strada, non può riconoscere l’identità di classe di questi soggetti perché, intrappolato com’è nel paradigma foucaultiano, deve fondare i rapporti sociali sulla genealogia delle tecniche di controllo, piuttosto che sui rapporti di sfruttamento socioeconomico. Per questo descrive la relazione fra debitori e creditori come un dispositivo che induce i primi a interiorizzare le relazioni di potere a partire dal debito vissuto come colpa. Tesi che si accompagna a una riflessione critica nei confronti delle teorie psicoanalitiche e antropologiche che riconducono il debito al peccato originale, laddove esso sarebbe piuttosto «il prodotto delle società gerarchizzate, statalizzate, monoteiste», si tratterebbe, dunque, di una dimensione artificialmente indotta dalle tecniche di dominio politico. Sarebbe agevole dimostrare come l’unificazione sotto un’unica categoria di tutte le forme storiche di dominio sopra elencate non regga: nel corso del tempo il debito ha assunto forme diversissime, affondando le radici in dimensioni socioculturali che spesso esulavano dalla sfera politica, la quale, in ogni caso, se ne è servita con le modalità più diverse. Preferisco tuttavia richiamare l’attenzione su un altro aspetto, evidenziato da Federico Chicchi in una recensione6 – peraltro assai elogiativa – del lavoro di Lazzarato: oggi la psicanalisi – perlomeno quella di scuola lacaniana – non richiama affatto l’attenzione sulla colpa bensì su un altro, più potente, motore inconscio che alimenta l’indebitamento, vale a dire su quella “ingiunzione al godimento” senza limiti (jouissance) che rappresenta il punto di intersezione fra culture “desideranti” e consumismo7.
Passiamo ora alla distinzione fra capitale e capitalismo. «Il capitale non conosce né uomo, né donna, né sesso, né genere, né corpo, né razza: nei flussi di denaro de territorializzati non ci sono soggetti, oggetti, individuo, collettivi, professioni, mestieri, e nemmeno linguaggi, immagini, discorsi o classi». Partendo da questa asserzione di Lazzarato ci si potrebbe aspettare l’avvio di una riflessione convergente con le mie critiche8 nei confronti dei movimenti che attribuiscono alle differenze di genere, etnia, ecc. valenza antagonistica, non solo nei confronti del patriarcato e altre forme di dominio/oppressione, ma anche del capitalismo – illusioni ideologiche smentite dal fatto che il capitalismo si è rivelato capace di integrare questi conflitti nei suoi meccanismi di accumulazione, trasformando le domande di riconoscimento identitario in altrettanti bisogni da soddisfare attraverso il mercato. Ma Lazzarato non può imboccare tale direzione perché il concetto di capitale cui si riferisce non è quello di Marx, bensì quello elaborato dalla coppia Deleuze-Guattari. Partendo dal pensiero di questi due autori, egli distingue infatti fra capitale e capitalismo: il primo coincide con la deleuziana “macchina astratta”, il secondo, anzi i secondi essendo qui il plurale d’obbligo, sono i capitalismi reali, “incarnati” nelle differenti forme concrete che hanno assunto nei differenti contesti nazionali, culturali, istituzionali, ecc. E qui è d’obbligo aprire una parentesi epistemologica. A uno sguardo superficiale, potrebbe sembrare che il capitale descritto da Marx sia a sua volta una macchina astratta. Come spiegare altrimenti il fatto che molte delle sue “leggi” trascendono le contingenze empiriche e funzionano tuttora, pur in un contesto storico radicalmente mutato? Ma le cose non stanno affatto così: il capitale descritto da Marx è una “astrazione concreta”, non è, cioè, né un “idealtipo” weberiano, né una “struttura” (con buona pace di Althusser e discepoli), è piuttosto una descrizione semplificata della realtà storica del capitalismo industriale del XIX secolo, e se molti elementi di tale descrizione hanno ancora senso oggi, ciò non dipende dalla bontà del “modello”, bensì dalla capacità di durare nel tempo di alcuni elementi di quel concreto modo di produzione. Una continuità che si riferisce, in primo luogo, al conflitto di classe, cioè alla categoria fondante di un pensiero che non andava in cerca di “leggi” (preoccupazione che lasciava volentieri agli economisti borghesi) ma si poneva come critica dell’economia politica, come pensiero-azione del tutto interno alla lotta di classe. La marxiana “ontologia dell’essere sociale”, come ha ben compreso Gyorgy Lukacs9, non conosce distinzione fra struttura e sovrastruttura (un’opposizione inventata da epigoni maldestri) ma coglie i rapporti sociali nella loro concreta unità storica, senza disconoscere la reciproca autonomia delle loro articolazioni economiche, culturali e politiche.
