Il 26 Agosto 2012, a L’Avana, Cuba, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – Esercito del Popolo (FARC – EP) e il governo della Colombia hanno firmato uno storico e speranzoso “Accordo generale per la fine del conflitto“.
Il 18 ottobre di quell’anno diedero inizio alle “conversazioni dirette e ininterrotte sui punti dell’agenda”, conosciuti come i dialoghi de L’Avana, “al fine di raggiungere un Accordo Finale per la risoluzione del conflitto che contribuisca alla costruzione di una pace stabile e duratura”.
I punti dell’agenda sono: 1) Politica di sviluppo agrario integrale; 2) Partecipazione politica; 3) Fine del conflitto; 4) Soluzione al problema delle droghe illecite; 5) Vittime; 6) Attuazione, verifica e convalida.
Diverse sfide si devono superare, con l’obiettivo di garantire “l’efficacia del processo e completare il lavoro sui punti dell’agenda in maniera spedita e nel più breve tempo possibile” e, nonostante le diverse visioni di ciò che significa “nel più breve tempo possibile”, sono stati raggiunti una serie di accordi nei primi due punti dell’agenda.
Le più diverse organizzazioni politiche e sociali, dentro e fuori la Colombia, seguono e sostengono in modo solidale e attivo questi dialoghi, essendo parte delle ampie, massicce e popolari mobilitazioni per fare pressione al governo di Juan Manuel Santos affinché assuma seriamente la generazione di condizioni e garanzie per raggiungere un accordo di pace su una solida base di vera democrazia, giustizia sociale e sovranità.
Le FARC-EP evidenziano che le loro bandiere storiche “sono in primo piano nella lotta politica”, e che il governo sa che “non siamo mai stati, né mai saremo, disponibili verso alcun piano di resa”, e che “l’unica via d’uscita è quella di risolvere i problemi che hanno generato il conflitto”.
Assumendo l’impegno con i colloqui di pace, una Commissione del Partito Comunista del Venezuela (PCV), guidata dal suo Segretario Generale, Oscar Figuera, ha tenuto riunioni nella capitale cubana con la Delegazione di Pace delle FARC-EP, organizzazione guerrigliera che il prossimo 27 maggio compirà i suoi 50 anni.
Nel quadro di queste riunioni, Tribuna Popular ha realizzato un’intervista esclusiva con Iván Márquez, membro della Segreteria delle FARC-EP e Jesús Santrich, dello Stato Maggiore Centrale, che riproduciamo integralmente di seguito:
TP: L’accordo generale sottoscritto con il Governo colombiano si pone l’obiettivo di “porre fine al conflitto”; la conquista del Potere politico e la costruzione del Socialismo sono ancora gli obiettivi delle FARC-EP?
Ciò che stiamo discutendo sono punti di approccio per risolvere essenzialmente le cause della miseria, della disuguaglianza e della mancanza di democrazia, riprendendo in particolare le iniziative popolari in questi campi.
Sappiamo che non faremo la rivoluzione al tavolo dei dialoghi; ma nemmeno è in discussione la possibilità che il governo ottenga una finta pace, senza cambiamenti nelle ingiuste strutture della società. Questi dipendono dall’azione organizzata delle masse. Ciò che discutiamo in questa sede sono delle proposte minime, non il nostro programma rivoluzionario verso il Socialismo al quale non rinunceremo mai.
TP: Che cosa intendete per “fine del conflitto”?
La fine del conflitto ha due livelli specifici: uno è la fine dello scontro militare propriamente detto, e l’altro la fine dello scontro sociale che deriva dai profondi problemi d’ordine politico, economico e sociale che patiscono le maggioranze popolari.
Combinando i due fattori, la fine del conflitto significherà l’inizio di un lungo periodo di tregua bilaterale che permetta di materializzare gli impegni concreti di cambiamento che si raggiungeranno al tavolo, ma con la partecipazione attiva, protagonista, del movimento popolare.
Ciò sarà sicuramente accompagnato da un processo costituente per riconfigurare l’ordinamento politico e sociale del paese. In Colombia si devono creare le condizioni e le garanzie per l’esistenza di una democrazia reale che permetta la soluzione civile delle aspettative delle comunità.
TP: E’ passato un anno e mezzo dalla firma dell’accordo generale, rimanete ottimisti circa le possibilità di raggiungere una “pace stabile e duratura”?
Abbiamo raggiunto due accordi parziali molto importanti, relativi alla trasformazione agraria e alla partecipazione politica, e siamo in procinto di realizzare qualcosa di simile sulla questione della sostituzione delle coltivazioni ad uso illecito, che sono parte di un problema sociale maggiore rappresentato dal narcotraffico, che tocca l’intero tessuto sociale e attraversa l’insieme delle istituzioni in Colombia.
Questo, ed il grande sostegno sia a livello nazionale che internazionale che ha il processo, ci conferisce l’ottimismo per restare al tavolo dei dialoghi.
TP: In quali temi del dialogo vi sono grandi differenze con il Governo? Quali sono i nodi che sembrano più difficili da superare?
Tra il primo e il secondo punto abbiamo accumulato 24 questioni intorno alle quali vi è l’impegno di ridiscutere e trovare soluzioni, perché sono elementi nodali, insormontabili, senza i quali non si potrà concludere un accordo definitivo.
Essi sono pubblicati in dettaglio nei nostri siti di diffusione, ma possiamo dirvi che i primi ruotano attorno alla proprietà, possesso e uso della terra, concretamente alla necessità di eliminare il latifondo, arrestare il trasferimento della terra in mani straniere, al fine di realizzare una vera e propria redistribuzione che cancelli lo scandaloso accaparramento della terra che esiste nelle zone rurali.
Su questo stesso piano si pone il problema dei conflitti per l’uso della terra, che hanno a che fare con la nefasta presenza dei latifondi per allevamento di bestiame che occupano quasi 40 milioni di ettari (un terzo del territorio nazionale) e la pericolosa espansione minerario-energetica, che minaccia pericolosamente l’equilibrio ambientale e la sostenibilità dell’economia. Relazionato a tutto ciò vi è il rifiuto dei Trattati di Libero Scambio, e della pretesa di stabilire il cosiddetto diritto reale di superficie, elementi, tra gli altri, che mirano a configurare una terra senza contadini, per fare spazio agli interessi delle multinazionali. In questo punto, il riordinamento territoriale è fondamentale.
Le seconde questioni in sospeso riguardano l’esercizio della democrazia, le ristrutturazioni istituzionali e dello Stato, che la Colombia reclama urgentemente in materia elettorale, giudiziaria, di politica economica, di organismi di controllo, sanità, istruzione, ecc., ma soprattutto l’aspetto della Dottrina della Sicurezza Nazionale, includendo i necessarie cambiamenti in materia di sicurezza cittadina, che oggi criminalizzano in modo estremo la protesta sociale.
Non vediamo eccessive difficoltà nella possibilità di risolvere tutto ciò che è stato menzionato, dato che dopo un progresso come quello già raggiunto, si deve produrre una maggiore partecipazione della cittadinanza, del popolo sovrano, ed è logico che sia un’ Assemblea Nazionale Costituente, che dopo aver sciolto le questioni, ci consegni un trattato di pace.
TP: Perché questi colloqui di pace si tengono fuori dalla Colombia? Vi è la partecipazione reale ed effettiva del popolo colombiano?
Non sempre le FARC hanno dialogato in territorio colombiano; ci sono stati colloqui a Caracas e poi a Tlaxcala, Messico. L’insistenza che i colloqui si facessero in Colombia obbediva alla volontà di avere la più ampia partecipazione delle comunità nell’identificazione dei problemi che sono di interesse nazionale. Ma l’intransigenza del governo rispetto al fatto che i dialoghi si sviluppassero nel paese, avrebbe potuto vanificare la possibilità della riconciliazione.
Per questo abbiamo deciso di non trasformare questo tema in una questione di principio, soprattutto quando siamo riusciti a concordare il fatto che sarebbero stati realizzati sul territorio nazionale forum di discussione e meccanismi per far sì che i vari settori potessero avere una presenza a L’Avana. Addirittura ci promisero voli charter per i connazionali che volevano partecipare; promessa che, finora, non si è materializzata e anzi si è minacciato di perseguire coloro che si spostavano a Cuba per parlare con la Delegazione di Pace della guerriglia.
D’altra parte, l’idea che la sede fosse Cuba, paese garante, con il forte sostegno del Venezuela, ha fornito un carattere di sicurezza e di fiducia assoluta nella fase dei colloqui. Siamo pienamente soddisfatti che questi colloqui di pace si svolgono nell’isola della libertà. Le FARC sono molto grate a Cuba, al suo governo e al suo popolo, che hanno accolto con assoluto rispetto e imparzialità le parti.
Infine, riteniamo che per quanto riguarda la partecipazione delle persone alla costruzione degli accordi, l’ostacolo non è la geografia, ma la disposizione che esiste nel governo a includere le proposte che le organizzazioni sociali e politiche del paese hanno trasmesso al tavolo. E’ necessario che i cittadini conoscano i progressi e le questioni irrisolte, in modo da poter decidere in merito alle soluzioni, per far sì che ciò su cui ci si accorda risponda alle aspirazioni delle maggioranze che vogliono cambiamenti strutturali nel nostro paese.
TP: Perché sono falliti i dialoghi precedenti? Quali sono le differenze con il processo in corso?
Gli accordi de La Uribe [1984] fallirono perché, dopo la firma e l’emergere dell’Unione Patriottica per fare politica in condizioni di democrazia, ci furono omissioni, violazioni del cessate il fuoco bilaterale e un’ondata di assassinii contro dirigenti e militanti del nuovo movimento che divenne il più grande genocidio politico della storia recente dell’America Latina.
Caracas [1991] e Tlaxcala [1992] fallirono perché invece di risolvere i profondi problemi sociali che hanno generato lo scontro, il governo decise di soddisfare l’accordo con Washington e dare corso all’apertura economica neoliberista, che approfondì le condizioni di miseria e disuguaglianza in Colombia.
Come lo stesso presidente Pastrana ha confessato nelle sue memorie sul processo, il governo non ha cercato la riconciliazione nel Caguán [1998-2002], ma voleva guadagnare tempo per ristrutturare l’esercito. Aveva bisogno di frenare la dinamica di sconfitte consecutive dell’esercito per mano della guerriglia, e di eliminare ogni espressione di insoddisfazione relativa all’approfondimento del neoliberismo. Non c’era alcun desiderio di pace in quel governo; infatti, in pieno sviluppo dei dialoghi, tollerò massacri paramilitari contro la popolazione e una volta che gli strateghi di Washington terminarono di approntare il Plan Colombia, con un pretesto ruppe il dialogo e scatenò la guerra.
Nonostante tutto questo, abbiamo persistito nella ricerca di soluzioni politiche, perché la pace è il nostro proposito strategico. Vediamo che è possibile avere soluzioni che risolvano i problemi essenziali sulla proprietà e l’utilizzo della terra, aprire le porte alla partecipazione politica dei cittadini e generare cambiamenti strutturali che favoriscano la maggioranza della società; per questo siamo a L’Avana.
Se si osserva bene, il fattore comune di fallimento nei tre tentativi precedenti di pace attraverso il dialogo, è stato pretendere la smobilitazione dell’insorgenza senza cambiamenti nelle ingiuste strutture politiche, economiche e sociali dello Stato.
La differenza con oggi sta nel fatto che il governo ha acquisito un’esperienza; sa che non siamo mai stati e mai saremo disponibili verso alcun piano di resa e ciò gli dà abbastanza elementi per capire che l’unica via d’uscita è quella di risolvere i problemi che hanno causato il conflitto, se si vuole costruire la pace su solide fondamenta.
TP: Il governo colombiano ha negato di accettare un cessate il fuoco bilaterale e ha persistito nella sua linea militarista, pensate che abbia reale volontà di raggiungere accordi di pace?
Il militarismo è uno degli elementi da rimuovere da qualsiasi scenario di dibattito politico. Quando il governo deciderà di lasciarsi alle spalle l’aspetto già citato della Dottrina di Sicurezza Nazionale, la concezione del nemico interno e il paramilitarismo, cioè la guerra sporca, potremmo dire che si è passati dalla retorica alla pratica, per quanto concerne una volontà di pace certa.
Nel frattempo noi, con le dichiarazioni di tregua unilaterale e molti altri segnali di volontà di riconciliazione, abbiamo cercato di contribuire a creare l’ambiente migliore per alleviare la popolazione dalle dure conseguenze della guerra. Speriamo che a un certo punto il governo assuma lo stesso atteggiamento e abbandoni l’idea vana che con la pressione militare raggiungerà vantaggi al Tavolo, perché qui i vantaggi non devono essere per nessuna delle parti in particolare, ma per l’intera società.
TP: Permetterà l’oligarchia colombiana che avanzino gli sforzi di pace e le garanzie di partecipazione politica democratica?
L’idea del dialogo è precisamente costruire gli spazi di partecipazione democratica. Questo non è facile, perché al di là di esprimere la disponibilità a parole, bisogna esprimerla nella pratica ed è questo ultimo aspetto su cui noi richiamiamo attenzione. Per questo abbiamo detto che sono obbligatori cambiamenti di fatto, che trascendono dalla retorica del governo.
