Menu

La “riforma della scuola” di Renzi? No, del mondo imprenditoriale

Alla vigilia della presentazione del “piano scuola di Renzi”, dopo le esternazioni sue e del sottosegretario Reggi, stiamo assistendo da più parti, chi in buona chi in malafede, a levate di scudi, proclami, indizioni di sit-in e manifestazioni, ecc.. Tutte iniziative doverose e importanti (a parte quelle in malafede), per carità, ma non bisogna dimenticare che il sign. Renzi non se l’è inventato dalla sera alla mattina: il suo “piano scuola” si colloca in un processo decennale di smantellamento della scuola pubblica i cui reali fautori non sono, si badi bene, politici di questo o quel partito, ma il padronato, le lobbies industriali e finanziarie, le quali indirizzano e governano le politiche del Miur (e questo spiega il favore bipartisan con cui le “riforme” vengono solitamente propugnate ed accolte).

Individuare le reali menti delle politiche scolastiche significa riuscire a non confondere causa ed effetto alla stregua grillina: così come è il mondo industriale-finanziario a determinare le politiche economico-lavorativo-sociali, che la politica ha poi il compito di rendere realizzabili, in ambito scolastico-educativo i vari politici sono solo bracci operativi intercambiabili all’interno di percorsi preventivati strategicamente da anni negli uffici di fondazioni bancarie, industriali e religiose. Ricordare questo significa anche comprendere ciò che sta succedendo in ambito scolastico, e soprattutto cercare di prevedere le prossime mosse.

Negli Stati Uniti, già da un po’ ci si chiede se questo interesse “filantropico” di danarose fondazioni imprenditoriali private per il mondo della scuola non sia quantomeno sospetto. L’esempio più recente è del giugno 20141, quando in un articolo ci si auspica che il Congresso indaghi sul ruolo della Bill Gates Foundation nello spingere in vario modo determinate politiche nella pubblica istruzione: “L’idea che l’uomo più ricco d’America possa acquistare e – lavorando a stretto contatto con il Dipartimento dell’Educazione – imporre standard accademici nuovi e non testati sulla scuola pubblica del paese è uno scandalo nazionale”. Il potere delle fondazioni imprenditoriali nell’orientare le politiche governative statunitensi è enorme. Tre grandi fondazioni private, investendo strategicamente anno dopo anno miliardi di dollari, sono state in grado di definire i termini del dibattito nazionale sull’educazione e determinare le politiche educative, portando avanti una visione che si basa su scelta delle famiglie, competizione fra scuole, accountability, standard nazionali, merit pay e licenziamento per gli insegnanti, chiusura delle scuole. Espressioni che ritornano, non a caso, anche nell’ambito del dibattito sul sistema educativo italiano.

Anche in Italia, infatti, sono praticamente tre le fondazioni private che controllano e orientano le politiche educative: Fondazione Agnelli, Fondazione per la Scuola (della Compagnia di San Paolo) e Associazione TreeLLLe, tutte espressione, seppure con differenze, degli appetiti del mondo imprenditoriale e finanziario nostrano sul sistema educativo. Sarebbe ora, dunque, di smettere di chiamare le varie “riforme” scolastiche col nome del politico di turno e intitolarle a una (o tutte) delle fondazioni succitate: sarebbe almeno più chiaro per tutti il “colpevole” e il rapporto di continuità che lega una “riforma” all’altra.

Tornando all’istruttivo esempio statunitense, queste fondazioni private, attraverso il controllo completo dei gruppi di ricerca e dei media, rappresentano i neanche tanto occulti educational policy maker, tanto che l’ultima riforma educativa di era Obama, A Blueprint for Reform: The Reauthorization of the ESEA del 2010, si basa su The Turnaound Challenge, una guida pubblicata dalla Gates Foundation, considerata “la bibbia della ristrutturazione scolastica” dalla Segretaria Usa all’Educazione e nella quale la Gates Foundation ha investito 2,2 milioni di dollari2. Essa prevede precise strategie di ristrutturazione per le scuole poco perfomanti: il singolo Stato nazionale riceve fondi per queste scuole solo se le trasforma (rimpiazzando il preside, aumentando la giornata scolastica e promuovendo la “flessibilità” del personale), le risana (rimpiazzando il preside e licenziando fino al 50% dei docenti), le chiude per riaprirle come charter schools (scuole finanziate da fondi pubblici ma governate da istituzioni al di fuori del sistema pubblico, incluse organizzazioni affaristiche, fondazioni e università) o le chiude definitivamente. La più grande implementazione della “turnaround strategy” si è avuta nel 2010 con il progetto Chicago Reinessance, nella quale la Gates Foundation ha investito ben 90 milioni di dollari, e che ha portato l’anno scorso alla chiusura di oltre 50 scuole a Chicago, frequentate in particolare da afroamericani.

Si tratta comunque di strategie che affondano le loro radici ben più lontano, nel No Child Left Behind Act del 2002 (era Bush), fino ad arrivare all’Education Reform Act del 1988 dall’altra parte dell’oceano (Gran Bretagna, era Tatcher).