Torniamo ora a Lazzarato/Deleuze. Nemmeno nel suo caso la macchina astratta è un “modello” nel senso weberiano del termine, visto che rispecchia piuttosto il concetto di struttura che sta alla base di tutto il recente pensiero filosofico transalpino. La struttura è qualcosa di assolutamente reale (in un senso non molto diverso da quello in cui sono reali le idee della filosofia classica) che tuttavia, per manifestare la propria realtà, deve “incarnarsi”. Ecco perché la macchina capitalistica astratta (che Lazzarato descrive anche come «un operatore semiotico incluso nell’infrastruttura») necessita di un processo di “personificazione”. Anche qui siamo dunque in presenza di una tensione verso l’immanenza, che tuttavia, a differenza dell’immanenza marxiana, non è originaria, costituiva dell’unità del reale, bensì derivata. Se partiamo dalla macchina non troviamo soggetti concreti10 ma solo relazioni astratte che, come abbiamo appena visto, devono essere “personificate”. Questo compito spetterebbe, secondo Lazzarato, allo Stato: è lo Stato a produrre letteralmente dal nulla tutti i soggetti che le incarnano. In sostanza, ci troviamo di fronte all’intersezione fra l’anti-statalismo ideologico della tradizione operaista (sempre più vicina alla tradizione anarchica) e il pensiero genealogico di Foucault, che ricostruisce la storia di tutte le forme moderne della soggettività come “produzioni” del potere. La promettente riflessione critica di Lazzarato sui limiti del concetto di governamentalità (vedi sopra) va così a farsi benedire, riassorbita da questa idea di una potenza produttiva in grado di “plasmare” i soggetti.
Da dove viene questa potenza? La domanda si fa impellente laddove Lazzarato ripropone una tesi che è patrimonio di tutta la tradizione marxista rivoluzionaria, quando afferma cioè che il capitalismo non è mai stato liberale, ma è sempre stato capitalismo di stato, nel senso che a garantire il funzionamento della smithiana “mano invisibile” non sono gli automatismi del mercato, bensì gli effetti di una “vittoria politica” che sta a monte del mercato . Giusto, ma la vittoria politica di chi su chi? O si ritorna alla buona immanenza marxiana, vale a dire al concetto dello stato come comitato di affari della borghesia (che oggi la simbiosi fra lobby finanziarie e caste politiche rende più attuale che mai), o ci si smarrisce nella cattiva immanenza foucaultiano-deleuziana, che neutralizza la soggettività antagonista ingabbiandola fra la macchina astratta del capitale e la potenza produttiva del potere. Una volta imboccata la seconda strada, quali sono i soggetti antagonisti? Gli indebitati? Difficile, visto che lo stesso Lazzarato ammette che faticano a esteriorizzare il conflitto proiettandolo su un nemico di classe. I lavoratori autonomi? Ancora più improbabile, visto che sono gli stessi cantori del Quinto Stato e dei lavoratori autonomi di seconda generazione i primi a riconoscere l’individualizzazione e la totale assenza di consapevolezza politica di questo strato sociale11? I “cognitari”? Purtroppo quella che negli anni Novanta veniva salutata come la nuova classe emergente, alla fine del primo decennio del XXI secolo non esiste letteralmente più: una esigua minoranza è stata cooptata nelle stanze dei bottoni delle multinazionali hi tech, gli altri sono sprofondati nell’inferno della sottoccupazione e dei working poor. E allora? La risposta di Lazzarato, come chiarisce Federico Chicchi nella già citata recensione, si fonda su tre “classiche” categorie neo/post operaiste: bioproduzione, moltitudini, rifiuto del lavoro.