Finora gli assassinii non si sono fermati, la persecuzione dei dirigenti popolari, l’incarcerazione e la criminalizzazione della protesta sociale nemmeno, quindi il nostro ottimismo è moderato perché la realtà nella quale costantemente appaiono i denti del militarismo, riempie il cammino di incertezze.
Non abbiamo mai dimenticato che le élite colombiane sono sanguinarie. Ci auguriamo che la controparte cambi rotta, e che i settori fascisti che alimentano la guerra e la degradano, come l’uribismo, affoghino nel loro fango.
TP: L’accordo sottoscritto stabilisce che il Governo dovrebbe combattere le organizzazioni criminali, ma sono noti i suoi legami storici con il paramilitarismo, che aspettative avete che si compia questo punto?
Questo ha a che fare con la questione della Dottrina di Sicurezza. Se questa non cambia è impossibile che il paramilitarismo, qualunque sia il nome che gli si assegni, come l’attuale di bande criminali (BACRIM), finisca. Se non c’è una decisione politica contundente saremo semplicemente condannati ad un altro fallimento, perché la guerra sporca si erigerà, come previsto dal Procuratore Generale della Nazione, Eduardo Montealegre, nel principale ostacolo alla pace. Quindi questo è un aspetto che implica non solo aspettative.
In questo non possiamo fare affidamento solo a promesse, ma a fatti palpabili. La disattivazione del paramilitarismo deve essere visibile a tutti e questo implica una depurazione dell’istituzione armata, compresa la smilitarizzazione dello Stato e della società.
TP: Avete previsto il tempo in cui potrà avvenire la firma dell’Accordo Finale?
In questo impegno dobbiamo spendere tutto il tempo necessario senza dipendere da premure elettorali, legislative o di qualsiasi altro tipo. Inoltre, la pace deve essere una politica di Stato e non ubbidire agli interessi o capricci di alcun governo in particolare, perché questo è un conflitto che già compie mezzo secolo e quindi richiede una lunga analisi delle sue cause e soluzioni. Da parte nostra, lavoriamo instancabilmente perché si realizzi nel più breve tempo possibile.
TP: Per rafforzare il processo di pace, che ruolo deve avere il Congresso eletto lo scorso 9 marzo?
Il Congresso della Repubblica recentemente eletto, con poche eccezioni, è la riedizione di una istituzione screditata e corrotta con la quale, purtroppo, si avrà a che fare per realizzare qualsiasi accordo politico a favore della pace, ma non per realizzare le trasformazioni che sono necessarie, perché lì non vi è alcuna autorità, né volontà, per renderle possibili.
Tuttavia il meccanismo di validazione del processo deve passare, se seguiamo la via delle formalità, dal parlamento. E’ già chiaro che non sarà attraverso il referendum che si mirava ad imporre, per realizzarlo in queste elezioni. Quel tentativo è fallito definitivamente. Ma ancora si deve trovare una soluzione che concili l’opinione del governo e delle FARC, ma soprattutto che apra ampi spazi di partecipazione dei cittadini.
La nostra proposta è la Costituente, ma questo è qualcosa da discutere, per farlo convergere con quello che pensa il governo e qualsiasi altra iniziativa che possa dare protagonismo alla sovranità, perché in definitiva è il popolo che deve avere l’ultima parola.
TP: Il prossimo 25 maggio vi sono le elezioni presidenziali in Colombia, quanto dipende da queste elezioni il processo di pace?
Come abbiamo detto poco fa, la pace come proposito superiore dovrà contare su una politica statale e non fare affidamento su congiunture legislative o elettorali o capricci di partiti o governi. Tutti i candidati dovranno essere impegnati con l’obiettivo di portare avanti i dialoghi.
Ci auguriamo che questo sia proprio così, con la consapevolezza che la pace non deve essere a favore della destra o della sinistra, per liberali, conservatori, verdi o comunisti; la pace è un diritto per tutti i colombiani. E deve essere costruita sulle basi della vera democrazia, la giustizia sociale e la sovranità.
TP: Già è definita la figura o il tipo di organizzazione con la quale agirete politicamente nella vita civile? Quali tattiche – differenti dalla lotta guerrigliera – vi proponete di sviluppare?
La transizione verso forme di lotta che non richiedono l’uso delle armi dipende dai cambiamenti di fatto che saranno raggiunti in materia di democrazia e redistribuzione della ricchezza; dipende dal fatto che la Colombia riprenda la sua indipendenza e sovranità e che il governo che si insedia segua gli interessi popolari.
Questo non accadrà da un giorno all’altro, ma certamente implica che dobbiamo sperimentare, durante la tregua, nella pratica, che l’impegno dello Stato verso la pace sia reale. Per questo, dovremo agire indubbiamente con gli strumenti della lotta politica aperta, in un’ampia convergenza con i settori popolari e democratici del paese che finora il sistema ha mantenuto in una situazione di esclusione o emarginazione. In questo esercizio, sicuramente, il nome storico delle FARC manterrà la sua presenza.
TP: La prospettiva reale di porre fine al conflitto ha inciso nella disposizione al combattimento della guerriglia?
Nella coscienza dei guerriglieri delle FARC quello che si inculca, come costante, è che il proposito maggiore della nostra lotta è la pace con giustizia sociale e che le armi sono solo uno strumento per raggiungerla in circostanze difficili, di guerra sporca, di chiusura degli spazi di partecipazione, di terrorismo di Stato e asimmetrie, ma le armi non sono un fine in sé; la cosa più importante sono le finalità per cui lotta la nostra gente, in modo che sia preparata ad agire in qualsiasi campo, con le armi o senza armi. Ricordiamo che le FARC sono sì un esercito, ma soprattutto sono un Partito politico rivoluzionario.
TP: Dopo 50 anni di lotta, il progetto politico delle FARC-EP continua ad essere valido e con prospettive di futuro?
Il programma politico delle FARC è assolutamente valido, soprattutto considerando che le cause che generarono il confronto, piuttosto che risolversi, si sono approfondite. Le ragioni per l’utilizzo delle armi si mantengono e speriamo che questi dialoghi pongano le basi per convincerci che in futuro non sarà più necessario il loro utilizzo, ma le bandiere che solleviamo per la terra e il territorio, per la creazione della democrazia, per il cambiamento della politica economica, per la difesa della sovranità, ecc., sono in primo piano nella lotta politica, perché sono le principali aspirazioni della maggioranza.
In 50 anni di lotta, le bandiere rivoluzionarie delle FARC, non hanno mai avuto così tante possibilità di trionfo.
TP: Come si garantisce la continuità politico-militare delle FARC-EP nella sua direzione?
Questa è un organizzazione politico-militare bolivariana, con struttura organizzativa leninista, che implica la direzione collettiva, l’accumulazione ordinata delle esperienze, la permanenza di scuole di formazione quadri, l’esistenza di strutture centralizzate, una forte democrazia interna, ma anche con significativi livelli di compartimentazione che consentono la preparazione e la preservazione di un componente umano di elevata morale, pronto ad assumersi le responsabilità che gli corrispondano indipendentemente dal fatto che le circostanze siano favorevoli o avverse.
La conduzione delle FARC non è unipersonale in nessuno dei livelli, non ci sono dei signori della guerra, e le strutture di direzione ottengono un’adeguata preparazione della militanza. Questa logica si proietta verso tutti i combattenti, che oltre ad agire in squadre, guerriglie, compagnie e colonne militari, funzionano come cellule politiche che danno vita a un Partito rivoluzionario, che supera la componente strettamente militare.
TP: Come si coniuga l’ideale bolivariano e la concezione marxista- leninista nelle file delle FARC -EP?
Come marxisti e leninisti abbiamo una formazione che ci dà la convinzione della possibilità reale di conquistare un mondo migliore. Crediamo nella necessità di superare il capitalismo come modo di produzione, attualmente in crisi sistemica e decadenza, che sta mettendo a rischio l’esistenza stessa del pianeta.
E siamo certi che l’alternativa è il socialismo come sistema economico-sociale che metta fine alla mercificazione dell’esistenza, alla sua disumanizzazione, e metta in cima alle sue preoccupazioni l’essere umano in armonia con i suoi simili e la natura.
Questo tipo di pensiero coincide pienamente con l’insegnamento dell’ideale del Libertadornel piano della solidarietà umana, il senso della patria e la maggior somma di felicità.
La convergenza di questi due pensieri ci dà il senso di quello che dovrebbe essere l’unità della Nostra America, secondo un nuovo ordine sociale che beneficia la maggioranza della società, soprattutto gli oppressi; per questo la nostra parola d’ordine è Patria Grande e Socialismo, nel miglior senso bolivariano e marxista che possono avere queste categorie.
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
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