In Europa, infatti, è della fine degli anni ’80 il primo rapporto della European Table Round, espressione della lobby della finanza e dell’industria, che proponeva già allora l’orientamento, anche nel settore educativo pubblico, verso la concorrenza col settore privato3. Orientamento recepito perfettamente dal mondo confindustriale italiano, che infatti già alla fine degli anni ’90 si scagliava contro il monopolio statale nell’educazione (!) e contro l’assenza di confronto competitivo fra scuole4.

Riguardo alla competizione fra scuole, è interessante notare come sia un punto fermo della visione neoliberista del sistema educativo, collegato strettamente alla valutazione standardizzata degli studenti tramite i test e alla successiva pubblicazione dei risultati al fine di creare, appunto, graduatorie fra scuole. E così come si sbagliava a considerare i test come uno strumento per valutare l’apprendimento degli studenti, si è probabilmente peccato di ingenuità nel credere che si volesse semplicemente usarli per legare direttamente ad essi lo stipendio degli insegnanti. La Fondazione Agnelli, per esempio, sa bene che questo legame diretto fra risultati degli studenti e stipendio degli insegnanti non è fattibile, anche perchè intorno ad esso si concentrerebbero resistenze troppo forti da parte degli insegnanti stessi. Il sindacato Cobas5 fa giustamente notare che la Fondazione Agnelli, nel recente rapporto La valutazione della scuola. A cosa serve e perchè è necessaria all’Italia, ha “bacchettato” il Miur riguardo proprio al voler legare i risultati dei test agli stipendi degli insegnanti: i test non sono adeguati a valutare il contributo dei singoli insegnanti, dice la Fondazione Agnelli.

Ovviamente non l’hanno scoperto adesso. Già nel 2008 la Fondazione Agnelli in un suo rapporto6 parlava di “accountability”, traducibile con “rendicontazione sociale”, ovvero la responsabilità delle scuole di fronte al pubblico rispetto agli esiti, ottenibile attraverso la pubblicazione dei risultati raggiunti dagli studenti nei test standardizzati. Per avere la piena accountability, scrivevano, è necessario dotarsi di un sistema di esami/test basati su standard esterni “obiettivi”, quindi anche delegati ad agenzie specializzate; inoltre “debbono esser pubblicamente forniti i risultati delle singole scuole” e “devono esservi sanzioni e ricompense, in forma diretta o indiretta, che modifichino la struttura degli incentivi cui esse [le scuole] sono esposte. La logica sottesa ai programmi di accountability implica infatti che le scuole vadano incontro a conseguenze positive o negative in relazione al grado di efficacia dimostrato, nell’ipotesi che questo le indurrà ad impegnarsi al massimo per migliorare i risultati dei propri studenti.”7 Ovviamente i fautori dell’accountability sanno bene che è difficile “far automaticamente coincidere le prestazioni degli alunni di una scuola con la qualità dell’istruzione da essa impartita”; per questo sono stati messi a punto diversi approcci di misurazione (cross-sectional approach, longitudinal approach, controllo del compositional/contextual effect, per la cui spiegazione rimando al rapporto della Fondazione stesso). E sanno bene che è ancora più complesso (ma niente affatto impossibile) verificare l’efficacia dei singoli insegnanti. Sicuramente, affermano, lo stipendio legato esclusivamente all’anzianità “ha probabilmente fatto il suo tempo”, ma è difficile che “la leva degli incrementi salariali possa da sola risolvere i problemi della scuola e soprattutto migliorare la qualità dell’insegnamento. Il problema di come «preparare, assumere, sviluppare, sostenere, valutare e ricompensare la professionalità dei docenti» [citano da uno studio statunitense] è un problema complesso, che deve essere affrontato intervenendo contemporaneamente su più piani e ricorrendo, per avvicinarsi all’obiettivo, a una gamma di strumenti diversi, tra cui gli incentivi salariali sono solo una delle possibili componenti (corsivo mio)”, anche a causa appunto delle “resistenze da parte delle associazioni di categoria [sic] dei diretti interessati”.

Il fatto che, a 6 anni dalla pubblicazione di questo Rapporto, la Fondazione evidenzi pubblicamente l’inadeguatezza dei test standardizzati per valutare l’efficacia dell’insegnamento dei singoli insegnanti dunque non stupisce. Probabilmente questo tempo è servito loro per mettere a punto nuove strategie, facendo intanto passare una serie di strumenti e ideali (test, merito, competizione) come legittimi, positivi e perfettamente “normali”.

E’ plausibile che l’elemento di punta individuato per rendere realizzabili i disegni del mondo imprenditoriale sulla scuola pubblica abbia come perno l’autonomia scolastica e, in particolare, la sempre maggiore importanza della leadership del dirigente scolastico nel momento in cui, come si legge in un rapporto della Associazione TreeLLLe già del 2007, “può scegliere i docenti e veicolare la cultura delle riforme eliminando le resistenze”8, sempre nell’ambito del confronto competitivo fra scuole. Afferma infatti Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, a maggio di quest’anno, che le informazioni desunte dai test Invalsi “possono essere utili alle famiglie per compiere scelte più consapevoli e utilissime agli insegnanti e ai dirigenti scolastici per mettere a fuoco cosa non va nella propria scuola e decidere misure di miglioramento” ma “non devono essere usate per valutare i singoli docenti”, per premiare il cui merito “cerchiamo altre strade (maggiori responsabilità ai presidi?)”9.