Parlare oggi di rifiuto del lavoro salariato suona quanto meno bizzarro, dal momento che, come ricordavo in precedenza, a praticarlo assai più dei proletari sono i capitalisti, i quali nei paesi ricchi (ex ricchi, per la maggioranza della popolazione) offrono sempre meno lavoro retribuito (se e quando lo offrono, si tratta di lavoro sotto retribuito, precario saltuario e, non di rado, gratuito), mentre nei Paesi in via di sviluppo ne offrono tantissimo creando una enorme massa di nuovi operai che il lavoro non lo rifiutano ma, semmai, lottano per strappare salari più elevati, riduzioni di orario e ritmi produttivi accettabili. Ma non è a questo lavoro che si riferisce Lazzarato, il quale pensa piuttosto al concetto di bioproduzione elaborato da Antonio Negri e Michael Hardt, pensa cioè alla tesi secondo cui, grazie ai processi di digitalizzazione e finanziarizzazione, il capitalismo è oggi in grado di mettere al lavoro la vita stessa, di appropriarsi dell’intero universo delle relazioni sociali e di tutto il tempo vita, che divengono materia prima dei nuovi processi di valorizzazione. Chi scrive, pur non utilizzando il concetto di bioproduzione, ha sviluppato idee analoghe analizzando i meccanismi di funzionamento del capitalismo digitale, la sua capacità di appropriarsi dei saperi, delle conoscenze, delle relazioni sociali e delle emozioni dei prosumer interconnessi in Rete12. La differenza è che il sottoscritto non ha mai scambiato la parte per il tutto, le tendenze per la realtà assoluta: il capitalismo digitale non è il capitalismo tout court e non sopravvivrebbe un secondo senza l’enorme mole di attività produttive che si svolgono al difuori della sua sfera di azione e di dominio. I post operaisti, che al contrario eleggono la tendenza a realtà assoluta, sono costretti a difendere il dogma secondo cui oggi non esisterebbe più alcun fuori dal capitalismo, in palese e stridente contrasto con l’altra loro asserzione, assai più sensata e condivisibile, la quale afferma che l’accumulazione primitiva non è un processo che si è svolto una volta per tutte nella fase aurorale del capitalismo ma si ripete ciclicamente, dal momento che il capitalismo non può evolversi senza condurre periodiche campagne di appropriazione di risorse, energie, culture, conoscenze, soggettività, relazioni, ecc. che stanno appunto “fuori” (sia dal punto di vista territoriale, sia in quanto irriducibile “scarto” di relazioni e attività extra mercato presenti all’interno dei suoi stessi confini). Si tratta di una verità ben nota a Rosa Luxemburg, che l’aveva meglio compresa di Lenin e dello stesso Marx – verità che smaschera l’assurdità dell’idea un “capitalismo infinito”, senza limiti né confini. Del resto, se non esistesse un fuori il capitalismo sarebbe già morto o agonizzante, il che, secondo lo sfrenato ottimismo post-operaista, è appunto quanto sta avvenendo perché, se davvero non c’è più fuori, la contraddizione non è più quella fra capitale e lavoro bensì quella fra capitale e vita: «Oggi il rifiuto del lavoro, chiosa Chicchi commentando le tesi di Lazzarato, mette in discussione più profondamente il capitale di quanto non abbia fatto il rifiuto operaio, perché riguarda la società nel suo insieme e la soggettività in tutte le sue dimensioni, ciò che è in gioco è l’antropologia della modernità». Pensiero stupendo ma vuoto, dato che la «soggettività in tutte le sue dimensioni», privata di ogni connotato di classe, non è un soggetto antagonista ma una assurda astrazione. Un’astrazione che, ricondotta con i piedi per terra, non si incarna nelle nuove forme di lotta del proletariato globale cui accennavo in precedenza, bensì nel volto rabbioso delle classi medie impoverite: populismi cinquestellari, forconi e dintorni.
Note al testo
1Vedi, fra gli altri testi in cui Gallino usa tale definizione, Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi, Torino 2013.
2C. Formenti, Utopie letali. Contro le ideologie postmoderne, Jaca Book, Milano 2013.
3M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato, Derive Approdi, Roma 2013.
4Cfr. L. Gallino, la lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 1012.
5Cfr. M. Hardt, A. Negri, Questo non è un manifesto, Feltrinelli, Milano 2012.
6Cfr. l’articolo di F. Chicchi sul sito di “Alfabeta2”, consultabile all’indirizzo: http://www.alfabeta2.it/2013/12/15/il-governo-delluomo-indebitato
7A tale proposito cfr. M. Fiumanò, L’inconscio è il sociale. Desiderio e godimento nella contemporaneità, Bruno Mondadori, Milano 2010.
8Cfr. Utopie letali, op.cit.
9Cfr G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Pgreco Edizioni, Milano 2012.
10Notiamo, per inciso, che a sparire non sono solo gli operai ma anche i capitalisti: non ci sbarazza solo della fatica di analizzare la mutazione della composizione del proletariato mondiale, ma anche dello sforzo, di cui si sono fatti carico autori come Gallino (vedi note precedenti), di dare volto, nome e cognome ai membri della nuove élite che governano il mondo.
11Cfr. in proposito, G. Allegri, R. Ciccarelli, la furia dei cervelli, manifestolibri, Roma 2011 e S. Bologna, D. Banfi, Vita da freelance, Feltrinelli, Milano 2011.
12Cfr. C. Formenti, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.
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