Altro nodo centrale io credo sia il piano di miglioramento per le scuole “poco performanti”, per le quali lo Schema di regolamento su sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione, approvato l’8 marzo 2013, prevede interventi anche con il supporto di università, enti di ricerca, associazioni professionali, senza alcun ulteriore finanziamento pubblico (“nei limiti delle risorse finanziarie disponibili”), quindi con un probabile forte intervento dei privati (previsto peraltro dal ddl ex-Aprea, la cui idea di fondo non è stata affatto abbandonata). Non siamo ancora all’esplicitazione delle azioni di ristrutturazione del Turnaround Challenge della Gates Foundation, ma mi pare che la direzione sia quella di trasformare le scuole pubbliche in scuole basate sulla gestione privatistica e orientata al libero mercato, sul modello delle charter schools americane, che fondamentalmente si basano sull’indebolimento e la finale eliminazione delle tutele lavorative per gli insegnanti ai fini del profitto. L’aumento dell’orario lavorativo degli insegnanti, dunque, salutato comunque con favore dalla Fondazione Agnelli, sebbene sia quello che salta di più all’occhio è solo uno degli elementi fondanti del piano. In effetti, al mondo imprenditoriale, vero motore delle politiche educative italiane, dubito interessi aumentare l’orario di docenti pagati dallo Stato, se non in quanto strumento per dequalificare talmente il livello dell’educazione pubblica (e tralascio la riflessione sul concetto di “qualità” e sulle caratteristiche intrinseche, orientate al capitale, del sistema educativo statale) da far percepire come necessario un forte intervento del privato, fino ad arrivare alla “ristrutturazione” delle scuole pubbliche in scuole gestite da privati (cioè dal mondo imprenditoriale stesso) ma finanziate dallo Stato. Del resto, lo stesso Attilio Oliva, presidente della Associazione TreeLLLe, esprime chiaramente il suo interesse per le charter schools statunitensi, che appunto si basano su gestione privata, finanziamenti pubblici, arretramento dei diritti lavorativi dei docenti a vantaggio del profitto. In una intervista molto istruttiva a Orizzontescuola, infatti, afferma: “Sia le Charter schools negli Usa sia le Academies in Inghilterra sono scuole nate in zone di forte deprivazione socio-culturale per contrastare il grave fenomeno dell’abbandono scolastico, contro cui l’offerta delle scuole statali, per definizione rigida e poco flessibile, non risultava efficace. Per fare in modo che ciò avvenisse, i governanti di questi Paesi hanno autorizzato soggetti indipendenti (gruppi di insegnanti, presidi, famiglie, imprese, fondazioni) a prendere in mano e gestire le istituzioni scolastiche statali presenti in quelle aree. Questi soggetti indipendenti dimostravano una forte spinta a innovare tanto i modelli organizzativi (orari, calendari, curricoli) quanto quelli di gestione del personale (contratti, incentivi, libertà di scelta dei docenti)”10.

Poco importa che, a dispetto di quello che Oliva sostiene, negli Usa sia ormai evidente che le charter schools non garantiscono affatto apprendimenti di qualità per i loro studenti (non tutte: alcune charter schools funzionano: sono quelle che possono disporre di altissimi finanziamenti e, soprattutto, che cacciano gli studenti “poco performanti”, altro che “efficace risposta alla piaga degli abbandoni” come sostiene Oliva.). Quello che importa è che questo tipo di scuola è estremamente lucroso per i privati che le gestiscono…

E’ importante, dunque, ora più che mai, essere in grado di vedere al di là di ciò che appare, anche nell’ambito delle politiche scolastiche. Le riforme non provengono dalla politica, ma dal mondo imprenditoriale e finanziario. Un primo passo per contrastarle, dunque, è spezzare il monopolio dei progetti di ricerca e informazione sulla scuola che anche in Italia queste potenti entità private hanno e che permette loro di diffondere la loro visione neo-liberista, orientata al profitto, del sistema educativo, e indirizzare la nostra attenzione e la nostra lotta sulle “menti” delle riforme educative oltre che sui loro “bracci operativi”.

 

 

 

4http://www.cobaspisa.it/wp-content/uploads/2013/04/SNV-e-libert%C3%A0-dInsegnamento.pdf

5Giornale Cobas 53 Aprile/giugno 2014 pag. 4.

6Martini A., L’accountability nella scuola, FGA Working Paper n. 8, 12/2008. 7Ibid. 8http://www.cobaspisa.it/wp-content/uploads/2013/04/SNV-e-libert%C3%A0-dInsegnamento.pdf

9La Stampa 14.05.2014 pp. 29-30.

10http://www.orizzontescuola.it/news/attilio-oliva-treellle-chi-contro-scuole-paritarie-visione-paesi-arretrati-improponibile-paesi

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *