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Cronaca vera. Quattro mesi di morti sul lavoro

I morti sul lavoro sono una collana senza fine. Diminuiscono quando c'è crisi, si lavora di meno, e magari si rischia anche di più.

Una collana infinita che ogni giorno ci consegna la sua pietra. Ci si abitua, si pensa alla fatalità. E chi dovrebbe far installare sistemi di sicurezza, far rispettare le normative (ci sono, in alcuni casi nemmeno pensate male), può rifugiarsi allombra confortevole della fatalità. Che manda assolti i responsabili e sottoterra gli innocenti.

Vedrli invece tutti insieme, così, nell'arco di soli quattro mesi, fanno l'impressione esatta. E' una strage. Messa in conto. Per risparmiare e fare profitto. Fatalmente.

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MORTI & FERITI – MAGGIO/SETTEMBRE 2014

 

Emilio Riva: si dispensa da ogni compassione

 

 

 

E' venuto a mancare all'affetto dei suoi cari Emilio Riva, padrone dell'Ilva, responsabile di migliaia di morti.

 

Ne piangono la dipartita: i suoi cari fuggiti all'estero per non affrontare i tardivi processi; i colleghi sfruttatori che acquistano decine di necrologi per ricordare il “grande uomo” che ci ha lasciato; i giornalisti che narrano l'epopea del self-made man e ci ricordano i dolori sofferti da questo poverino per le vicende giudiziarie e inarcano il sopracciglio per i commenti caustici che imperversano in rete; i politici, che si sono impegnati per nascondere sotto il tappeto la polvere (rossa) prodotta dall'Ilva e che hanno riso di gusto con i suoi uomini per la loro bravura nell'insabbiare.

 

Non versano una lacrima, ma sorridono amaramente, rammaricandosi del fatto che come ogni criminale di guerra che si rispetti è morto nel suo letto: le centinaia di cittadini di Taranto assassinati per essere stati esposti al 90% delle emissioni di diossina di tutta Italia; le donne, che pur non avendo un contatto diretto con la fabbrica, si ammalano di tumore continuamente e i bambini che sempre più spesso nascono già malati; i circa 50 morti sul lavoro all'interno della fabbrica in quelli che chiamano “incidenti” ma che di incidentale hanno molto poco; i lavoratori della Palazzina Laf, rinchiusi in una sorta di lager a non fare niente, colpevoli di non aver accettato le condizioni imposte dal padrone, tanto da far affermare alla magistratura che la proprietà “aveva voluto riscrivere la storia e la Costituzione italiana”; gli operai di Genova, esposti anche loro alla bomba ambientale e al rischio quotidiano di essere messi in mezzo a una strada; noi tutti.

 

 

 

http://clashcityworkers.org/, 01 Maggio 2014

 

 

 

Afghanistan, le stelle stanno ancora a guardare

 

 

 

Mille persone in corteo a Kabul, sul viale che un tempo veniva definito del Primo Maggio, è una notizia che la stampa occidentale ha glissato. Così anche i media che s’interessano dello scontro presidenziale fra Abdullah e Ghani oppure ai disastri naturali come le inondazioni e i periodici agguati talebani. Silenzio. Le informazioni che scompaiono riguardano sempre i derelitti o le faccende scomode, come i raid di aerei e droni autori dei “danni collaterali” ovvero l’uccisione di civili. Ogni tanto questi “danni” appaiono sui report dell’Us Army e pochi media li divulgano. In quel corteo del 1° maggio hanno sfilato pure ragazzi e qualche bambino, colleghi e superstiti dell’ennesima strage sul lavoro che s’era verificata proprio alla vigilia della festa dei lavoratori. Giovani che dovrebbero studiare e invece finiscono in miniera per sostenere economicamente famiglie sempre più povere. Purtroppo non si tratta di un’eccezione nel panorama lavorativo orientale e il travagliato Afghanistan s’adegua anche ora che tutti parlano di futuro e sviluppo dell’economia.

 

Dagli occupanti occidentali, pronti a dettare un diritto di prelazione per le proprie aziende nel settore minerario; alla Cina, nuovo padrone del mercato mondiale, che coi suoi colossi (China Metallurgical Group) pratica da tempo una penetrazione capitalista di altissimo profilo in Asia e Africa. I neo politici afghani, e coloro che nuovi non sono affatto, promettono sviluppo per Paese e cittadini, ma a detta di strutture sindacali come l’Amka (traslato dal dari Unione nazionale dei lavoratori e impiegati) la situazione di tanta occupazione minorile è disperante. Seppure non sia mai stata abolita una vecchia legge, promulgata durante il governo del Partito democratico del popolo, che impediva il lavoro per ragazzi al di sotto dei 14 anni, il divieto resta solo sulla carta. Com’è noto bambini e bambine addirittura di 6-7 anni lavorano alla realizzazione di tappeti e prodotti di vestiario, e fratelli appena più grandi s’arrampicano sulle impalcature delle ormai numerosissime costruzioni che spuntano come funghi in varie zone della capitale.

 

Oppure raccolgono rifiuti. Altri sono impegnati nelle fornaci e nelle miniere simili al buco del disastro di Mardanha-ye Tor village, nella provincia di Samangan. In quel ventre di terra 24 uomini sono diventati cadaveri, fra loro c’erano ragazzi quindicenni e altri 25 sono rimasti intrappolati. Nella stessa provincia a settembre i morti furono 23, tre anni or sono a Baghlan perirono in undici. Ovviamente si parla di decessi accertati, perché in situazioni lavorative minime diverse vittime vengono occultate e fatte sparire. Quando si tratta di bambini orfani nessuno ne reclama la scomparsa. In un mercato del lavoro che la politica corrente afferma di voler espandere ma senza tutelare la parte debole che sono i lavoratori, i bambini e i giovanissimi vengono fagocitati da un sistema che li spreme per poco più d’un pasto al giorno. Se un muratore o un minatore riceve una retribuzione che non supera i 4 dollari per nove ore di lavoro, i minori lì impegnati guadagnano meno della metà. Secondo il sindacato qualche categoria raggiunge anche i 6 dollari per una prestazione di dieci ore e anche più.

 

Però questi sono ritenuti casi fortunati e sono soggetti a turnazione, così dopo un breve periodo si torna disoccupati. Nonostante nella Repubblica Islamica il lavoro sia un culto (kar ebadat ast) e nei disastri, come quelli delle miniere, le imprese cerchino di “pagare” il dolore delle famiglie offrendo animali utili per la sopravvivenza (capre, muli). Nel Paese che col benestare d’importanti signori della guerra (l’ultimo appoggio giunge da Sherzai) s’appresta a sostituire Hamid Karzai col dottor Abdullah il panorama della triste condizione infantile è quello di un milione di bambini privati dell’istruzione primaria. L’Unicef afferma che quel milione negli ultimi anni sia raddoppiato. Gli anni in questione sono l’epoca della missione Isaf che esporta in loco la democrazia occidentale. Bambini di strada senza istruzione e senza i genitori morti sotto le bombe sono costretti a lavorare e vivere d’espedienti. Possono diventare ulteriori vittime, magari di parenti e amici senza scrupoli che li inducono alla prostituzione o li usano per il turpe e miserando traffico di organi. Come in altri angoli del globo dove la povertà cronica è il retroterra su cui edificare il dominio. Enrico Campofreda,

 

 

 

http://enricocampofreda.blogspot.it, 8 maggio 2014

 

 

 

Archiviata la denuncia contro Antonini

 

 

 

Il Giudice per le indagini preliminari (Gip) ha accolto la richiesta di archiviazione del Pubblico ministero (Pm), pronunciata a suo tempo, disponendo l’archiviazione del procedimento a carico di Antonini Riccardo. Di fronte alla richiesta di archiviazione del Pm, l’avvocato di Moretti, Ricci, aveva presentato opposizione.

 

Il Gip, con ordinanza di archiviazione depositata il 2 maggio 2014, ha scritto che : ” … non si verificarono significativi episodi di violenza … e … nell’occasione non vi fu alcuna ingiuria o minaccia da parte di Antonini verso Moretti“.

 

Pertanto appare infondata la denuncia querela sia sotto il profilo dell’inesistenza degli elementi costitutivi del reato di violenza privata … sia sotto il profilo del reato di diffamazione, atteso che nessuno ha ascoltate le ingiurie pronunciate all’indirizzo di Moretti da parte dell’indagato … riportati in querela“.

 

 

 

http://ferrovieri.wordpress.com/, 11 maggio 2014.

 

 

 

Primo morto a Eataly. La lettera di un ex dipendente

 

 

 

Caro Direttore,

 

sono Gabriele Petta un ex dipendete di Eataly Roma oltre che un vostro affezionato lettore. Vi scrivo questa lettera in relazione al decesso di Antonio il ragazzo di 23 anni morto ieri nel noto centro commerciale. Non ho paura di querele o denunce, lo faccio per amor di verità e per dare giustizia a una vita che non c’è più. Vi scrivo con cognizione di causa, in quanto tutte le parole che trovate di seguito, sono suffragate da documenti, che sono disponibile ad inviarvi. Io stesso, sono stato costretto a svolgere mansioni di fatica, che non avrei potuto svolgere, in quanto a seguito di un incidente stradale occorso nel 2002, ho un mezzo di sintesi che inizia nel ginocchio e finisce nella caviglia, oltre a una pubalgia cronica e problemi di natura posturale, eppure ero inserito in un contesto di fatica, il tutto senza nemmeno aver fatto una visita medica pre-inquadramento. Visita che da contratto era obbligatoria. Per me, la morte di Antonio non è una casualità o il frutto del destino maledetto, i responsabili hanno nomi ben precisi: Oscar Farinetti, Nicola Farinetti e tutta la dirigenza dello Store di Ostiense, perché se si arrivati a queste situazioni, bisogna dire che il pesce puzza dalla testa. Troppo facile appellarsi ai ritardi dei soccorsi, a un malore improvviso e quant’altro. Una struttura del genere, dovrebbe essere obbligatoriamente dotata di postazione paramedica permanente, in modo da poter tutelare il benessere dei dipendenti e dei clienti. Detto questo, il Farinetti, da buon imprenditore, tende a risparmiare, nessun defibrillatore, nessuna postazione paramedica, tagli al personale e turni massacranti per i “fortunati” che sono riusciti a rimanere alle dipendenze di codesta azienda, che rappresenta alla perfezione l’Italia del 2014, arrivista a ogni costo senza curarsi del prossimo. Eppure…eppure, al momento della stipula dei contratti di assunzione, c’è una postilla chiarissima, che prevede l’assegnazione del posto, solo dopo aver passato una visita medica approfondita, come si conviene a ogni lavoro di fatica e come fanno tutte le aziende serie. Questa postilla c’è e una volta firmata l’assunzione, si declina ogni responsabilità dell’azienda in caso di malore o decesso sul posto di lavoro non direttamente riconducibile a malfunzionamenti delle attrezzature in dotazione al centro commerciale (anche qui ci sarebbe da discutere, in quanto ne risponderebbe comunque l’azienda fornitrice), quindi da tante belle parole scritte nero su bianco, si passa ai fatti. E i fatti ci dicono che da Eataly non vengo effettuate visite mediche preventive, quindi l’azienda è a tutti gli effetti fuorilegge. E allora i responsabili dovranno essere condannati per omicidio colposo, da Oscar Farinetti, passando per lo store Manager e tutti coloro tacciono compiacenti, facendo nulla da dietro una scrivania e lasciando il lavoro sporco e faticose a persone spesso impreparate con turni di lavoro massacranti, i quali poverini avendo bisogno di lavorare accattano senza protestare, ma poi i risultati sono questi, un ragazzo di 23 anni non c’è più, una famiglia piange un suo figlio, gli amici e colleghi piombano nel buio…mentre il Farinetti incassa…Meditate gente, meditate e soprattutto pretendete ciò che vi spetta.

 

 

 

Contropiano, 14 Maggio 2014

 

 

 

«Dopati per lavorare di più»

 

 

 

L’ovetto che aiuta a sopportare la fatica costa appena dieci euro, al mercato nero dello schiavismo pontino. Singh ha due possibilità: sciogliere il contenuto direttamente in bocca o mescolarlo al chai, il tè dei sikh. Sceglie la seconda perché «se lo mangio fa più male, allo stomaco e alla gola». Così, di prima mattina, quella che gli indiani di Bellafarnia chiamano «la sostanza» cancella la fatica e i dolori del giorno precedente e si prepara ad affrontare quello che sta per cominciare «dopato come un cavallo», come sostiene Marco Omizzolo, un giovane sociologo che, con l’associazione In migrazione, ha realizzato un dossier che è un j’accuse nei confronti di padroncini e caporali del basso Lazio.

 

I tanti Singh dell’agro pontino – i nomi non sono di fantasia: i sikh religiosi portano tutti lo stesso cognome, che vuol dire «leone», mentre le donne prendono l’appellativo Kaur, «principessa» — da queste parti lavorano quasi tutti nelle campagne, a coltivare ortaggi in maniera intensiva, sotto il sole o in serre arroventate che si trasformano in camere a gas quando vengono costretti a spruzzare agenti chimici senza nessuna protezione. Sottoposti ad angherie e soprusi, sfruttati all’inverosimile, costretti a chiamare «padrone» il datore di lavoro, sottopagati e con il rischio di essere derubati della misera paga mentre tornano a casa in bicicletta. Come far fronte a tutto ciò? Racconta B. Singh in un italiano stentato: «Io lavoro dalle 12 alle 15 ore al giorno a raccogliere zucchine e cocomeri o con il trattore a piantare altri ortaggi. Tutti i giorni, anche la domenica. Non credo sia giusto: la fatica è troppa e i soldi pochi. Perché gli italiani non lavorano allo stesso modo? Dopo un po’ ho male alla schiena, alle mani, al collo, anche agli occhi per via della terra, del sudore, delle sostanze chimiche. Ho sempre la tosse. Il padrone è bravo ma paga poco e vuole che lavori sempre, anche la domenica. Dopo sei o sette anni di vita così, non ce la faccio più. Per questo assumo una piccola sostanza per non sentire dolore, una o due volte durante le pause dal lavoro. La prendo per non sentire la fatica, altrimenti per me sarebbe impossibile lavorare così tanto in campagna. Capisci? Troppo lavoro, troppo dolore alle mani».

 

Eccola qui, la nuova frontiera dello sfruttamento del lavoro migrante: gli schiavi delle campagne vengono dopati per produrre di più e non sentire la fatica. Dall’inizio dell’anno, le forze dell’ordine hanno sequestrato tra Latina, Sabaudia e Terracina una decina di chili di sostanze stupefacenti: «metanfetamine», contenute negli ovetti spacciati soprattutto dai caporali. Ma anche bulbi di papavero da oppio essiccati.

 

Nelle comunità sikh di Bellafarnia e di Borgo Hermada di tutto ciò si parla poco. I sikh, specie se irregolari, raramente denunciano i soprusi di cui sono vittime. Se subiscono una rapina fanno buon viso a cattivo gioco. Lo stesso accade quando il padrone non dà loro il dovuto o tarda nei pagamenti. Le droghe sono proibite dalla loro religione, chi ne fa uso è restio a parlarne e quando si decide a farlo non riesce a reprimere il senso di colpa: «Noi siamo sfruttati e non possiamo dire al padrone ora basta, perché lui ci manda via. Allora alcuni di noi pagano per avere una sostanza che non fa sentire dolore a braccia, gambe e schiena. Il padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, ma dopo 14 ore nei campi com’è possibile lavorare ancora? Per la raccolta delle zucchine lavoriamo piegati tutto il giorno. La sostanza ci aiuta a vivere e lavorare meglio. Ma non tutti lo fanno: solo pochi indiani la usano. Ma a loro serve per arrivare a fine mese e portare a casa i soldi per la famiglia», dice K. Singh. Quello delle droghe sta diventando un vero e proprio problema sociale, in una comunità coesa, organizzata, «operosa e silenziosa», come la definisce Omizzolo, che mi accompagna in un tour per i campi e i paesi di questo pezzo d’India italiana. Per definirlo, ha coniato un neologismo: «Punjitalia».

 

Il residence Bellafarnia mare ne è la capitale. A pochi metri dalle dune di Sabaudia, lontano dalla vista delle ville dei vip, vive un pezzo della più numerosa comunità sikh dopo quella emiliana di Novellara: 12 mila abitanti censiti ufficialmente tra questo villaggio di seconde case per i villeggianti subaffittate agli immigrati e l’edilizia low cost anni ’80 che già cade a pezzi e fa da contorno al razionalismo fascista di Borgo Hermada, un pugno di abitazioni nelle campagne di Terracina. In realtà, contando gli “irregolari”, le presenze aumentano decisamente: 30 mila, forse persino di più. La Flai Cgil è arrivata a distribuire ben 40 mila casacche catarifrangenti ai lavoratori che si spostano in bicicletta, per tentare di limitare i numerosi incidenti stradali che li coinvolgono, soprattutto d’inverno, nelle strade di campagna poco illuminate.

 

Omizzolo ha impiegato anni per conquistarsi la fiducia della comunità, è andato con loro nei campi e ha compiuto il percorso migratorio inverso, dall’Italia al Punjab, dove ha incontrato le famiglie di provenienza e riannodato i fili della diaspora. Ha raccolto le storie di sfruttamento e, con il dossier dell’associazione In migrazione, denuncia che «per sopravvivere ai ritmi massacranti e aumentare la produzione dei padroni italiani» i lavoratori sikh «sono letteralmente costretti a doparsi con sostanze stupefacenti e antidolorifici che inibiscono la sensazione di fatica». Si tratta, spiega, di «una forma di doping vissuta con vergogna e praticata di nascosto perché contraria alla loro religione e cultura, oltre a essere severamente contrastata dalla loro comunità».

 

«Eppure si tratta dell’unico modo per sopravvivere ai ritmi di lavoro»: dodici ore al giorno a seminare, dissodare, raccogliere, spruzzare veleni. Per quattro euro l’ora, nel migliore dei casi, spesso costretti a subire torti, angherie e vessazioni dai datori di lavoro, a volte non pagati per mesi come sta accadendo a un gruppo di una trentina di lavoratori-schiavi che reclamano un salario che non arriva da sei mesi. Una situazione non dissimile a quelle di Rosarno, della Capitanata e degli altri luoghi dello sfruttamento delle braccia in agricoltura. Solo più taciturna, poco incline alla ribellione e meno visibile: i sikh non vivono in baraccopoli o in rifugi di fortuna e non arrivano soli come molti africani che sbarcano a Lampedusa. Si sposano tra loro – anche se, mi spiega Omizzolo, cominciano a registrarsi i primi casi di matrimoni misti, in genere tra maschi sikh e donne rumene conosciute al lavoro nei campi — molti sono qui ormai da trent’anni e i loro figli sono italiani. Le abitazioni sono ben tenute, nonostante accada che in quaranta metri quadri si ammassino fino a sei persone, i giardini sono in fiore. La domenica nel Gurdwara Singh Saba, un ex capannone agricolo trasformato in edificio religioso, è un trionfo di colori e nelle cucine comuni si fa da mangiare per tutti. Hanno anche un giornale, Punjab express, che trovo distribuito davanti a un negozietto al cui interno un anziano col turbante attende pigramente i rari visitatori.

 

Dillon Singh è il capo della comunità: gestisce uno spaccio di generi alimentari che vende anche capi d’abbigliamento, nella piazzetta di Bellafarnia. È un politico – in India è stato molto vicino a Indira Gandhi, la premier assassinata da due guardie del corpo sikh nel 1984 — e in questi giorni è inquieto perché il nuovo centro religioso, il cui progetto è affisso alle vetrate del tempio, si è bloccato. Questione di permessi e varianti urbanistiche, ma soprattutto di intralci burocratici frapposti dalla destra che regge il comune. È preoccupato perché dovrà dar conto alla comunità dell’utilizzo delle risorse raccolte: «Abbiamo raccolto i soldi ma non riusciamo ad andare avanti. Finirà che le persone torneranno a mandare le rimesse in Punjab invece di investire i loro guadagni in Italia», osserva sconsolato.

 

Alla fine di febbraio, nascosti tra i cassoni di frutta e verdura trasportati da due indiani, i finanzieri di Sabaudia hanno trovato 6 chili di bulbi di papavero e 300 grammi di anfetamina. Altri tre chili e mezzo sono stati sequestrati nel bagagliaio di un’auto ed è stata scoperta persino una piccola piantagione di papavero da oppio a Terracina. Chi gestisce il business? «Gli italiani danno la sostanza agli indiani, che a loro volta la vendono e danno i soldi agli italiani», spiega K. Singh. Vuol dire che a monte del traffico ci sarebbero datori di lavoro che affiderebbero il lavoro sporco ai caporali, consegnandogli la «roba» perché a loro volta la vendano agli schiavi delle campagne.

 

In alcuni casi, però, a gestire la vendita al dettaglio sono direttamente «gli italiani». A sostenerlo è H. Singh: «Conosco persone che usano questa sostanza. Le comprano da italiani e loro la utilizzano quando lavorano oppure la danno ad amici. La sciolgono nell’acqua calda e poi la bevono. Si può anche mangiare ma fa male allo stomaco e alla gola». Accade persino che, fiutata la possibilità di ritagliarsi una torta del piccolo business, alcuni lavoratori rivendano a loro volta le droghe acquistate. Racconta S. Singh: «Alcuni indiani, soprattutto giovani che lavorano nelle campagne, le comprano per non sentire i dolori, però poi ne rivendono una parte. Così fanno un po’ di soldi e allo stesso tempo la sera non si sentono stanchi e possono uscire. Da dove vengono queste sostanze? Alcuni le portano dall’India, altri le comprano da italiani». Che in questo modo guadagnano due volte, dallo spaccio e dallo sfruttamento del lavoro.

 

 

 

Il Manifesto, 16 maggio 2014

 

 

 

Taranto. Un altro operaio Ilva morto di tumore, ma per Bondi non c'è nulla da bonificare

 

 

 

La scorsa notte è morto l'operaio dell'Ilva Nicola Darcante. Lavorava all'ex Pla1, l'officina dove almeno 13 sono ammalati di tumore. Aveva 39 anni.

 

Per questo operaio, come per Stefano Delliponti, gli operai avevano firmato per dare una parte del loro salario a Nicola per curarsi. Ma come è successo per Stefano, anche per Nicola purtroppo la solidarietà operaia non è servita a farli continuare a vivere.

 

Ora altri 13 operai – quelli accertati… – rischiano di morire.

 

Purtroppo per quanto lodevoli iniziative on è certo ancora una grande raccolta di firme e soldi che può contrastare questo rischio.

 

All'Ilva continua nonostante parole e promesse la morte, il pericolo di malattia e morte, l'insicurezza nel rivolgere le condoglianze alla famiglia e ai compagni di lavoro. A questo il rimedio è l'opposizione costante agli impianti e reparti nocivi, denunciare ogni minimo rischio; pretendere dagli Enti che i controllori controllino, andarli a "strappare" dai loro comodi uffici; come andare a prendere e trascinare nei reparti i quegli Rsu e Rls Ilva che col loro immobilismo favoriscono lo stato di cose esistenti…

 

Che dire di fronte a questa altra vita strappata ai familiari del cinismo arrogante di Bondi e i suoi legali che ha chiesto che Taranto non sia considerata zona da bonificare! Una cosa vergognosa che appare logica da chi quando si è insediato ha detto.. che la colpa dei tumori a Taranto sono le sigarette!

 

Ma questi è l'amministratore delegato di RIVA, divenuto per iniziativa del governo e del parlamento commissario governativo!

 

Abbiamo chiesto subito che Bondi non fosse insediato abbiamo chiamato inutilmente operai e cittadini a protestare contro questo.

 

Bondi, sta usando i ricatti di cui è esperto, non per fare bonifiche – che dalle dichiarazioni dei suoi legali è evidentente che non vuole fare perchè ritiene non necessario fare , ma una ristrutturazione e ammodernamento con esuberi, per riconsegnare la fabbrica ai RIVA o altri padroni che continueranno a fare profitti sulla pelle dei lavoratori e della città!

 

Facciamo appello a una immediata mobilitazione della fabbrica e della città

 

Facciamo sì una grande catena di solidarietà operaia, ma per unire tutti i reparti, per fermarsi!

 

E una catena che unisca fabbrica e città per imporre la tutela della vita della salute e del lavoro

 

SLAI COBAS per il sindacato di classe Ilva – Taranto

 

 

 

Contropiano, 16 maggio 2014

 

 

 

Strage di Soma: 301 morti e 18 arresti, repressione selvaggia contro le proteste

 

 

 

Nelle ultime ore le squadre di calcio di Istanbul hanno voluto rendere omaggio nei campi di gioco alle vittime della tragedia di Soma, cittadina a 120 chilometri da Izmir dove martedì un’esplosione ha causato 301 morti (almeno questo è il bilancio ufficiale definitivo fornito alla stampa dal ministro dell’Energia del governo Erdogan, Taner Yildiz).

 

Se i giocatori del Galatasaray sono entrati in campo indossando i caschetti da minatore, quelli del Besiktas reggevano uno striscione che recitava “Minatore, le tue lacrime, il tuo sudore, i tuoi stivali sporchi sono il nostro onore”.

 

Intanto il regime tenta di utilizzare il solito binomio del bastone e della carota per tentare di trarsi d’impaccio dopo le moltitudinarie proteste e l’ondata di indignazione generale che hanno investito Erdogan e il suo partito liberal-islamista accusati di negligenza e di aver chiuso un occhio di fronte alle evidenti carenze nella sicurezza degli impianti della minera di lignite per permettere ai proprietari, affini all’Akp, di accumulare enormi ricchezze ed abbattere il costo del lavoro; e non sono mancate le accuse al premier per aver minimizzato le responsabilità delle autorità, per i ritardi nei soccorsi e per l’atteggiamento incredibilmente cinico e aggressivo nei confronti dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti.

 

Di oggi la notizia che ventiquattro persone sono state arrestate – ma sei sono state poi subito rilasciate – in conseguenza delle prime indagini realizzate dal pool di 28 magistrati istituito nei giorni scorsi dal Consiglio Superiore della Magistratura turco. Tra gli arrestati anche dirigenti e impiegati della Soma Komur, la compagnia mineraria privata proprietaria dell’impianto, compresi – sembra – anche alcuni pezzi grossi che, all'indomani della tragedia, durante una tesa conferenza con decine di giornalisti, avevano dato la colpa della strage agli stessi operai affermando che se l'incidente fosse avvenuto tra tre mesi non sarebbe morto nessuno visto che i container di sicurezza da sistemare nelle gallerie sarebbero in arrivo. Per tutti l'accusa sarebbe di negligenza mentre solo per tre a questo capo di imputazione si aggiungerebbe quello di omicidio plurimo colposo.

 

Ma anche ieri la polizia è intervenuta duramente, così come era avvenuto il giorno prima, contro alcune migliaia di minatori, parenti e studenti arrivati a Soma anche dalle città circostanti per denunciare le condizioni di lavoro semi-schiavistiche applicate nelle miniere anche grazie ad una legge di deregolamentazione approvata alcuni anni fa dalla maggioranza parlamentare liberal-islamista. Secondo quanto riferito dal sito del quotidiano "Hurriyet", gli scontri sarebbero scoppiati nella cittadina dopo che gli agenti hanno cercato di arrestare un bambino di 10 anni durante la protesta fino a quel momento pacifica, scatenando l'ira della folla.

 

Nei giorni scorsi ad Istanbul un gruppo di studenti ha occupato alcune facoltà dell’Università Tecnica (İTÜ) denunciando i legami tra l’ateneo e l’azienda che gestisce la miniera dove è avvenuta la strage, la Soma Holding. Gli studenti, tra le altre cose, hanno scritto i nomi delle 300 vittime sui muri dell’università, hanno chiesto che sia interrotta ogni relazione tra l’ateneo e l’impresa e le dimissione dei dirigenti della İTÜ che durante una trasmissione televisiva avevano affermato, a proposito delle vittime di Soma, che in fondo quella causata dal monossido di carbonio è una “morte dolce”.

 

Ieri il governatore della provincia di Manisa aveva proibito ogni forma di manifestazione nell’area di Soma, completamente circondata dalle forze di polizia che hanno piazzato tre diversi posti di blocco attraverso i quali dovevano passare tutti coloro che volevano entrare nella cittadina. Otto legali appartenenti all’Associazione degli Avvocati Progressisti (ÇHD), diretti a Soma per prestare assistenza legale ai sopravvissuti alla strage e ai parenti delle vittime, sono stati arrestati dalla Polizia, malmenati e portati nel campo sportivo dove sono stati lasciati per un certo tempo ammanettati prima di essere rilasciati, tra loro il presidente dell’associazione Selçuk Kozağaçlı. Ieri secondo alcuni media sarebbero stati decine gli arresti realizzati dalla polizia per impedire che a Soma e nelle aree circostanti montasse la protesta contro il governo in corrispondenza dei funerali delle vittime.

 

Se dopo l’esplosione della protesta della scorsa estate e ancora più recentemente, in occasione delle proteste contro gli scandali che hanno investito il governo, Erdogan aveva puntato il dito contro un complotto straniero prima vagamente evocato e poi esplicitamente identificato con l’imprenditore/predicatore Fetullah Gulen, ora non c’è un nemico occulto che il ‘sultano’ possa agitare per placare l’indignazione popolare generata dalla strage di Soma. La vittoria netta alle recenti elezioni amministrative, vinte con circa il 45% dei voti grazie ai brogli ma anche grazie al sostegno di una maggioranza silenziosa ancora molto compatta, sembra in questi giorni assai lontana.

 

Erdogan, commentando a caldo la tragedia appena avvenuta nelle gallerie della minera di carbone, aveva affermato che ‘sono cose che succedono’. Ma i dati e i numeri parlano da soli.

 

Ankara non ha mai firmato la Convenzione sulla Sicurezza e la Salute nelle Miniere dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e la Turchia, secondo un documento della stessa Oil risalente al 2012, occupa un affatto invidiabile terzo posto nella classifica mondiale degli incidenti sul lavoro per numero di abitanti. Ed il settore minerario, insieme a quello edilizio, è un vero e proprio buco nero. Tra il 1991 e il 2008, dicono le statistiche fornite dall’Istituto Tepav, ben 2500 minatori hanno perso la vita e addirittura 13 mila sono rimasti invalidi a causa di incidenti o malattie legate all’attività dell’estrazione del carbone. All’inizio di quest’anno la Camera degli Architetti e degli Ingegneri aveva segnalato i gravissimi deficit di sicurezza delle miniere di Soma, e ad aprile i partiti di opposizione avevano presentato in Parlamento una mozione affinché si aprisse una inchiesta ufficiale su una serie di incidenti occorsi nella miniera dove martedì scorso si è poi verificata la tragedia. Ma tutti gli allarmi, neanche a dirlo, sono stati negati dal governo.

 

 

 

Contropiano, 18 Maggio 2014

 

 

 

Il processo Marlane-Marzotto

 

 

 

Tra le rarefatte notizie che si possono trovare (cercando bene) sul processo Marlane-Marzotto in corso al tribunale di Paola, oggi ne arriva una che conferma il nesso causa-effetto tra sostanze impiegate nelle lavorazioni, decessi di lavoratori e inquinamento. Finalmente, con forte ritardo rispetto ai tempi previsti, è stata presentata la perizia del pool di esperti incaricati dal tribunale di Paola a verificare cosa è successo nello stabilimento calabrese. Seppur in assenza di uno dei “super periti”, i risultati raggiunti sono stati esposti durante l'udienza di ieri. Ebbene, nella perizia, si evidenzia che almeno alcuni casi di tumore sono stati provocati con certezza all'esposizione dei lavoratori al cromo. A questa conclusione gli esperti sono arrivati non basandosi su stime statistiche, ma grazie all'utilizzo di dati certi e certificati. Secondo la perizia, inoltre, esiste, tra i lavoratori della Marlane, un eccesso di casi di tumore al polmone e alla vescica. Sempre secondo gli esperti, il fatto di lavorare in ambiente unico (più volte è stato denunciato l'abbattimento delle pareti divisorie tra i diversi reparti dello stabilimento calabrese) ha costretto al contatto con le sostanze cancerogene tutti i lavoratori impiegati e non solo quelli che operavano nel reparto tintoria o nella cucina colori. La perizia, inoltre, evidenzia che la dotazione di dispositivi di protezione individuale era insufficiente, che l'insicurezza nello stabilimento era aggravata dall'utilizzo di sistemi di areazione a parziale ricambio d'aria e dal sollevamento di polveri nocive per l'utilizzo, nelle pulizie, di macchinari ad aria compressa. Per quanto riguarda il danno ambientale, gli esperti hanno esaminato precedenti rilevazioni in quanto sono passati troppi anni per poter ottenere risultati apprezzabili da campionamenti effettuati oggi. Secondo le conclusioni dei periti, il danno ambientale sarebbe molto probabile in quanto sono state rilevate, nei terreni dello stabilimento, grandi quantità di trimetril due benzilammina, una sostanza che, pur non essendo qualificata come cancerogena, è estremamente pericolosa, perché tossica e non solubile. La sua pericolosità per la salute dell'uomo, inoltre, aumenta con l'esposizione al calore.

 

Da queste notizie, che riassumono sinteticamente la perizia voluta dal tribunale di Paola, si evince che quanto affermavano i lavoratori della Marlane, le organizzazioni sindacali (Slai Cobas e Si Cobas) e le associazioni ambientaliste calabresi che li hanno sempre sostenuti erano assolutamente attinenti alla realtà. Alla Marlane l'ambiente di lavoro era pericoloso e, questo, ha contribuito al proliferare di malattie e decessi tra i lavoratori.

 

È necessario che si arrivi in tempi rapidi alla sentenza di questo processo che sembra non finire mai e che si sta svolgendo nell'indifferenza dei grandi mezzi di informazione e dei partiti che siedono in parlamento e in particolar modo da quelli che sostengono il governo Renzi. Questi ultimi, evidentemente interessati ad approvare leggi (come il ddl n. 34 del 20 marzo 2014 ) che rendono sempre più precario, instabile e, quindi, insicuro il lavoro.

 

Bisogna arrivare alla sentenza di primo grado per scongiurare qualsiasi ipotesi di prescrizione.

 

Noi, comunisti italiani di Vicenza, vogliamo fare un ennesimo appello alle forze politiche, ai sindacati, alle associazioni, ai singoli cittadini democratici vicentini di prendere coscienza che nello stabilimento Marlane-Marzotto di Praia a Mare ha avuto luogo una tragedia di enormi proporzioni e che le condizioni di lavoro hanno favorito tale tragedia. Mobilitatevi. Chiedete anche voi che si arrivi in tempi brevi alla sentenza. Pretendetelo. Non abbiate timore anche se gli imputati sono molto conosciuti e portano cognomi illustri.

 

Sia fatta verità e giustizia per i morti della Marlane.

 

Partito dei Comunisti Italiani,Federazione di Vicenza

 

 

 

Contropiano, 18 Maggio 2014

 

 

 

Operaio morto sotto frana, due indagati

 

Padre vittima e proprietario terreno accusati di omicidio colposo

 

Due persone sono indagate per omicidio colposo in seguito alla frana avvenuta ieri durante uno scavo in un vigneto a Valdobbiadene, che ha provocato la morte di un operaio, Roberto Michielon. Ad essere accusati sono il padre della vittima, Ermanno Michielon, titolare dell'azienda per cui il 47enne lavorava, e Angelo Rebuli, proprietario del fondo agricolo nel quale era in corso l'opera di posa di alcune condotte idrauliche. Il sospetto degli inquirenti è che nell'esecuzione dello scavo non siano state poste in essere le misure di sicurezza previste dalle norme antinforunistiche.

 

Ad essere travolti dalla frana sono stati due cugini mentre posavano delle tubature. Uno dei due, Roberto Michielon, è moto dopo essere rimasto sepolto sotto la frana. Il secondo – risalito per primo dalla profonda buca – si è salvato grazie all'intervento dei vigili del fuoco di Treviso, i quali hanno scavato con le mani per estrarlo dalla massa argillosa che l'aveva coperto fino alle spalle.

 

Quest'ultimo, Ivan Michielon, 39 anni, ha riportato uno schiacciamento agli arti inferiori, ed è sotto shock all'ospedale, ma non in pericolo di vita. Nulla da fare invece per il cugino, Roberto Michielon, 47 anni, assessore comunale a Pederobba, sposato e padre di due ragazzi adolescenti, che è stato raggiunto dai pompieri, a 4 metri e mezzo di profondità, quando ormai era privo di vita. Un soccorso coraggioso e disperato quello dei vigili, che hanno dovuto puntellare continuamente le due sponde di terra dello scavo – uno squarcio di 5 metri di lunghezza e 3,5 metri di larghezza, profondo 5 – per il rischio che il materiale crollasse ancora.

 

Per alcune ore la speranza è stata quella che sotto la frana fosse rimasta una 'bolla' di ossigeno attorno al viso di Michielon che potesse consentirgli di respirare. Per questo si è continuato a 'pompare' aria ad alta pressione nel sottosuolo nella speranza di aiutarlo a sopravvivere. Poi, quando il corpo è stato raggiunto in fondo al buco, per gli amici e i parenti in attesa attorno al vigneto è stata la disperazione. I due erano dipendenti dell'azienda di escavazioni di escavazioni 'Michielon', di Pederobba. I lavori che stavano eseguendo nel vigneto della tenuta agricola 'Rebuli', produttrice di prosecco e altri tipici vini trevigiani, dovevano servire per posare nel sottosuolo un pozzetto prefabbricato per la canalizzazione idraulica delle acque pluviali. Sulla dinamica della tragedia stanno indagando i Carabinieri.

 

Dai primi accertamenti non è escluso che il volume di terra che li ha travolti sia caduto in parte dal cumulo che gli stessi operai avevano ammassato all'esterno nell'eseguire lo scavo. Quando il terreno è franato, Roberto Michielon si trovava sul fondo della buca, Ivan sopra di lui, e ciò ha determinato il loro destino. Si trattava di uno scavo a 'pareti libere', senza piastre di protezione laterali. Questo in un tipo di terreno poco consistente, in parte argilloso, che una volta franato tende a compattarsi subito. La difficoltà per i pompieri è stata proprio quella di scavare con delicatezza – lo hanno fatto spesso con le mani – per evitare che la buca collassasse ulteriormente. Ora dovranno essere i Carabinieri e i tecnici dello Spisal a dire se tutte le norme di sicurezza siano state rispettate.

 

ANSA, 22 maggio 2014

 

 

 

Operaio morto sotto frana, due indagati

 

 

 

Due persone sono indagate per omicidio colposo in seguito alla frana avvenuta ieri durante uno scavo in un vigneto a Valdobbiadene, che ha provocato la morte di un operaio, Roberto Michielon. Ad essere accusati sono il padre della vittima, Ermanno Michielon, titolare dell'azienda per cui il 47enne lavorava, e Angelo Rebuli, proprietario del fondo agricolo nel quale era in corso l'opera di posa di alcune condotte idrauliche. Il sospetto degli inquirenti è che nell'esecuzione dello scavo non siano state poste in essere le misure di sicurezza previste dalle norme antinforunistiche.

 

Ad essere travolti dalla frana sono stati due cugini mentre posavano delle tubature. Uno dei due, Roberto Michielon, è moto dopo essere rimasto sepolto sotto la frana. Il secondo – risalito per primo dalla profonda buca – si è salvato grazie all'intervento dei vigili del fuoco di Treviso, i quali hanno scavato con le mani per estrarlo dalla massa argillosa che l'aveva coperto fino alle spalle.

 

Quest'ultimo, Ivan Michielon, 39 anni, ha riportato uno schiacciamento agli arti inferiori, ed è sotto shock all'ospedale, ma non in pericolo di vita. Nulla da fare invece per il cugino, Roberto Michielon, 47 anni, assessore comunale a Pederobba, sposato e padre di due ragazzi adolescenti, che è stato raggiunto dai pompieri, a 4 metri e mezzo di profondità, quando ormai era privo di vita. Un soccorso coraggioso e disperato quello dei vigili, che hanno dovuto puntellare continuamente le due sponde di terra dello scavo – uno squarcio di 5 metri di lunghezza e 3,5 metri di larghezza, profondo 5 – per il rischio che il materiale crollasse ancora.

 

Per alcune ore la speranza è stata quella che sotto la frana fosse rimasta una 'bolla' di ossigeno attorno al viso di Michielon che potesse consentirgli di respirare. Per questo si è continuato a 'pompare' aria ad alta pressione nel sottosuolo nella speranza di aiutarlo a sopravvivere. Poi, quando il corpo è stato raggiunto in fondo al buco, per gli amici e i parenti in attesa attorno al vigneto è stata la disperazione. I due erano dipendenti dell'azienda di escavazioni di escavazioni 'Michielon', di Pederobba. I lavori che stavano eseguendo nel vigneto della tenuta agricola 'Rebuli', produttrice di prosecco e altri tipici vini trevigiani, dovevano servire per posare nel sottosuolo un pozzetto prefabbricato per la canalizzazione idraulica delle acque pluviali. Sulla dinamica della tragedia stanno indagando i Carabinieri.

 

Dai primi accertamenti non è escluso che il volume di terra che li ha travolti sia caduto in parte dal cumulo che gli stessi operai avevano ammassato all'esterno nell'eseguire lo scavo. Quando il terreno è franato, Roberto Michielon si trovava sul fondo della buca, Ivan sopra di lui, e ciò ha determinato il loro destino. Si trattava di uno scavo a 'pareti libere', senza piastre di protezione laterali. Questo in un tipo di terreno poco consistente, in parte argilloso, che una volta franato tende a compattarsi subito. La difficoltà per i pompieri è stata proprio quella di scavare con delicatezza – lo hanno fatto spesso con le mani – per evitare che la buca collassasse ulteriormente. Ora dovranno essere i Carabinieri e i tecnici dello Spisal a dire se tutte le norme di sicurezza siano state rispettate.

 

 

 

http://www.ansa.it/veneto, 22 maggio 2014

 

 

 

Ilva, Slai Cobas: “Fermo impianto” dopo inchiesta Procura tumori Carpenteria

 

 

 

TARANTO – ”La Procura di Taranto ha aperto un’inchiesta sui casi di tumore tra gli operai del reparto Carpenteria, ma e’ legittimo chiedere, e lo faremo previa consultazione con i lavoratori, il fermo dell’impianto, in attesa degli accertamenti, con il suo eventuale spostamento in zone che possano essere più sicure o con una ulteriore verifica dei materiali trattati nella lavorazione”.

 

Lo scrive in una nota lo Slai Cobas per il sindacato di classe di Taranto dopo l’avvio di una nuova indagine penale sulle malattie che potrebbero essere messe in relazione all’inquinamento dell’Ilva. Il pm Antonella De Luca, della sezione specializzata sugli infortuni sul lavoro, ha acquisito due relazioni (una di gennaio e un’altra di pochi giorni fa) dello Spesal, il Servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro dell’Asl, relativi al reparto. Sarebbe stata riscontrata una quindicina di casi di tumore e disfuzione della tiroide.

 

Nei giorni scorsi un operaio del reparto, Nicola Darcante, di 39 anni, e’ morto a causa di un tumore che gli era stato diagnosticato sei mesi fa. ”Quello che pero’ va denunciato – aggiunge lo Slai Cobas – e’ come Bondi abbia gia’ dato la sua risposta parlando di ‘assenza, dopo controlli, di esposizione ad agenti inquinanti’. Questo contrasta con le denunce gia’ recepite dall’Asl attraverso lo Spesal e testimonia anche su questo la volonta’ dell’azienda e del suo commissario di procedere lungo la sciagurata linea di negazione della realta’ che si manifesta su tutti i campi, e che mette in serio pericolo la salute e la vita degli operai in fabbrica”. (Ansa)

 

 

 

http://www.inchiostroverde.it/ 23 maggio 2014

 

 

 

Ilva, 27 condanne per morti amianto – Peacelink: affermato principio legalità

 

 

 

TARANTO – Sono 31 i casi esaminati di morti per mesotelioma e cancro polmonare di lavoratori che hanno svolto varie mansioni nello stabilimento siderurgico di Taranto sia nel periodo gestito dall’Italsider che dall’Ilva, ma non per tutte le ipotesi di omicidio colposo e’ stata riconosciuta la condanna, nell’ambito del processo che si e’ concluso oggi a Taranto. Intanto, dal dispositivo della sentenza distribuito dalla cancelleria del tribunale e’ emerso che sono 27, e non 28 come si era appreso in un primo momento, gli imputati condannati dal giudice monocratico Simone Orazio nel processo a carico di ex dirigenti dell’Ilva. E’ stato assolto infatti il giapponese Hayao Nakamura, per il quale era stata chiesta la condanna a due anni e mezzo. Il manager in un primo momento fu chiamato come consulente e per un periodo e’ stato anche amministratore delegato con la gestione pubblica. Il massimo della pena, 9 anni e mezzo, e’ stato inflitto all’ex direttore dell’Italsider Sergio Noce. A seguire 9 anni e due mesi ad Attilio Angelini, 9 anni a Giambattista Spallanzani e Girolamo Morsillo, 8 anni e sei mesi a Giovanni Gambardella, Giovanni Gillerio, Massimo Consolini, Aldo Bolognini e Piero Nardi, 8 anni a Giorgio Zappa, Giorgio Benevento e Francesco Chindemi, 7 anni e 10 mesi a Mario Lupo, 7 anni a Renato Cassano, 6 anni a Fabio Riva, Luigi Capogrosso, Nicola Muni e Franco Simeoni, 5 anni a Costantino Savoia, Mario Masini, Lamberto Gabrielli, Tommaso Milanese e Augusto Rocchi, 4 anni a Bruno Fossa, Riccardo Roncan, Alberto Moriconi ed Ettore Salvatore. Sono state riconosciute inoltre provvisionali nei confronti delle parti civili: l’Inail, la Fiom Cgil, la Uil e i familiari di alcune vittime. (ANSA).

 

 

 

http://www.inchiostroverde.it/, 23 maggio 2014

 

 

 

Ilva. Usb denuncia nuovo incidente sul lavoro

 

Un incidente sul lavoro si è verificato nella tarda serata di ieri nello stabilimento Ilva di Taranto. Lo rende noto il coordinatore provinciale dell'Usb (Unione sindacale di base) Francesco Rizzo.

 

«Ieri sera alle 22,45 circa – riporta un comunicato – durante il cambio turno un lavoratore del reparto Mac Tna1 (Treno nastri), Vittorio Dalessandro, 39enne di Taranto, mentre scendeva la rampa di scale è stato colpito alla testa da una piastra che probabilmente si era staccata dai binari». Il lavoratore «pare che subito abbia perso i sensi precipitando per tutta la scalinata. Un suo collega, sentendo rumori, si è accorto dell'accaduto ed ha immediatamente chiamato i soccorsi». Dalessandro è stato ricoverato all'ospedale 'Santissima Annunziatà e «presenta – scrive Rizzo – un trauma cranico ed escoriazioni varie sulle ginocchia e le mani».

 

Sull'accaduto hanno avviato accertamenti i funzionari del Servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro dell'Azienda sanitaria locale. Il 21 maggio scorso, un altro lavoratore, Cosimo Galizia, meccanico di pronto intervento, mentre svolgeva operazioni di cambio cilindro nel reparto Tna2, aveva avuto una 'ribaltina' su un piede, riportando un trauma da schiacciamento giudicato guaribile in 35 giorni.

 

Quanto successo negli ultimi giorni «con i due incidenti ai Treni nastri dell'Ilva – osserva il coordinatore dell'Unione sindacale di base – dimostra sempre di più la gravità della situazione e il grave rischio cui vengono esposti gli operai costretti a lavorare in un'azienda allo sbando dove regna il caos con le manutenzioni impiantistiche oramai inesistenti».

 

Contropiano – 25 maggio 2014

 

 

 

Operaia Fiat suicida alla fine della cassa integrazione

 

Mentre tutti si fanno drogare allegramente dallo spettacolo elettorale, in Italia si muore di mancanza di lavoro, di senso, di collettività.

 

Ad Acerra una donna di 47 anni, Maria Baratto, operaia in cassa integrazione del reparto logistico Fiat a Nola (più famoso come “reparto confino” cui erano stati destinati alcuni degli operai più combattivi di Pomigliano, prima ancora che Marchionne si inventasse il nuovo “modello”), si è uccisa nella propria abitazione martedì scorso, ma il cadavere è stato ritrovato solo quattro giorni dopo.
L'operaia era da circa sei anni in cig, in scadenza definitiva il 13 luglio prossimo. Era separata dal marito e viveva da sola.
Il 2 agosto 2011 aveva scritto sul sito del Comitato delle mogli operai Pomigliano D'Arco: "Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti". In quel momento, infatti, faceva molto discutere il tentativo di suicidio di un altro operaio di Pomigliano D'Arco, che aveva tentato di togliersi la vita ferendosi più volte con un coltello.

 

"L'intero quadro politico-istituzionale – scriveva – che da sinistra a destra ha coperto le insane politiche della Fiat, è corresponsabile di questi morti insieme alle centrali confederali". Marchionne era esplicitamente accusato di "fare profitti letteralmente sulla pelle dei lavoratori che sono costretti ormai da anni alla miseria di una cassa integrazione senza fine ed a un futuro di disoccupazione".
"Il tentato suicidio di oggi di Carmine P., cui auguriamo di tutto cuore di farcela, il suicidio di Agostino Bova (ex operaio di Termini Imerese) dei giorni scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla Fiat per futili motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la punta iceberg della barbarie industriale e sociale in cui la Fiat sta precipitando i lavoratori. Anche per questo la lotta dei lavoratori Fiat contro il piano Marchionne ed a tutela dei diritti e dell'occupazione rappresenta un forte presidio di tenuta democratica per l'intera società".

 

Lo scorso febbraio si è suicidato un altro operaio del reparto logistico fantasma di Nola.

 

Non basta sapere cosa sta accadendo e perché per trovare la forza di continuare a vivere e lottare. Serve essere parte di una vita collettiva, di essere riconosciuti come parte attiva, integrante, positiva. Serve non restare mai soli. Anche questo è un crimine da mettere in conto a Marchionne e ai tanti che ne magnificano il “modello”.

 

Contropiano – 26 maggio 2014

 

 

 

Frana in un cantiere a Roma Geometra eroe muore seppellito

 

 

 

Si era gettato in una fossa per salvare un operaio travolto dalla terra Recuperate altre tre persone rimaste sotto lo smottamento

 

Quando ha visto l’operaio sommerso dalla terra non ha esitato ad entrare nello scavo per aiutarlo, ma è stato travolto da un secondo smottamento che lo soffocato. Per 40 minuti il 118 ha tentato di rianimarlo, ma non c’è stato niente da fare. È morto così Dario Testani, 31 anni, geometra responsabile del cantiere in via della stazione Aurelia a Roma, dove nel primo pomeriggio è avvenuto l’incidente in cui sono rimasti feriti due operai.

 

Uno scavo largo 80 centimetri e profondo due metri e mezzo. Gli operai della ditta Ibisco stavano lavorando al collegamento degli impianti fognari di alcuni edifici in via di ultimazione. Un operaio era all’interno della buca, uno guidava l’escavatore, ed il geometra ed un altro operaio erano all’esterno. Quando, forse proprio a causa delle manovre dell’escavatore, all’improvviso una parete sovrastante lo scavo, lunga circa tre metri, è in parte franata colpendo in pieno un operaio romeno di 38 anni che si trovava all’interno. «La terra ha ceduto per due volte e il secondo smottamento è stato fatale e ha travolto il geometra che è morto», racconta un testimone. «Un operaio si trovava nella buca quando c’è stato il primo smottamento – spiega il teste – era coperto dalla terra fino al bacino, il geometra è sceso per salvarlo ma si è verificato un secondo smottamento che lo ha travolto e non c’è stato nulla da fare». Colleghi e vigili del fuoco hanno subito tirato fuori i due operai, ma per il geometra la situazione è apparsa subito molto grave, aveva il volto e la bocca pieni di terra. Gli altri due operai sono rimasti feriti e sono stati ricoverati in ospedale: uno si è fratturato una gamba, l’altro ha avuto un trauma toracico. Dopo l’incidente nel cantiere, si è vissuto anche il doloroso e drammatico arrivo dei genitori della vittima.

 

La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo, ma i pm procedono anche per violazione delle norme anti infortunistiche infatti dai primi accertamenti è risultato che il geometra non aveva casco né scarpe protettive. L’intero cantiere è stato posto sotto sequestro. Dolore per l’incidente è stato espresso sia dal sindaco di Roma Ignazio Marino, sia dal presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. «Non è tollerabile» morire così ha detto il sindaco aggiungendo: «le istituzioni, di ogni ordine, devono sempre più rafforzare le politiche per la sicurezza sui luoghi di lavoro, anche sensibilizzando le imprese», dello stesso avviso il presidente della Regione che ribadisce come «queste morti bianche non siano degne di un paese civile». Per Cgil, Cisl ed Uil di Roma e del Lazio si tratta di una tragedia che lascia «senza fiato. Soprattutto se pensiamo che dai proclami sulla necessità di agire di più e meglio anche a livello istituzionale per garantire la salvaguardia della sicurezza sul lavoro non si passa poi ai fatti». E i sindacalisti contano i morti sul lavoro: 21 con quello di oggi dall’inizio del 2014. Un altro morto che Cesare Caiazza, della Cgil, non esita a chiamare «eroe» e per il quale chiede un riconoscimento per il suo gesto.

 

La Stampa, 27 maggio 2014

 

 

 

Cinemambiente 2014: The White Town, l’incubo dell’amianto a Casale Monferrato

 

 

 

A un anno da Il fosso bianco, Tommaso Ausili torna a parlare di amianto con un film formalmente ineccepibile

 

A un anno da Il fosso bianco, il fotografo e filmmaker Tommaso Ausilitorna a raccontare le vittime dell’amianto. Nel suo precedente lavoro erano gli operai dello stabilimento Solvay di Rosignano, questa volta sono le vittime dell’Eternit di Casale Monferrato. Tre anni fa Polvere, il documentario di Nicolò Bruna e Andrea Prandstraller, aveva scosso la platea di Cinemambiente, portandosi un premio che aveva fatto preludio al David di Donatello come miglior documentario nel 2012.

 

Ausili offre agli spettatori un cortometraggio di rara intensità nel quale alle parole dei testimoni o sarebbe meglio dire dei sopravvissuti si alternano leimmagini di una città spettrale, sulla quale grava una sorta di spada di Damocle incancellabile, quella di una malattia dai tempi di latenza lunghissimi, una malattia che non dà scampo e che nella sola Casale Monferrato miete, ogni anno, cinquanta vittime.

 

È interessante come ritorni, sin dal titolo, il colore bianco: quello delle spiagge, nel documentario di un anno fa, quello della neve che si sposa su un’ovattata Casale Monferrato.

 

Tommaso Ausili è un fotografo dell’agenzia Contrasto e, infatti, il risultato formale del suo lavoro è a dir poco sbalorditivo. Senso della posizione, composizione dell’immagine, lettura delle situazioni, tutte qualità che concorrono alla creazione di un cortometraggio di denuncia che trova la sua efficacia e la sua potenza nelle atmosfere invernali, nei volti di Mariuccia Ottone e Arcangelo Paladino, nell’editing di Nicola Romano, nelle splendide musiche di Yndi Halda e Tarentel che accompagnano un cortometraggio di rara bellezza.

 

Davide Mazzocco

 

 

 

http://www.ecoblog.it, 1 giugno 2014

 

 

 

 

 

Mamma” Goodyear ammazza i suoi figli

 

Marco Santopadre. Sviluppo, progresso, modernizzazione…tumori, morti, bugie, impunità. E’ un cazzotto nello stomaco lungo 50 minuti il documentario di Laura Pesino ed Elena Ganelli presentato ieri pomeriggio nella Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati alla presenza delle autrici, del produttore Adriano Chiarelli e di alcune esponenti del parlamento e del governo.

 

La chiamavamo ‘mamma Goodyear’ perché ci dava lavoro, ci dava da mangiare” racconta un operaio della fabbrica di Cisterna di Latina, uno dei tanti che non ce l’ha fatta e che è morto nel corso della lavorazione del documentario. Un lavoro sensibile e duro al tempo stesso che dà voce alle vittime di una fabbrica che per decenni ha rappresentato la (apparente) fortuna di un territorio strappato all’agricoltura grazie ai fondi elargiti senza tanti controlli dalla Cassa del Mezzogiorno a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Ma ad un certo punto ‘mamma Goodyear’ ha cominciato a rivelarsi una feroce matrigna che consapevolmente, in nome del massimo profitto, ha assassinato e fatto ammalare molti dei suoi ‘figli’.

 

Happy Goodyear’ – un titolo amaro e ambivalente, quanto mai azzeccato – ricostruisce la storia di una delle tante fabbriche di morte sparse sul suolo italiano, che continua a seminare disperazione in un territorio dal quale, nel 2000, ha deciso di scappare. Quando le prime denunce e le prime inchieste rivelarono le colpe dei manager e dei dirigenti – la mancanza assoluta di misure di sicurezza e prevenzione che ha condannato a morte lenta e dolorosa centinaia di lavoratori – la multinazionale decise infatti di smantellare tutto e delocalizzare la produzione degli pneumatici in Europa dell’Est.

 

Il documentario accompagna lo spettatore in una sorta di via crucis nei luoghi della produzione di morte e di sofferenza. Nei capannoni dove invece delle sei presse autorizzate ce ne stavano ben 60 e dove gli operai lavoravano immersi nella polvere d’amianto, nel nerofumo, nei solventi e nelle vernici senza guanti, senza tute protettive, senza mascherine; nella mensa dove gli operai mangiavano senza neanche cambiarsi d’abito. E poi nelle loro case dove, a più di un decennio dalla chiusura dello stabilimento, raccontano di cicli interminabili di chemioterapia, di operazioni allo stomaco, di metastasi ai polmoni. E di tanti colleghi che non ci sono più, che se ne sono andati. Un lungo elenco, che conta oltre duecento morti di tumore e decine di malati di patologie neoplastiche, linfomi, leucemie. Le centinaia di sostanza chimiche cancerogene respirate, ingerite e assorbite per venti o anche trent’anni senza nessuna protezione non perdonano. Una lista di lutti destinata nei prossimi anni a crescere rapidamente, visto che il periodo di latenza dei tumori provocati dall’amianto e dalle altre sostanze killer impiegate nella produzione degli pneumatici è di decine di anni.

 

Il lavoro delle due giornaliste, premiato come miglior documentario al Rome Independent Film Festival di quest’anno, lascia parlare i protagonisti di questa tragica vicenda di cui la grande stampa non ha saputo né, a volte, voluto occuparsi più di tanto. Eppure, come ha detto una delle autrici, Laura Pesino, “quella della Goodyear non è una piccola storia di provincia, visto il numero enorme delle vittime oltretutto finora calcolato per difetto”.

 

Protagonista del documentario è Agostino Campagna, operaio e rappresentante sindacale, che comincia ad annotare su un’agenda rossa i nomi dei colleghi e amici che si ammalano uno dopo l’altro, poi a raccogliere casa per casa le cartelle cliniche. In un primo tempo i casi documentati clinicamente sembrano essere ‘solo’ 40, ma poi in poco tempo arriva una valanga di cartelle cliniche, che diventano ben 200.

 

Nel 2000 il “Comitato familiari e vittime della Goodyear” deposita una denuncia contro la multinazionale presso la Procura di Latina, proprio mentre la fabbrica decide di chiudere i battenti e spostare la produzione ad est. Le accuse ipotizzate per nove ex dirigenti dello stabilimento – alcuni dei quali stranieri – sono omicidio colposo plurimo e lesioni plurime aggravate. Una tesi accolta dal Tribunale di Latina nel processo di primo grado, concluso con una sentenza di condanna a 21 anni complessivi di reclusione nei confronti di tutti gli imputati. Una condanna tenue ma ribaltata al termine del processo davanti alla Corte d’Appello di Roma, che ha invece assolto la maggior parte degli operai accogliendo l’assurda tesi difensiva dei legali dei manager – legali dello Studio Severino, gestito dalla famiglia del Ministro della Giustizia durante il governo Monti (!) – secondo i quali le morti degli operai della fabbrica di Cisterna potrebbero essere la conseguenza del fumo delle sigarette o dalle loro cattive abitudini alimentari. D’altronde anche il commissario straordinario Clini affermò che i lavoratori ammazzati dall’Ilva di Taranto erano in realtà vittime delle sigarette che avevano fumato…

 

Eppure la Goodyear non ha mai adottato neanche quelle minime misure di sicurezza che già negli anni ’70 fabbriche simili di pneumatici di altri paesi prevedevano per tutelare la salute dei lavoratori impiegati nei propri stabilimenti. Costava troppo, evidentemente, investire in sicurezza e in prevenzione e il profitto non poteva essere ridotto in nome del diritto alla vita di semplici operai.

 

E così per molti anni i manager e addirittura i medici hanno mentito agli operai, negando che ai sintomi che questi denunciavano con sempre maggiore frequenza corrispondesse alcuna grave patologia. La vicenda raccontata dal documentario prodotto dalla Soulcrime – che ha già all’attivo “Nei secoli fedele – Il caso di Giuseppe Uva” – mostra un vero e proprio sistema di omertà e complicità costruito dalla multinazionale: medici compiacenti che procastinavano gli esami clinici e ne falsificavano i risultati, i controlli degli ispettori dell’Asl preannunciati in modo che la fabbrica potesse essere momentaneamente ripulita, i politici e i sindacalisti che giravano gli occhi dall’altra parte…

 

Nel frattempo è in corso un secondo processo nel capoluogo pontino per altri morti e altri malati. Questa volta gli imputati sono undici, rinviati a giudizio nel maggio del 2012 con accuse simili a quelle alla base del processo precedente.

 

Intanto però la scia di morte della multinazionale continua a seminare lutti, gli ex operai continuano ad ammalarsi e a morire. E ‘mamma Goodyear’ non c’è più, al suo posto ha lasciato un deserto. Umano, oltre che economico e ambientale.

 

Contropiano, 07 Giugno 2014

 

 

 

 

 

Morti per amianto, c’è una maxi inchiesta. La Procura indaga su 35 casi sospetti. Intanto anche l’Appello condanna Fincantieri

 

 

 

di Andrea Massaro. Ancona, 7 giugno 2014 – «Si tratta del più elevato risarcimento mai riconosciuto prima d’ora in Italia ai familiari di operai morti per malattie professionali» L’avvocato Rodolfo Berti, un esperto del settore, da quattro anni segue insieme al figlio Ludovico le storie drammatiche di famiglie di ex operai anconetani che, dopo aver trascorso una vita al cantiere, sono morti di mesiotelioma pleurico. Una malattia terrificante, che dilania il corpo, che divora l’essere umano in pochissimo tempo e che lascia solo disperazione in chi resta. Quattro delle famiglie che hanno chiesto giustizia, la stanno ottenendo. Ma la Procura di Ancona è andata oltre.

 

Parallelamente ai procedimenti aperti davanti al Tribunale del Lavoro, c’è in piedi una maxi inchiesta penale, condotta da due sostituti procuratori, che racchiude in un unico fascicolo ben 35 casi di morti sospette per mesotelioma e patologie cancerogene polmonari causate dalle esposizioni alle polveri di amianto. Al momento sul fascicolo non è stata iscritta ipotesi di reato: evidentemente gli inquirenti stanno ancora raccogliendo materiale e quanta più documentazione possibile per cercare di chiarire le cause dei decessi e per vedere se in tutte le circostenze esiste una correlazione tra l’esposizione all’amianto e la malattia contratta. Tra questi 35, ben venti sono ex operai Fincantieri deceduti per mesiotelioma e carcinoma.

 

La procura sta cercando di far luce anche sul caso di una donna, moglie di uno dei quattro ex lavoratori risarciti anche con la recente sentenza della Corte d’Appello del Tribunale del Lavoro, deceduta recentemente. La signora, stando alle informazioni assunte, è morta a causa di un carcinoma. Le cause della malattie potrebbe ricondursi anche in questo caso all’esposizione all’amianto: la donna potrebbe aver aspirato le particelle semplicemente maneggiando le tute da lavoro del marito quando doveva lavarle.
E’ stata già effettuata un’autopsia e si attendono gli esiti degli accertamenti medico-legali.

 

Dunque il fronte potrebbe aprirsi ulteriormente. E viaggia ora su due binari paralleli: il riconoscimento del danno patito dai deceduti nel periodo di sopravvivenza e la responsabilità delle aziende che non avrebbero posto in essere tutti gli accorgimenti necessari ad evitare l’esposizione costante ai rischi. Gli operai erano stati indennizzati dall’Inail, che aveva riconosciuto loro una malattia professionale per un’esposizione alle polveri di amianto cominciata fin dalla fine degli anni Sessanta.

 

Il Resto del Carlino, 7 giugno 2014

 

 

 

Val Susa. I poliziotti chiedono di essere protetti… dalle polveri della galleria!

 

Allora, stiamo calmi. E andiamo con ordine.

 

1) I governi italiani decidono – tutti – che "la Tav Torino-Lione è una priorità" da fare a tutti i costi, e chi si oppone è un potenziale "terrorista";

 

2) i lavori "non presentano alcuna pericolosità per la popolazione, non c'è alcun rischio di inquinamento da amianto", chi lo pensa è un potenziale "terrorista";

 

3) la procura di Torino e la polizia decidono arresti a raffica, incriminazioni da delirio contro i "potenziali terroristi"; la polizia effettua centinaia di posti di blocco ogni giorno, ferma, scheda, intimidisce (ci prova…) per far rispettare "l'autorevolezza dello Stato" che ha deciso che quello scavo è "una priorità" e "non è affatto paricoloso"…

 

Poi esce un'agenzia Ansa (ufficiale, quindi) con questa notizia…

 

Un "sopralluogo urgente" al tunnel di base della Torino-Lione, a Chiomonte in Valle di Susa, per valutare i rischi derivanti dalla inalazione delle polveri per i poliziotti in servizio al cantiere. Lo chiede in una lettera al Prefetto e al questore di Torino, Paola Basilone e Antonino Cufalo, il segretario provinciale del Siulp, Eugenio Bravo.
L'obiettivo, precisa, non è di creare "inutili allarmismi" ma di "rassicurare i lavoratori di polizia".

 

Poi nessuno venga a dire che se c'è un poliziotto che si ammala di cancro questo dipende dalla macumba dei "potenziali terroristi"!

 

Contropiano, 09 Giugno 2014

 

 

 

Lavoratori denunciano guasti ai bus, l'Atac li punisce

 

Anziché trovare adeguate soluzioni alla manutenzione delle vetture, motivo per il quale vengono lasciati a piedi centinaia di cittadini romani, l'ATAC, azienda che gestisce il trasporto pubblico locale di Roma Capitale, preferisce reprimere i lavoratori che segnalano i guasti, ricorrendo anche all'utilizzo di sanzioni disciplinari.

 

In questo modo si vuole obbligare i lavoratori a prestare servizio violando le più elementari norme della sicurezza e del codice della strada, mettendo a repentaglio sia l'incolumità dei cittadini che quella degli addetti al servizio.

 

Già negli anni scorsi l’USB aveva denunciato questi comportamenti presso la Procura della Repubblica, la Prefettura di Roma e tutti gli organi competenti. Torniamo oggi a diffidare nuovamente sia i vertici della società ATAC che gli addetti all’esercizio, i quali svolgono funzioni ispettive sul personale, dal proseguire in questa logica che scarica sui lavoratori responsabilità non loro.

 

L' Unione Sindacale di Base non esiterà ad intraprendere iniziative di mobilitazione e di carattere legale verso chiunque si presti a far applicare queste scellerate disposizioni.

 

Contropiano, 13 Giugno 2014

 

 

 

Roma, operaio morto folgorato in un cantiere dentro alla stazione Termini

 

La vittima aveva 42 anni ed era residente a Latina. La Procura di Roma, e anche Rfi, ha aperto un'inchiesta

 

(lapresse)Un operaio è morto folgorato all'interno della stazione Termini di Roma, in via Giolitti 65. L'incidente sarebbe avvenuto in un cantiere al piano inferiore, pochi minuti prima delle 15. La Procura di Roma ha aperto un'inchiesta e disposto l'autopsia sul corpo dell'uomo per accertare le esatte cause della morte.

 

La vittima aveva 42 anni, italiano e residente a Latina. Lavorava per la ditta Sysco, specializzata in impianti informativi visivi e sonori, operante per conto di Rfi. E' morto durante le attività programmate di installazione di un totem informativo. L'incidente è avvenuto in un locale di servizio mentre il tecnico stava operando su un quadro elettrico. Dalle prime ricostruzioni il tecnico, iscritto nell'albo dei professionisti formati per operare in quell'ambito, aveva messo in atto le misure di sicurezza previste dalla procedura. La folgorazione sarebbe avvenuta per il contatto accidentale con parti elettriche ancora sotto tensione, sulle quali il tecnico non avrebbe dovuto intervenire. Rfi ha espresso il suo cordoglio ai familiari della vittima e ha già avviato un'inchiesta per verificare questa ricostruzione e approfondire le cause e l'esatta dinamica dell'incidente.

 

Sul posto vigili del fuoco con tre squadre, 118 e Polfer. I soccorritori hanno tentato invano di rianimarlo.

 

 

 

La Repubblica, 20 giugno 2014

 

 

 

Parma / Blocchi al magazzino Number1, guardia colpisce un attivista

 

 

 

Tre ingressi bloccati nell’ambito della vertenza aperta dai lavoratori. Nelle immagini si vede chiaramente una delle guardie private assoldate dall’azienda che sferra un pugno sul volto di uno dei manifestanti.

 

Blocchi al magazzino Number1 di Parma, questa mattina, nell’ambito della vertenza aperta dai lavoratori per ottenere una serie di adeguamenti contrattuali. Già nelle scorse settimane si era verificato un grave episodio, con un lavoratore che è rimasto ferito dopo l’intervento dei vigilantes schierati dall’azienda. Oggi il copione sembra proprio essere lo stesso, in base a quanto riferisce il centro sociale Tpo di Bologna, a Parma con Làbas per sostenere i lavoratori e l’Adl Cobas. Racconto chiaramente confermato dalle immagini di GlobalProject che pubblichiamo in questa pagina.

 

Stamattina siamo accanto ai lavoratori della coop Taddei al magazzino Number 1 di Parma”, scrive il Tpo, per praticare “blocchi per chiedere diritti e garanzie sul lavoro. In questi mesi le risposte dell’azienda sono state licenziamenti, sospensioni e trasferimenti. L’azienda ha schierato per l’ennesima volta una guardia di sicurezza privata interna contro i lavoratori in sciopero”. Nel corso del presidio, “colpito al volto un attivista da una guardia privata mentre i lavoratori cercavano di restare in posizione per continuare il blocco. Tre gli ingressi bloccati dai lavoratori”.

 

ZIC -Zero in condotta, 26 giugno 2014

 

 

 

Roma, due operai morti di lavoro

 

 

 

Ha fatto un volo di 12 metri. E' morto così un operaio albanese di 63 anni, che stava lavorando in un palazzo in ristrutturazione a Roma, in via Galilei, nelle vicinanze di Viale Manzoni. Il tragico incidente è avvenuto intorno alle 20 di ieri. Per cause ancora da accertare, la vittima è caduta mentre si trovava su un'impalcatura ed è deceduta sul colpo.

 

A poca distanza dal luogo dell’incidente di ieri cinque giorni fa un altro operaio era morto in un incidente sul lavoro questa volta folgorato, in via Giolitti 65, a poche decine di metri dalla Stazione Termini.

 

 

 

Contropiano, 26 Giugno 2014

 

 

 

Ilva Taranto, l'Usb denuncia i tumori tra i lavoratori del reparto Laminazione

 

 

 

L'Unione sindacale di base di Taranto e i delegati del reparto Laminazione a freddo dell'Ilva denunciano di aver raccolto, dopo alcune segnalazioni, informazioni riguardo "diversi casi di patologie tumorali di lavoratori ed ex lavoratori di alcune zone del Laf in particolare Dec 1 e 2, Decatreno Ruther e Torneria.
Dopo una prima e parziale indagine sono emersi dati "che fanno rabbrividire", aggiunge l'Usb. Secondo questi dati risultano deceduti oltre una decina di lavoratori per patologie tumorali che riguarderebbero gola, stomaco, pancreas e polmone, di età compresa tra i 31 e i 59 anni. Inoltre, una decina di lavoratori attualmente in forza allo stabiimento "risultano colpiti da forme tumorali".
In comune tra loro avrebbero il fatto di lavorare o di aver lavorato nei reparti Decappaggi 1 e 2 o zone limitrofe. "Nelle scorse ore – continua l'Usb – abbiamo inoltrato una segnalazione alla Procura della Repubblica chiedendo di far luce su questa ennesima e drammatica situazione che vede i lavoratori come vittime. Ci chiediamo come sia possibile che nessuno di coloro che sono addetti alla vigilanza sanitaria si sia accorto negli anni di una situazione cosi' anomala e che quantomeno avrebbe meritato approfondimenti, pur avendo strumenti idonei per farlo. A noi della Usb per capire che ci troviamo di fronte ad una situazione allarmante dal punto di vista sanitario – conclude il sindacato – é bastata qualche telefonata e parlare con lavoratori e con famigliari dei colleghi deceduti".

 

 

 

Contropiano, 2 luglio 2014

 

 

 

Fabbrica di fuochi d’artificio esplode a Tagliacozzo
Salta in aria la polveriera: tre morti e quattro feriti

 

Incidente in località San Donato nell'azienda pirotecnica Paolelli. Almeno quattro esplosioni a pochi minuti di distanza l'una dall'altra, la terza definita dai testimoni un "finimondo". Nei comuni vicini è saltata la corrente elettrica e molte finestre di appartamenti sono state distrutte. La moglie del vigile del fuoco morto a Città Sant'Angelo: "Queste fabbriche vanno chiuse"

 

TAGLIACOZZO. Un boato, poi una colonna di fumo che si alza nel cielo e ancora altre esplosioni. Un'altra fabbrica di fuochi d'artificio esplode in Abruzzo e altre tre persone sono morte. A saltare in aria questa volta è la casamatta dell'azienda pirotecnica Paolelli a Tagliacozzo, in località San Donato. Sembra di vivere un film già visto, tutto ricorda quanto accadde un anno fa a Città Sant'Angelo, dove esplose la fabbrica dei fratelli Di Giacomo. I morti furono cinque. Il bilancio dell'esplosione nella Marsica è di tre morti: due corpi sono stati recuperati, mentre il terzo è stato individuato sotto una trave ma non è stato ancora estratto. Secondo quanto riportato dall'Ansa i tre sarebbero Valerio Paolelli, figlio del titolare Sergio rimasto ferito, di Antonio Morsani e di Antonello D'Ambrosio. Sono ricorsi alle cure dei medici dell'ospedale di Avezzano tre dei quattro feriti: l'algerino Kedhia Sofiane, il catanese Aurelio Chiariello e il napoletano Onofrio Pasquariello. Nell'azienda erano presenti nove persone: oltre alle tre vittime e ai quattro feritii, sono rimaste illese altre due persone (padre e figlio) che si trovavano nella fabbrica ma in un punto non toccato dall'esplosione. Terminati i primi soccorsi gli interventi sono stati sospesi per almeno 24 ore per permettere le operazioni di bonifica degli ordigni ancora inesplosi e perchè è il tempo minimo necessario per acongiurare altri pericoli. I corpi già estratti e quello ancora da estrarre (che ufficialmente è ancora considerato disperso) restano ancora quindi tra le macerie. Intanto la procura di Avezzano ha aperto un fascicolo di indagine: come conferma il procuratore capo Maurizio Maria Cerrato si indaga per omicidio colposo plurimo e disastro colposo.

 

Come un bombardamento. Impressionante lo scenario materializzatosi davanti agli occhi dei soccorritori: nel giro di un quarto d’ora si sono succeduti diversi altri scoppi e la terra ha tremato, «come per un terremoto». La prima deflagrazione ha provocato una densa colonna di fumo, visibile anche a distanza di alcuni chilometri, mentre nel bosco circostante si sono innescati alcun focolai di incendio. Vigili del fuoco, carabinieri e forestale hanno subito provveduto ad interdire la zona prima di perimetrare e sequestrare l’ampia area interessata dall’evento.

 

Almeno quattro esplosioni a distanza di alcuni minuti l'una dall'altra. Sul posto sono subito arrivati i mezzi dei vigili del fuoco, artificieri, carabinieri e polizia. In tutto ci sarebbero state quattro esplosioni, a distanza di alcuni minuti l'una dall'altra. All'interno della polveriera erano presenti sette persone. Altri due dipendenti si trovavano all'esterno della casamatta. Al momento il personale medico del 118 con l’ausilio di un elicottero decollato dall’Aquila, ha portato via i primi due feriti. La zona è stata subito interdetta per motivi di sicurezza. Si temono infatti altre esplosioni. Sul luogo è arrivato anche il sindaco di Tagliacozzo, Maurizio Di Marco Testa che ha assitito alla seconda esplosione.

 

Il Centro, 9/07/14

 

 

 

IN AUMENTO LE DENUNCE PER MALATTIE PROFESSIONALI, SONO 52 MILA

 

Rapporto infortunistico 2013 dell'Inail. Sono state circa 52 mila le denunce, di queste il 38 per cento ha un'origine professionale riconosciuta. L'aumento più preoccupante tra le donne, che passano dalle 9 mila denunce del 2009 alle 15 mila del 2013. I morti sono stati 1.475

 

ROMA – Continuano ad aumentare le denunce di malattia professionale: nel 2013 sono state 51mila e 900 (5.500 in più rispetto all'anno procedente) con un aumento del 2,7 per cento rispetto al 2012 e di ben il 47 per cento rispetto al 2009. A sottolinearlo è l'Inail nel suo annuale rapporto sull'andamento infortunistico, presentato oggi alla Camera.

 

Il rapporto spiega che è stata riconosciuta l'origine professionale al 38 per cento (19.745) delle denunce complessive, mentre il 3 per cento è ancora in istruttoria In totale sono circa 39mila e 300 i soggetti che si sono ammalati sul lavoro (ogni singolo lavoratore può denunciare più malattie professionali), per il 42 per cento di questi l'origine professionale della patologia è riconosciuta.

 

I lavoratori deceduti nel 2013 per malattia professionale sono stati invece 1.475 (quasi il 33 per cento in meno rispetto al 2009) di questi 376 per patologie asbesto-correlate. Nel 62 per cento dei casi le persone decedute avevano un'età superiore a 74 anni. Tra gli aspetti più preoccupanti del rapporto è l'aumento significativo delle malattie di origine professionale tra le donne, che in quattro anni sono quasi raddoppiate: passando dai 9.663 casi del 2009 ai 15mila del 2013.

 

"Il fatto che ci sia un aumento delle denunce per malattia professionale non è di per sé un elemento del tutto negativo – spiega il presidente dell'Inail Massimo De Felice-. A influenza questa crescita è di sicuro la maggiore consapevolezza che si è diffusa tra i lavoratori, che prima non denunciavano le patologie di natura professionale, ma anche l'introduzione dal 2008 delle nuove tabelle che hanno compreso nuove patologie di origine professionale. Sono cambiati dunque i criteri ma c'è stata di sicuro anche una grande sensibilizzazione sul problema".

 

http://www.superabile.it, 9 luglio 2014

 

 

 

Rompiamo il silenzio sulle morti operaie! No ai licenziamenti politici!

 

MANIFESTAZIONE GIOVEDI 17 LUGLIO ORE 11:00

 

CONCENTRAMENTO EX-STAZIONE CIRCUMVESUVIANA DI POMIGLIANO

 

Contro la dittatura di Marchionne al fianco di chi lotta!

 

Lottiamo uniti per il reintegro a salario pieno dei licenziati e dei cassintegrati
In queste settimane la Fiat ha comunicato il licenziamento di cinque operai del Comitato di lotta cassintegrati di Pomigliano a seguito delle iniziative che il Comitato aveva messo in campo le scorse settimane per denunciare il suicidio dell’operaia del reparto confino di Nola Maria Baratto, logorata da sei anni di cassa integrazione: l’ennesimo in Fiat.
PER LA FIAT VALE PIU' IL MANICHINO DI MARCHIONNE CHE IL SANGUE VERO DI TANTI OPERAI CHE SI SUICIDANO…

 

E’ questo il prezzo che i padroni vogliono far pagare a Mimmo Mignano (già licenziato 2 volte e in causa per il reintegro), Antonio Montella, Marco Cusano, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore: licenziati perché hanno osato sfidare il silenzio e l’omertà imposta dalla Fiat sul sangue versato dagli operai in nome dei profitti.
In occasione dell'udienza al tribunale di Nola, dopo 6 anni dal licenziamento di Mimmo Mignano, è necessario essere a Pomigliano per sostenere Mimmo Mignano licenziato politico buttato fuori dalla fiat per rappresaglia antisindacale, per sostenere le resistenze e le lotte operaie, per la garanzia di salario e per il reintegro in fabbrica di tutti i cassaintegrati e licenziati, per unire la lotta del comitato cassintegrati e licenziati Fiat di Pomigliano con le altre vertenze operaie e proletarie attive sul territorio campano e con le lotte dei disoccupati, dei precari, degli studenti e dei movimenti per il diritto all’abitare, per ricostruire un ambito di collegamento almeno nazionale tra gli operai combattivi degli stabilimenti del gruppo Fiat e terziarizzate.
Mercoledì ore 13 presidio di lotta Tribunale di Torino per il reintegro di Pino la Robina sindacalista ed RSU dell' USB licenziato per rappresaglia antisindacale alla fiat mirafiori
solidarietà al sindacalista della fiom licenziato dalla Dema per rappresaglia antisindacale
• No ai licenziamenti politici!..BASTA SUICIDI

 

A fianco del Comitato di lotta cassintegrati Fiat, contro la dittatura di Marchionne!
• Rompiamo il silenzio sulle morti operaie a Pomigliano e a Nola!

 

Lottiamo uniti per il reintegro a salario pieno dei licenziati e dei cassintegrati!

 

Comitato di Lotta Cassaintegrati e Licenziati Fiat, Movimento Disoccupati Ex-Macello Acerra,
Uniti si Vince, Laboratorio Politico Iskra, Csoa Spartaco Antica Capua – Smcv, Laboratorio Politico La Scintilla
, Si Cobas – Napoli , Comunisti per l'Organizzazione di Classe, Confederazione Regionale Campania USB , Rete dei Comunisti , Campagna "Magnammece o Pesone".

 

Contropiano, 12 Luglio 2014

 

 

 

Tecnico muore mentre ripara fresatrice. E' accaduto in falegnameria a Campi Salentina

 

(ANSA) – CAMPI SALENTINA (LECCE), 15 LUG – Un operaio tecnico di una falegnameria nella zona industriale di Campi salentina, Lorenzo Solazzo, di 33 anni, è morto questa mattina mentre stava riparando una fresatrice. Per cause non ancora chiarite da parte dei carabinieri e degli ispettori dello Spesal, mentre l'uomo era al lavoro, dalla fresatrice si sarebbero staccati alcuni pezzi che lo hanno raggiunto alla parte alta del torace, ferendolo gravemente. A nulla é valso l'intervento dei sanitari del 118.

 

ANSA, 15 luglio 2014

 

 

 

Tre operai travolti e uccisi da treno vicino a Caltanissetta

 

Indagato macchinista. Lupi, basta morti sul lavoro

 

Tre operai della Rfi, la società che gestisce la rete ferroviaria per il gruppo Fs Italiane, sono stati travolti e uccisi da un treno mentre lavoravano sui binari. Il tragico incidente è accaduto nel pomeriggio di giovedì, poco prima delle 18, lungo un tratto della ferrovia Gela-Licata nei pressi della zona industriale di Butera, in provincia di Caltanissetta.

 

Le vittime, che stavano controllando lo scartamento del binario, sono Vincenzo Riccobono, 54 anni, di Agrigento, Antonio La Porta, 55 anni, di Porto Empedocle (Ag), Luigi Gazziano, 57 anni, di Aragona (Ag). A prenderli in pieno è stato il regionale delle 17.50 Gela-Licata-Caltanissetta a bordo del quale viaggiavano due passeggeri che non sono rimasti feriti.

 

Sull'incidente è stata aperta un'inchiesta per omicidio colposo plurimo a carico del macchinista del treno che era composto solo da una carrozza automotrice. L'uomo sarà interrogato dagli inquirenti. Le indagini sono condotte dai carabinieri e coordinate dalla Procura di Gela. Secondo i primi accertamenti, le vittime non si sarebbero accorte dell'arrivo del mezzo che procedeva a bassa velocità e si è fermato circa 200 metri dopo l'impatto. Probabilmente i tre, che lavoravano dopo una curva, sono stati colti di sorpresa e non hanno sentito arrivare il treno. Non ci sarebbero stati inoltre strumenti per segnalare la presenza degli operai.

 

"Ricevo la notizia di un incidente sulla linea ferroviaria nei pressi di Gela. Alle famiglie dei tre operai voglio far arrivare le mie condoglianze e la mia partecipazione al loro indicibile dolore", ha commentato il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, esprimendo il suo cordoglio per la morte dei tre operai. "Piangiamo ancora una volta per delle morti assurde. – ha aggiunto – Non si può perdere la vita così mentre si sta compiendo il proprio lavoro". "Il senso di pietà – ha detto Lupi – non può fare a meno che ci si chieda e si chiarisca nel più breve tempo possibile che cosa è successo e quali siano le responsabilità di questo ennesimo incidente mortale sul lavoro. Ho chiesto alla dirigenza di Ferrovie dello Stato di farmi immediatamente una relazione sull'accaduto".

 

E il cordoglio ai familiari delle vittime è stato espresso anche da Rfi che ha avviato un'inchiesta per chiarire la dinamica dell'incidente. Una risposta potrebbe giungere agli investigatori anche dalla scatola nera del treno che è stata fatta sequestrare dalla Procura e sarà portata a Caltanissetta. La polizia ferroviaria di Caltagirone ha effettuato i rilievi tecnici.

 

ANSA, 17 luglio 2014

 

 

 

Il 17 luglio RFI ha fatto nuovamente “STRIKE”

 

Travolti da un treno nel Nisseno, sulla linea che da Licata porta a Gela, Vincenzo Riccobono, 54 anni, di Agrigento, Antonio La Porta, 55 anni, di Porto Empedocle (Ag), Luigi Gazziano, 57 anni, di Aragona (Ag), son gli ultimi 3 ferrovieri di RFI che hanno pagato con la vita il privilegio di lavorare nelle ferrovie più sicure del mondo.

 

Il copione è collaudato, cordoglio per le vittime, come negarlo, occultamento dei fatti e con un po’ di fortuna si scaricherà ai colleghi morti pure la colpa di ciò che è accaduto.
Il tutto condito dal nauseabondo sostegno, che a questo rituale, filt, fit, uilt, orsa, ugl e fast, offrono ad un’azienda (RFI) che dell’immunità ha fatto il proprio cavallo di battaglia.
Eppure per capire cosa stia accadendo, basterebbe approfondire il clima in cui si opera, non serve a niente capire cosa è accaduto dopo, se non si ha ben chiaro il perché si sia arrivati a quel punto.
La concomitanza con la sentenza che riconferma il licenziamento di Antonini, merita una riflessione ancor più accurata alla luce di questa nuova tragedia, perché finché un’azienda come RFI, potrà impunemente licenziare chi le ostacoli i tentativi, nemmeno così celati, di occultare la verità, difficilmente sarà pensabile che si possa arrestare questa strage infinita che colpisce, manutentori in testa, tutti coloro che lavorano in mezzo hai binari.
Ma non ci stancheremo mai di ripeterlo, conoscere la dinamica lascia il tempo che trova, certo è probabile che ci diranno che mancavano le tabelle, che l’IPC non è stato applicato alla lettera, e chissà che altro, ma non ci diranno, che tutta la catena di comando era a conoscenza di come quei lavoratori operavano e che se il numero di morti non è ancora più alto è perché paradossalmente, siamo particolarmente “fortunati”.

 

Inoltre tutto questo accade nella più assoluta rassegnazione, come se fosse l’ineluttabile destino a cui siamo soggetti.

 

Noi non ci stiamo, “la fine del cappone in peius”, non può essere il nostro orizzonte, occorre che la sicurezza torni ad essere un valore inalienabile, perché la sicurezza nel trasporto ferroviario è un diritto di tutti, di chi ci lavora, di chi ci viaggia e anche di chi ci vive intorno.
Occorre sia però chiaro che se è un problema di tutti noi, non possiamo pensare che si possa risolvere confidando nell’esclusivo impegno di qualcun altro, ne tantomeno se continueremo ad aderire, per paura, per convenienza o anche solo per quieto vivere, ad una modalità le cui conseguenze ricadono sempre e solo sulle nostre teste.
L’orologio scandisce il tempo e di sicuro riaccadrà e finché tutti insieme non impareremo a dire qualche volta no, continueremo a dover fare i conti con quello che oramai accade sempre più spesso e i riti di commiato riservati a queste circostanze serviranno a ben poco.
Cobas Ferrovieri

 

http://ferrovieri.wordpress.com/, 19 luglio 2014

 

 

 

Aprilia, due operai morti in un impianto di compostaggio di Acea

 

L'allarme è scattato alla Kyklos in via delle Ferriere. Stavano scaricando del percolato e sono stati investiti dalle esalazioni. Il cordoglio di Napolitano

 

Due operai sono morti nell'impianto di compostaggio Kyklos di Aprilia, di proprietà di Acea. I vigili del fuoco sono intervenuti nella ditta e hanno recuperato i corpi.

 

L'allarme è scattato verso le 9.45 in via delle Ferriere 15. Le vittime, due autotrasportatori dipendenti di una ditta esterna di 44 e 42 anni ed entrambi della provincia di Viterbo, arrivati sul posto, stavano caricando i camion di percolato e, a quanto riferito dai carabinieri che indagano sul caso (e riportato dall'agenzia Omniroma), erano privi di protezioni. Avrebbero accusato il malore mentre sversavano la sostanza dall'autocisterna. Uno dei due, che si trovava sul mezzo, ha perso i sensi ed è caduto da un'altezza di circa due metri, mentre l'altro è morto all'interno del camion. Dai primi accertamenti svolti sul luogo dell'incidente, le esalazioni letali provenivano dall'autocisterna e non dall'impianto. Sarebbe dunque emerso che l'impianto è sicuro e per questo per ora l'area di pericolo è stata circoscritta all'autocisterna sulla quale lavoravano i due e non all'area dell'impianto. Inutile il tentativo di rianimarli, quando i sanitari del 118, chiamati per un'intossicazione, sono arrivati sul posto, gli operai erano già deceduti.

 

In un primo momento l'area attorno alla Kyklos, per alcune centinaia di metri, era stata interdetta. Alle persone che stanno affluendo viene raccomandato di munirsi di mascherina sanitaria. "C'è il rischio di contaminazione", si spiega. Sul posto sono al lavoro i carabinieri del reparto territoriale di Latina, oltre che dei vigili del fuoco, della Asl e dell'Arpa. Presente anche il magistrato di turno. La Procura del capoluogo pontino ha aperto un fascicolo. Le salme sono sotto sequestro giudiziario in attesa dell'esame autoptico, ma si ipotizza che a ucciderli siano state le esalazioni del percolato.
Nell'impianto vengono prodotti concimi organici derivanti dalla lavorazione dell'umido proveniente dalla raccolta dei rifiuti. Ci sarebbero altri operai intossicati. Lo stabilimento Kyklos è dell'Acea e sinora – si sottolinea – non erano mai avvenuti casi simili. Si estende su 90mila metri quadrati di superficie. In base a quanto riferito in un blog di un comitato cittadino della zona nel corso del 2010 è stato autorizzato un incremento della potenza del trattamento dello stabilimento fino a un massimo di 66mila tonnellate all'anno. "Da anni gli abitanti della zona – si legge su un sito locale – denunciano i cattivi odori e la pericolosità dell'impianto, appelli rimasti purtroppo inascoltati".
Si allunga così la lista delle morti sul lavoro provocate dalle esalazioni. L'8 aprile scorso a
Molfetta, un'altra tragedia non lontano dallo stabilimento Truck center dove nel 2008 morirono cinque persone. Padre e figlio, per salvare il fratello caduto all'interno di una cisterna, hanno perso la vita uccisi dalle esalazioni degli scarti contenuti in una fogna interna alla ditta dove confluiscono gli scarti della lavorazione del pesce.

 

Una intossicazione da esalazioni venefiche l'11 giugno 2008 ha Mineo, 35 chilometri da Catania, è stata fatale per sei operai che lavoravano nella struttura consortile di Mineo. Quattro erano dipendenti comunali (uno era un precario dei Lsu) e gli altri due di un azienda privata. Sono stati trovati abbracciati, forse nel tentativo di salvarsi a vicenda. Invece sono rimasti intrappolati dentro quella 'camera della morte'.

 

Il 26 maggio 2009, in Sardegna, in tre sono morti nella grande raffineria Saras a Sarroch vicino a Cagliari asfissiati da gas tossici. Secondo una relazione di Inail per il 2013 presentata i primi di luglio alla Camera dal presidente dell'istituto Massimo De Felice, stanno diminuendo gli infortuni sul posto di lavoro e soprattutto i decessi, addirittura al minimo storico.
In una nota il Quirinale fa sapere che "Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appresa con profonda tristezza la notizia del tragico incidente ha espresso ai familiari delle vittime sentimenti di partecipe cordoglio e di affettuosa vicinanza".
"E' una morte inaccettabile – ha detto
il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti – Un tragico incidente sul lavoro, l'ennesimo, sul quale sono certo che la magistratura farà piena luce,

 

nel più breve tempo possibile, per accertarne la dinamica e le eventuali responsabilità. A nome di tutta la giunta e dei cittadini della regione Lazio mi unisco al dolore delle famiglie dei due lavoratori. Tragedie come questa non devono ripetersi mai più"

 

La Repubblica, 28 luglio 2014

 

 

 

CENSURATA INCHIESTA SUL DISASTRO DI BRESSANONE DEL 6 GIUGNO 2012 – UN QUADRO INQUIETANTE SULLA TRASPARENZA DELLE 'INVESTIGAZIONI' SVOLTE DAL MINISTERO.

 

 

 

Roma, 28 luglio 2014 – UN FATTO INAUDITO E GRAVISSIMO – E' accaduto un fatto inaudito. Ricordate il deragliamento avvenuto nella stazione di Bressanone il 6 giugno 2012 del treno merci 44213, della RTC (Rail Traction Company SpA)? Per una fortuita casualità restarono feriti solo i nostri due colleghi alla guida ma, per il resto, non ci furono le gravi conseguenze che di solito accompagnano questo tipo di deragliamenti. Basta ricordare Viareggio il 29 giugno 2009. La causa fu subito stabilita nella rottura di acuni assi del primo carro: esattamente uno 'scalettamento' ovvero lo sfilamento di due ruote del primo carro dal proprio asse.

 

MANIPOLATA LA RELAZIONE CONCLUSIVA DELL' INCHIESTA – Il 14 luglio 2014 è stata pubblicata la relazione ministeriale sull'incidente di Bressanone ma questa – incredibilmente ed inverosibilmente – è risultata censurata ed oscurata in molte delle sue parti più significative riguardo il coinvolgimento della ÖBB TS, impresa responsabile della manutenzione del carro che ha originato l’incidente e dell'officina di manutenzione, ZOS di Trnava, in Slovacchia, che aveva effettuato il montaggio (calettamento) delle ruote.

 

LA RELAZIONE AUTENTICA – Nei giorni scorsi abbiamo ricevuto, dal presidente della Commissione d'inchiesta, Ing. Roberto Focherini, il testo integrale e autentico della medesima relazione con le conclusioni dell'inchiesta accompagnata da una vibrata protesta contro l'oscuramento delle sue parti più importanti, soprattutto delle indicazioni e raccomandazioni da fornire all'ANSF ed alle imprese per individuare tutti i carri merci 'a rischio scalettamento' circolanti in Europa.

 

L'ANSF QUALE RELAZIONE CONOSCE ? – Solo pochi giorni or sono il ministero ha inviato all'ANSF una segnalazione che ha fatto scattare un 'allerta' europeo'per tutte le imprese ferroviarie, contenente l'indicazione di non accettare i carri con 'sale montate' (ruote e assi) gemelle a quelle coinvolte nell'incidente, sottoposte a manutenzione dall'officina ZOS, fino a quando non avranno ottenuto evidenza del corretto montaggio. Non sappiamo però se il provvedimento ANSF tiene conto di tutti i contenuti della 'vera' relazione o, al contrario, siano state adottate senza conoscere le parti più scottanti o quantomeno ritenute tali dal Direttore dell'Ufficio investigazioni ferroviarie, il quale in modo del tutto inusuale ha ritenuto di censurarne una parte. Qui a fianco ne riproduciamo una pagina con le classiche righe nere, tipiche della censura 'storicamente' nota.
INVIATA RELAZIONE AUTENTICA ALL'ANSF – Nel dubbio – alimentato da una confusione istituzionale che non agevola la prevenzione degli incidenti – come redazione abbiamo deciso di inviare ufficialmente e solennemente,
con una lettera, la relazione autentica al direttore dell'ANSF, Amedeo Gargiulo, in modo da indurre ciascun soggetto coinvolto ad assumere le proprie responsabilità.

 

IL MINISTRO RESPONSABILE DIRETTO DELL'UFFICIO – L'Ufficio Investigazioni è per legge indipendnete dalle gerarchie ministeriali essendo posto – proprio per garantirne l'indipendenza – sotto la diretta responsabilità del ministro. Per questo riteniamo – salvo diversi e più gravi profili di ordine penale – che il comportamento censorio tenuto dal Direttore dell'Ufficio sia affrontato mediante un urgente chiarimento istituzionale, tenuto conto del grave allarme – oscurato, o quanto meno ritardato – sul pericolo deragliamento derivante dagli assi 'calettati' in modo inadeguato e circolanti tutt'oggi in Europa.

 

TRASPARENZA NECESSARIA – La sicurezza ferroviaria – già peggiorata dalle liberalizzazioni e privatizzazioni in atto – necessita della massima trasparenza, per questochiediamo al ministro di restituire credibilità e trasparenza all'Ufficio Investigazioni ferroviarie, posto sotto la sua diretta responsabilità anche al fine di fugare ogni dubbio in merito a eventuali condizionamenti esterni su temi sensibili per l'industria ferroviaria.

 

GALLORI: 'MA PITTALUGA HA MAI VISTO UN INCIDENTE FERROVIARIO?' – "Il fatto che il presidente di una Commissione d’inchiesta scelga di scrivere alla redazione di una rivista di macchinisti, che da sempre seriamente si interessa alla sicurezza delle ferrovie, la dice lunga sulla scarsa affidabilità riconosciuta ad altri soggetti istituzionali e sul clima interno al ministero dei trasporti" E' quanto afferma Ezio Gallori, redattore anziano della nostra rivista e macchnista per oltre quaranta anni."Detto questo – prosegue Gallori – riteniamo gravissimo che un dirigente ministeriale si permetta di censurare la relazione di una commissione d’inchiesta indipendente. Se il ferroviere Riccardo Antonini è stato licenziato da Moretti per il solo fatto di non aver rispettato “il codice etico”, che fine dovrebbe fare il dott. Pittaluga? In 50 anni di ferrovia ciò non era mai avvenuto e forse il Pittaluga non ha mai visto i disastri ferroviari e le vittime dei viaggiatori causate da un semplice svio di un carro merci. Se sono stati ritirati dalla circolazione delle ferrovie austriache 1.500 carri è per la gravità dei fatti che la commissione giustamente ha evidenziato. La privatizzazione e gli appalti al massimo ribasso – conclude Gallori – possono produrre tragedie come quella di Viareggio, che nella mia vecchia ferrovia non sarebbero mai avvenute, con quei dirigenti che avevano fatto della sicurezza assoluta un dovere prioritario."

 

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http://www.inmarcia.it/, 28 luglio 2014

 

 

 

Amianto: La lotta paga. Riconosciuti anche gli ultimi 6 lavoratori esposti amianto

 

 

 

Dopo anni di lotte con innumerevoli manifestazioni e proteste contro i dirigenti Breda, l’Inail e

 

cause legali contro l’Inps, il contenzioso si è risolto favorevolmente per tutti i lavoratori, anche

 

per quelli che avevano perso le cause contro l’Inps e in cui i giudici avevano applicato la

 

decadenza (prescrizione). ANCORA UNA VOLTA LA LOTTA E LA RESISTENZA PAGA.

 

Anche gli ultimi sei lavoratori della Breda Fucine che avevano lavorato a contatto con

 

l’amianto hanno ottenuto il certificato di esposizione amianto.

 

Con loro tutti i lavoratori che avevano fatto la domanda entro il 15 giugno 2005, sono stati

 

riconosciuti.

 

A oggi sono centinaia gli ex lavoratori che tramite la lotta organizzata dal nostro comitato, hanno

 

ottenuto i cosiddetti “benefici pensionistici” (meglio chiamarli risarcimenti, visto che chi è stato

 

esposto all’amianto muore prima) previsti dalla legge 257 del 1992 sulla messa al bando

 

dell’amianto.

 

Centinaia sono anche gli ex lavoratori esposti amianto e i loro famigliari che hanno ottenuto la

 

sorveglianza sanitaria e le visite gratuite alla clinica del Lavoro di Milano e negli Ospedali della

 

Regione Lombardia.

 

Decine sono i lavoratori e i loro famigliari che hanno ottenuto il risarcimento previsto dal Fondo

 

Vittime Amianto che il nostro Comitato insieme con altre associazioni è riuscito ad ottenere.

 

Altre decine di ex lavoratori, ammalati a causa dell’amianto, hanno ottenuto il riconoscimento di

 

malattia professionale dopo continue manifestazioni del Comitato contro l’INAIL per far valere un

 

diritto che dovrebbe essere riconosciuto pacificamente dalle leggi.

 

La nostra lotta per la giustizia continua anche per quanto riguarda i nostri ex compagni di lavoro

 

uccisi dalle sostanze cancerogene (amianto, cromo, ecc) in fabbrica e le loro famiglie.

 

Sono in corso diversi processi penali contro i dirigenti delle fabbriche che nulla hanno fatto per

 

impedire gli omicidi e le gravi malattie contratte sui posti di lavoro di centinaia di lavoratori della

 

Breda, Pirelli, Ansaldo e altre ancora, processi, in cui il nostro Comitato è stato ammesso come

 

parte civile, e altri grazie al nostro Comitato si apriranno nei prossimi mesi.

 

In questi anni abbiamo combattuto contro nemici potenti. Contro la società che avvantaggia

 

il profitto a scapito della salute e della vita Umana. Contro i padroni, le istituzioni, i partiti e i

 

sindacati che dicevano che eravamo “estremisti” che volevano far chiudere le fabbriche, “terroristi”

 

perchè spaventavamo la popolazione ingigantendo i pericoli dell’amianto e perché volevamo

 

eliminare le sostanze cancerogene dai luoghi di lavoro e dal territorio non accettando la

 

monetizzazione della salute, della vita umana e della morte, e anche contro l’indifferenza di chi

 

girava la testa dall’altra parte facendo finta di “non vedere e sapere”.

 

Oggi grazie alle lotte di tante Associazioni e Comitati il clima è cambiato. La consapevolezza dei

 

pericoli derivanti dall’amianto nel paese è aumentata. Ancora molto c’è da fare e questi risultati

 

ottenuti grazie alla lotta e alla partecipazione attiva dei lavoratori e cittadini che non hanno mai

 

delegato a nessuno, la difesa dei loro diritti e interessi indicano la strada da seguire.

 

Ora la lotta continua per attuare la prevenzione primaria, la messa in sicurezza del territorio,

 

la bonifica dell’amianto su tutto il territorio nazionale e il risarcimento di tutti gli ex esposti

 

alla fibra killer.

 

Oggi ci battiamo contro la prescrizione per gli infortuni e i morti sul lavoro e le malattie

 

professionali e per il miglioramento della legge sull’amianto.

 

Giustizia per le vittime. Basta impunità agli assassini.

 

 

 

Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio

 

Sesto San Giovanni, 29 luglio 2014

 

 

 

Terremoto, operaio morto in crollo. Procura di Ferrara riapre le indagini

 

 

 

Il gup Piera Tassoni ha concesso al pm Alberto Savino altri sei mesi per valutare il coinvolgimento del datore di lavoro e del responsabile del servizio e protezione rischi professionali. Al momento sono tre le richieste di rinvio a giudizio per la morte di Gerardo Cesaro

 

Ci saranno nuovo indagini per il crollo del capannone dellaTecopress di Dosso di Sant’Agostino, in provincia di Ferrara, sotto le cui macerie morì il 20 maggio del 2012 l’operaio Gerardo Cesaro, 54 anni. Il gup Piera Tassoni ha concesso al pm Alberto Savino altri sei mesi per valutare il coinvolgimento del datore di lavoro (Enzo Dondi) e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione rischi professionali (Elena Parmeggiani). Al momento l’inchiesta vede già tre persone rinviate a giudizio. Si tratta diModesto Cavicchi, 65enne di Cento, ingegnere collaudatore dell’opera, Dario Gagliandi, bresciano di 59 anni, ingegnere progettista, calcolatore e direttore dei lavori per le fondazioni della struttura prefabbricata di Dosso, e Antonio Proni, centese residente a Cervia (Ra) progettista generale e direttore dei lavori del fabbricato.

 

Gagliandi avrebbe redatto il documento di progettazione facendo riferimento a una normativa precedente a quella in vigore, omettendo così – sempre secondo la Procura – di adeguare il progetto alla norma tecnica successiva (che prevede l’obbligo di verifica delle forcelle di vincolo alle travi e la verifica del comportamento dell’edificio rispetto a fenomeni di collasso a catena). Proni fece suo il progetto di Gagliandi, senza accorgersi che questi aveva omesso di adeguare il progetto alle nuove norme edilizie, e a sua volta non dispose un collegamento tra tetto e pilastri. Infine Cavicchi, estensore del certificato di collaudo, viene chiamato in causa per aver omesso di rilevare tali violazioni. Per loro il processo si aprirà in autunno. Nel corso dell’udienza preliminare però, su impulso della parte civile – i familiari della vittima, assistiti dall’avvocato Fabio Anselmo -, il pubblico ministero aveva chiesto la restituzione degli atti per compiereulteriori indagini relativamente all’adeguamento del fabbricato alla normativa antisismica.

 

Secondo l’accusa la Tecopress, azienda da 220 dipendenti, che produce di macchinari e pezzi di ricambio per l’industria della ceramica, avrebbe dovuto eseguire tutte le opere necessarie per adeguare e migliorare la struttura dei capannoni alle normative antisismiche dopo che nel 2003 l’Emilia Romagna era stata inserita tra le zone a considerevole rischio sismico. Un approfondimento richiesto per valutare se esistesse in capo al datore di lavoro un obbligo di effettuare opere sul prefabbricato, al fine di prevenire crolli dovuti a scosse telluriche. “Tema meritevole di ulteriori indagini” secondo il giudice, che ha restituito gli atti al pm per i relativi approfondimenti. Disposta l’archiviazione invece nei confronti di tutti gli altri indagati. Marco Zavagli.

 

 

 

Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2014

 

 

 

Sicurezza sul lavoro: nuova procedura d’infrazione

 

 

 

Quando meno te l'aspetti e oramai non ci speri più, ti scrive la Commissione Europea, per informarti che grazie alla tua denuncia del 30 Giugno 2013, contro il Decreto del Fare, per violazioni sulla sicurezza sul lavoro, la Commissione ha deciso che proporrà al collegio dei Commissari europei, che si riunisce una volta al mese (ma non nei mesi di Luglio e Agosto), l'apertura di una procedura d'infrazione, perché il Decreto del Fare, limita il campo di applicazione della direttiva 92/57/CEE (direttiva cantieri) per le prescrizioni minime di sicurezza e salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili.

 

Molto probabilmente la procedura d'infrazione verrà aperta nel mese di Settembre 2014. Ironia della sorte, a 3 anni esatti (Settembre 2011) dall'apertura della prima procedura d'infrazione per la sicurezza sul lavoro.

 

E' già la seconda procedura d'infrazione che faccio aprire (credo sia un record per un cittadino, che non ha dietro di se nessun ufficio legale).

 

Ma questo accade quando i governi se ne fregano delle direttive europee: non recependole per nulla o non correttamente.

 

Sapete come dice il detto: non c'è due senza tre (mancata notifica del Dlgs 81/08: gli Stati membri hanno l'obbligo di comunicare alla Commissione il testo delle disposizioni di diritto interno da essi già adottate o che adottano nel settore disciplinato della direttiva) e il quattro vien da se (decreto lavoro jobs act, che violerebbe direttiva europea 1999/70/CEE sui contratti di lavoro a tempo determinato).

 

Vi terrò aggiornati sui futuri aggiornamenti, intanto un'altra vittoria!

 

 

 

Lettera di Marco Bazzoni, 31 luglio 2014

 

 

 

Fabro, dipendente Ferrovie muore folgorato mentre lavora sui binari

 

 

 

Inutili i soccorsi per l'operaio di 34 anni, Alessio Corradini. Autopsia sulla salma. Da chiarire le cause dell'incidente sul lavoro

 

Alessio Corradini, morto sul lavoro

 

Fabro (Terni), 5 agosto 2014 – Un operaio di 34 anni è morto folgorato poco dopo le 11 di questa mattina mentre lavorava alla manutenzione della linea lenta della tratta ferroviaria Roma-Firenze all'altezza dell'abitato di Fabro. Si tratta di un dipendente di Rete ferroviaria italiana, Alessio Corradini, 34 anni. L'incidente è avvenuto durante le attività programmate di manutenzione della linea elettrica di alimentazione dei treni.

 

L'operaio si trovava su un carrello insieme a un collega. Con un terzo operaio, che seguiva le operazioni dal marciapiede, faceva parte di una squadra impegnata in lavori di manutenzione agli impianti elettrici della linea aerea della ferrovia. Secondo quanto accertato dalla polizia ferroviaria l'elettricità era stata interrotta lungo la linea (da 3 mila volt), ma improvvisamente l'uomo e' stato colpito da una scarica. Inutili i soccorsi dei colleghi.

 

L'ipotesi della polfer è che l'operaio abbia toccato l'estremita' di un palo elettrico in cui era invece ancora presente la corrente. Gli investigatori stanno ascoltando i colleghi della vittima e altri testimoni. Sull'episodio sono in corso accertamenti anche da parte del personale del servizio Prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro dell'Asl. Le indagini sono coordinate dal sostituto procuratore della Repubblica di Terni, Elisabetta Massini, che ha disposto l'autopsia.

 

Per accertare le cause dell'incidente anche Rfi – si legge in un comunicato dell'azienda – ha avviato un'inchiesta interna. Rete ferroviaria italiana e tutto il Gruppo Fs italiane "esprimono ai familiari del collega il più sentito cordoglio".

 

 

 

La Nazione, 5 agosto 2014

 

 

 

Roma, esplode un tombino: feriti tre operai, uno è grave

 

 

 

Rimangono molto gravi ma stazionarie le condizioni di Marcin Macow, l'operaio polacco di 56 anni rimasto gravemente ferito ieri mattina da un'esplosione mentre effettuava un intervento di riparazione della rete idrica nel quartiere Monteverde a Roma. Lo si apprende da fonti sanitarie. L'uomo, che per primo si era calato nel sottosuolo, è stato preso in pieno dalla fiammata e ha riportato ustioni di terzo grado su quasi il 70% del corpo. Marcin Macow, padre di 4 figli, è ricoverato nella terapia intensiva dell'ospedale Sant'Eugenio. E' sedato e intubato.

 

 

 

ANSA, 21 agosto 2014

 

 

 

 

 

Roma, morto l’operaio ferito nell’esplosione in un tombino

 

 

 

Non ce l'ha fatta Marcin Macow, l'operaio di 56 anni – di nazionalità polacca – rimasto gravemente ferito nell'esplosione all’interno di una di servizio a Piazzale Dunant, nel quartiere romano di Monteverde, la mattina del 21 agosto scorso. L'uomo è morto durante la notte all'ospedale Sant'Eugenio della capitale dove era ricoverato dal momento dell’incidente con ustioni di terzo grado sul 70% del corpo.

 

L’esplosione era avvenuta dopo che Macow e altri due lavoratori che dipendevano da una ditta esterna all’Acea erano scesi nella galleria, nella zona di ‘Ponte Bianco’, per effettuare dei lavori di manutenzione. I due colleghi avevano riportato ferite leggere ed erano stati ricoverati nel vicino ospedale di San Camillio, mentre le ferite riportate da Macow investito in pieno dalla deflagrazione scatenata da una fuga di gas non rilevata erano apparse subito molto gravi.

 

 

 

Contropiano, 26 agosto 2014

 

 

 

Muore un altro lavoratore in un impianto sotto sequestro

 

Ancora un altro incidente mortale nel siderurgico di Taranto

 

 

 

L’incidente avvenuto oggi all’interno dello stabilimento siderurgico ILVA di Taranto mette ancora una volta in evidenza il fatto che, a nostro parere, la fabbrica non sia provvista di sufficienti procedure e sistemi di sicurezza tali da evitare perdite di altre vite.

 

L’ennesima sciagura verificatasi in data odierna, che ha visto la morte di un operaio, si ricollega all’incidente che ha coinvolto pochi giorni fa un carro siluro, da cui è fuoriuscita un'enorme quantità di ghisa incandescente.

 

L’AIA del 2012 prometteva una fabbrica modello. Era nata per garantire la realizzazione delle prescrizioni tecnologiche entro il 31 luglio 2014, scadenza ultima per il completamento del rinnovamento degli impianti di produzione dell'area a caldo. Ad oggi,invece, l'AIA non è stata completata, molte prescrizioni rimangono disattese e si verificano incidenti che non dovrebbero accadere in una fabbrica messa a norma. Lo strumento con lo quale le istituzioni garantivano il futuro della città, la legge cosiddetta « Salva-Iva » del dicembre 2012, consisteva appunto in questa Autorizzazione che si è rivelata un elenco di cose non fatte.

 

L'8 giugno 2013 l'on. Michele Pelillo, deputato eletto, dichiarava: "Se l’AIA non sarà rispettata o non sarà sufficiente, a quel punto, sarò il primo a manifestare insieme agli ambientalisti per la chiusura dello stabilimento“.

 

Ma, come numerose altre promesse di rappresentanti delle istruzioni locali, regionali e nazionali, anche questa promessa è rimasta disattesa: l'AIA non è completata, la sicurezza non è garantita ma la produzione continua come se tutto fosse a posto.

 

Peacelink testimonia la propria vicinanza alla famiglia dell’operaio deceduto stamane, colpito da un incidente sul lavoro avvenuto in un impianto che risulta ancora sotto sequestro. La facoltà d’uso di tale impianto è subordinato alla sua messa a norma.
La Magistratura di Taranto ha ancora i custodi giudiziari che verificano le criticità.
Peacelink richiama le direttive europee in materia di incidenti sul lavoro e in materia di protezione dei diritti dei cittadini e dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea.

 

 

 

Peacelink, 4 settembre 2014

 

 

 

16 settembre, seconda udienza del processo all’IIva di Taranto. Rinviati a giudizio i vertici aziendali

 

 

 

Martedi 16 settembre, presidio a Roma dalle 9 alle 11 presso il ministero dell’ambiente (incrocio tra via Cristoforo Colombo e via Capitan Bavastro)

 

Chiediamo giustizia e verita’ per una citta’, per operai e operaie dell’Ilva e di tutto l’indotto, per le loro famiglie.

 

La salute non e’ una merce, la sicurezza non e’ un optional, a taranto va garantita finalmente la salute e la sicurezza di chi lavora, va bonificata l’area e il territorio inquinato, vanno individuati i reali responsabili e chi li ha protetti “politicamente”.

 

Servono un numero sufficiente di rls (rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza) in ogni reparto dello stabilimento, con piene agibilità e tutele per un intervento preventivo e di controllo efficace non solo per i dipendenti dell’ilva ma anche per tutti coloro che lavorano nelle ditte in appalto; serve all’interno dell’ilva una postazione permanente dei servizi ispettivi e degli organismi di vigilanza in materia di sicurezza; serve un “cambio di passo” rispetto alle tante promesse fatte agli operai e alle loro famiglie, mentre imperano licenziamenti collettivi, cassaintegrazione e diatribe infinite su ipotesi di svendita/ripresa dell’acciaieria; va ridata fiducia all’intera cittadinanza di taranto, serve un impegno coerente, efficace, concreto, continuo per evitare lo stillicidio delle continue morti sul lavoro, sui tumori, neoplasie e malattie contratte sul lavoro e un piano pluriennale di bonifica e disinquinamento del territorio, analogamente a quanto dovrebbe essere fatto in tutti i siti inquinati e degradati in italia.

 

Uno strumento utilizzabile, potrebbe essere l’istituzione di una “procura nazionale” specifica, che assorba le competenze parcellizzate su sicurezza e salute, coordinando le varie strutture pubbliche come fu fatto per il contrasto alle organizzazioni criminali…

 

Serve un serio impegno, un intervento anche legislativo, in materia di appalti, dalla trasparenza dei bandi di gara e delle manifestazioni di interesse, fino alla verifica e rispetto delle condizioni per chi lavora e per i territori interessati dai grandi appalti di opere pubbliche e dei servizi, sulle condizioni lavorative, salariali, di tutela per far applicare prevenzione-informazione-formazione-addestramento-aggiornamento per tutto quello che riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro.
il comitato 5 aprile di roma e la rete nazionale sulla salute e sicurezza sul lavoro e sui territori, si rendono disponibili ad aprire con le forze politiche, sociali, sindacali disponibili, un percorso per intervenire in concreto sulla questione “appalti di opere pubbliche” e per la piena appicazione delle normative e delle garanzie su salute e sicurezza.

 

Comitato 5 aprile di Roma – nodo locale della rete nazionale salute e sicurezza sul lavoro e sui territori

 

 

 

Contropiano, 10 settembre 2014

 

 

 

Due operai affrontano imprenditore con piccozza. Lui spara e li uccide

 

 

 

Il fatto a Molino Girola, in provincia di Fermo. Secondo le prime ricostruzioni le due vittime, Mustafa Neomedim, 38 anni, e Avdyli Valdet, 26 anni, sono andate a casa di Gianluca Ciferri per rivendicare somme non saldate e lo hanno affrontato con una piccozza. L'uomo, che sostiene di essersi soltanto difeso, è stato arrestato per duplice omicidio

 

Loro erano armati di piccone, lui gli ha sparato e li ha uccisi. Sono due operai edili stranieri le vittime della sparatoria avvenuta a Molino Girola (Fermo). Secondo le prime ricostruzioni, i due uomini sarebbero andati nella casa dove l’imprenditore Gianluca Ciferri vive con moglie e tre figli per discutere di conti non saldati. I due operai, Mustafa Neomedim, 38 anni, e Avdyli Valdet, 26 anni, kosovaro, lo hanno affrontato armati di piccozza probabilmente per farsi consegnare del denaro. Ciferri ha sparato e ora si trova ora nella caserma dei carabinieri. Alla base della lite ci sarebbero state alcune prestazioni lavorative non pagate, una somma di denaro che le due vittime rivendicavano da tempo.

 

Sarebbe stato lo stesso Ciferri, dopo la sparatoria, a chiamare i soccorsi e i carabinieri. Secondo il suo racconto, i due ex dipendenti sono arrivati a casa sua, in un’area residenziale a ridosso di alcuni capannoni delle imprese calzaturiere del comprensorio fermano, e lo hanno affrontato brandendo una piccozza per ottenere del denaro per un lavoro fatto. La discussione è presto degenerata in una colluttazione, e a quel punto l’imprenditore avrebbe impugnato la pistola, regolarmente detenuta, ed esploso vari colpi. Uno degli operai è morto sul colpo, l’altro ha cercato riparo ma è stramazzato a terra agonizzante: il decesso poco dopo il ricovero in ospedale. I due sarebbero stati colpiti da un colpo ciascuno, ma i proiettili sparati sarebbero cinque o sei.

 

I due operai, entrambi incensurati e con un regolare permesso di soggiorno, si erano rivolti ad un giudice dopo il licenziamento avvenuto in estate: rivendicavano una somma di denaro non corrisposta, anche se i carabinieri non escludono neppure un tentativo di estorsione nei confronti da Ciferri, che afferma di aver sparato per legittima difesa e che è stato arrestato per duplice omicidio. Al momento della sparatoria Ciferri era solo in casa: stava facendo dei lavori all’esterno della villetta di famiglia e sarebbe stato sorpreso alle spalle dai due ex operai. L’imprenditore avrebbe raccontato ai militari di aver tentato una reazione, e di essersi poi diretto in garage, dove teneva la pistola. Attimi di concitazione, seguiti dalla raffica di colpi, che non ha lasciato scampo ai due lavoratori.

 

Le richieste dei due lavoratori erano state diverse, reiterate e non ascoltate“. È il commento del segretario provinciale della Cgil Maurizio Di Cosmo, che ha aggiunto che i due “rivendicavano mensilità arretrate, un problema comune a molte piccole aziende edili, mentre la crisi sta sconquassando la tenuta sociale dei territori”. Uno dei due operai, Mustafa Neomedim, fino a pochi mesi fa era iscritto alla Fillea Cgil, ma da quando aveva perso il lavoro non aveva rinnovato la tessera. Si era rivolto alla Uil, che pare avesse avviato l’iter per un’ingiunzione di pagamento a carico di Ciferri. La vicenda insomma era nota ai sindacati. Secondo Di Cosmo, Mustafa e Avdyli Valdet “non riuscivano più a mettere insieme neppure i soldi per mangiare“.

 

 

 

Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2014

 

 

 

Lettera di un chimico coibente dopo l'ennesima morte per amianto

 

 

 

Pubblichiamo di seguito la lettera di un lavoratore chimico coibente di un'impresa del napoletano scritta alla luce dell'ennesimo operaio morto per essere stato sottoposto a condizioni di lavoro infami e letali in nome del profitto di pochi.

 

L’assassino silenzioso, quello che non fa notizia perché non ammazza con spari fragorosi, che non porta con sé pistole o fucili, non smette di mietere lutti. È un vero e proprio serial killer: solo negli ultimi due anni e tra i soli ex operai dell’Isochimica di Avellino, è stato causa della morte di dieci lavoratori. L’ultimo ieri. Un operaio cinquantenne, di cui dalle cronache di giornali non si riesce nemmeno a sapere il nome. Ad ucciderlo non è stato l’amianto. Troppo facile prendersela con un materiale inerte.

 

Il killer ha carne ossa; quelle di tutti quegli imprenditori, manager, politici, medici, sindacalisti, professionisti, che per anni hanno occultato con piena consapevolezza la pericolosità dell’amianto, sottoponendo gli operai a condizioni di lavoro che li hanno poi condotti ad ammalarsi e a morire.

 

Sapevano e hanno taciuto perché nel frattempo, mentre gli operai lavoravano e si ammalavano, loro mietevano profitti e spartivano prebende. Continuavano a mieterli anche quando si cominciava a discutere sulla messa al bando dell’amianto. I tempi si protraevano – e si dovevano protrarre – perché loro continuavano a far soldi.

 

Ora che l’amianto è ‘fuori legge’ loro sono sempre lì fuori. E magari continuano a fare profitti; magari hanno solo sostituito l’amianto con qualche altro materiale che – forse – tra qualche anno o decennio si scoprirà essere portatore di morte.

 

Oggi, con contratti a tempo determinato, lavoro interinale, stage non retribuiti, un esercito di disoccupati che ti circonda, hanno creato un clima di terrore per cui non solo fa paura denunciare, ma fa paura anche solo domandare, interrogare, cercare di capire. Tanto lo sai che basta una parola sbagliata, un atteggiamento considerato di ‘insubordinazione’ e sei per strada, perché la discrezionalità di chi dirige un’impresa è quasi assoluta.

 

E così si sta lì e si spera che quelle fibre che vagano nell’aria non siano tossiche, che quella polverina che inali non sia cancerogena, che la mascherina e le misure di sicurezza che ci sono in fabbrica siano sufficienti. Perché altrimenti sei fottuto.

 

Non ti regalano niente, non ci regalano niente. Né una mascherina, né una tuta. Tutto ciò che abbiamo l’abbiamo perché ‘loro’ hanno avuto paura, paura di ‘noi’, che abbiamo alzato la testa e che quelle cose, anche la più piccola, ce le siamo conquistate. E questo non dobbiamo mai dimenticarlo, perché poi finisce che ci fanno credere che loro sono buoni e ce l’hanno gentilmente concesso perché si preoccupano per noi.

 

Qualcuno dice che stare zitti e buoni non serve a niente, che verranno a prendere anche noi, che arriverà il nostro turno e saremo cacciati o ci ammaleremo e moriremo anche noi. Giustissimo. Ma qui è l’impotenza a farla da padrone. Ascoltiamo belle parole, e poi? Cosa segue a tutti questi bei discorsi? E noi cosa dovremmo fare? Andare al suicidio?

 

Rischiare tutto, con la certezza di perderlo e solo perché in questo modo saremmo moralmente a posto? L’avventurismo non paga, anzi. Che non significa che non si possa fare nulla. Però quel ‘qualcosa’ che si può fare lo si deve fare con serietà, umiltà e pazienza. Da subito, perché è anche vero che c’è urgenza di invertire la rotta. Perché qui si soffre, e si muore anche.

 

Un lavoratore chimico coibente

 

 

 

http://clashcityworkers.org, 15 settembre 2014

 

 

 

Terni. Lavoratore muore decapitato alla ThyssenKrupp. Sciopero immediato

 

 

 

L’ennesima morte sul lavoro si è verificata poco dopo le 9 di oggi, all’interno del Centro di finitura della Tk-Ast. A perdere la vita è stato un lavoratore di 62 anni – Enrico Pezzanera – titolare di una ditta esterna di autotrasporti, colpito in pieno da rottami di ferro in fase di movimentazione. L’uomo è stato raggiunto con una violenza tale che il materiale ferroso che lo ha colpito lo ha letteralmente decapitato. A rendere ancora più terribile la dinamica – riporta il giornale Umbria 24 – c’è un un aspetto che va verificato: a manovrare il ‘ragno-calamita’ che stava spostando i rottami ferrosi e che avrebbe travolto l’uomo, sarebbe stato il figlio, 25 anni, con il quale lavorava. Enrico Pezzanera – sposato e padre di due figli – da anni si occupava di selezionare e trasportare gli scarti di produzione all’acciaieria di viale Brin. Tutto il materiale era destinato alla produzione di acciaio. I lavoratori della Tk-Ast sono scesi in sciopero in tutti i siti fino alle 22 di questa sera .

 

 

 

Contropiano, 16 settembre 2014

 

 

 

Incidenti lavoro: quattro operai muoiono intossicati da sostanze chimiche

 

I lavoratori uccisi dalle inalazioni di acido solforico in una ditta per lo smaltimento di rifiuti speciali di Cà Emo. Ricoverata in gravi condizioni una quinta persona. La procura di Rovigo apre un'inchiesta: "Evidenti "problemi di sicurezza". Per i vigili del fuoco probabile l'errore umano. Il sindaco proclama lutto cittadino

 

 

 

VENEZIA – Sono morti nella fabbrica dove lavoravano per aver respirato un mix letale di sostanze chimiche, una nube tossica di acido e ammoniaca creata dalla reazione di fanghi trattati con acido solforico. Le prime ricostruzioni parlano di errore umano.
Le vittime sono quattro operai della Co.Im.Po di Adria, una ditta per lo smaltimento di rifiuti speciali di Cà Emo (Rovigo): Nicolò Bellato, 28 anni, e Paolo Valesella, 53, entrambi di Adria, Marco Berti, 47, e Giuseppe Valdan, 47, di Campolongo Maggiore (Venezia). I primi tre erano operai della ditta, mentre il quarto, un autotrasportatore, era un esterno. Una quinta persona è ricoverata in ospedale, si chiama Massimo Grotto, 47 anni, e non è in pericolo di vita. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in una nota, ha espresso "profonda commozione" e ha mandato le sue condoglianze ai familiari delle vittime. "Una tragedia tra le più devastanti" per il mondo del lavoro in Veneto, ha detto il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia. Il presidente della Commissione lavoro del Senato, Maurizio Sacconi, ha sottolneato la "volontà delo Parlamento, senza sovrapposizioni con l'autorità giudiziaria, di conoscere le ragioni della loro tragica morte". Il sindaco della cittadina, Massimo Barbujani, ha proclamato il lutto cittadino.

 

"C'è stata una errata manovra nel processo che la ditta faceva per trattare questi reflui, che ha comportato la nube tossica di anidride solforosa", ha detto il comandante Girolamo Bentivoglio. Secondo una prima ricostruzione, che dovrà essere supportata dai risultati delle autopsie e delle analisi chimiche, non c'è stata dunque un'esplosione della cisterna come si era pensato inizialmente. Gli operai avrebbero gettato dell'acido solforico in una vasca che conteneva già ammoniaca. Non indossavano le mascherine di protezione. Uno di loro è caduto e ha perso i sensi, gli altri sono morti nel tentativo di aiutarlo.
Per il pm di Rovigo Sabrina Duò, sono "evidenti" i "problemi di sicurezza all'interno della Co.Im.Po". "Errore umano? Tutto può essere – ha detto – ma dai primi elementi sembrerebbe che qui qualcosa non è stato rispettato sotto il profilo del ciclo di produzione. I primi soccorritori, cioè in vigili del fuoco, hanno riferito che nessuno dei quattro aveva dispositivi di protezione. Ora faremo tutti gli accertamenti possibili ed immaginabili, ma qui non è solo un problema di mascherine".
I vigili del fuoco non sono riusciti a entrare immediatamente nella fabbrica, il rischio di formazione di una nube tossica, poi scongiurato, ha rallentato le operazioni di soccorso, tanto il corpo senza vita di uno degli operai è stato scoperto a distanza di tre ore dall'incidente. Forse intossicato un vigile del fuoco è stato accompagnato all'ospedale di Rovigo per controlli precauzionali. Le centraline mobili dell'Arpav sono intervenute per monitorare l'aria e i carabinieri di Adria hanno 'blindato' l'area dell'incidente per i rilievi. Sul luogo sono arrivati anche i tecnici dello Spisal.

Il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, è arrivato a Rovigo per testimoniare il cordoglio del Governo per le quattro vittime. Il ministro ha ricordato che "nel 2011 sono state introdotte norme che richiedono una specifica qualificazione per le imprese e i lavoratori operanti in ambienti sospetti di inquinamento. Su questa problematica è stata anche programmata, nel corso di questi ultimi anni, una specifica azione di vigilanza congiunta fra ispettori del lavoro e ispettori Asl proprio per verificare le corrette modalità di esecuzione di tali delicatissimi lavori".
Sarà l'inchiesta della procura di Rovigo, aperta dal pubblico ministero di turno Sabrina Duò, ad accertare se vi siano stati errori o omissioni da parte di qualcuno degli operai e soprattutto se siano state rispettate da parte dell'azienda tutte le normative sulla sicurezza. "Onestamente – ha aggiunto Zaia – devo dire che non ci aspettavamo un incidente sul lavoro come questo, perché il Veneto è conosciuto ed apprezzato come una regione sicura. Con il bilancio attuale possiamo dire che questa è tra le più devastanti tragedie che il Veneto ha subito".

 

 

 

La Repubblica, 22 settembre 2014

 

 

 

Morti sul lavoro, chiesti 60 anni di carcere per i vertici della ditta tessile Marlane

 

 

 

Secondo l'accusa l'impianto di Praia a Mare (Cosenza) ha provocato la morte di 107 operai a causa delle procedure adottate per la colorazione e per lo smaltimento dei rifiuti. Chiesti 6 anni per Pietro Marzotto, 10 per l'ex sindaco Carlo Lomonaco

 

 

 

Le morti bianche dimenticate di Praia a Mare, in provincia di Cosenza, presto potrebbero avere giustizia. La Procura di Paola ha chiesto 60 anni di carcere al termine dell’istruttoria dibattimentale del processo “Marlane-Marzotto”. E’ durata oltre quattro la requisitoria dei pm Paola Sonia Gambassi e Maria Camodecache hanno auspicato 6 anni di reclusione anche per Pietro Marzotto, il conte di Valdagno ed ex presidente del gruppo che gestiva l’impianto tessile della Marlane. Una fabbrica dei veleniche ha provocato – secondo l’accusa – la morte di 107 operai per l’inquinamento dei terreni e delle acque e a causa delle procedure adottate per la colorazione dei tessuti e per lo smaltimento dei rifiuti della lavorazione.

 

L’accusa per Pietro Marzotto è di disastro ambientale. Per il procuratore Bruno Giordano, che ha lottato contro il tempo per garantire le udienze e per fare in modo che si chiudesse il processo entro i termini della prescrizione, i decessi e le malattie sarebbero stati causati dalle ammine aromatiche dei coloranti e dall’amianto sprigionato dai freni dei telai che i lavoratori respiravano senza alcuna protezione.

 

Oltre che per Marzotto, la Procura ha chiesto 10 anni di carcere per l’ex sindaco di Praia a Mare Carlo Lomonaco, un tempo responsabile del reparto tintoria della Marlane. Secondo i pm vanno condannati pure l’ex amministratore delegato del gruppo Silvano Storer (5 anni), Jean De Jaegher (5 anni), l’ex sindaco di Valdagno Lorenzo Bosetti che era consigliere delegato e vicepresidente della Lanerossi (5 anni), Vincenzo Benincasa (8 anni); Salvatore Cristallino (3 anni); Giuseppe Ferrari (4 anni e sei mesi); Lamberto Priori (7 anni e 6 mesi); Ernesto Antonio Favrin (5 anni); e Attilio Rausse (3 anni e sei mesi). Chiesta, infine, l’assoluzione per Ivo Comegna. Stando alla ricostruzione della Procura, un centinaio di operai sarebbero morti per tumori provocati dall’inalazione dei vapori emessi nella lavorazione dei tessuti, mentre le morti colpose contestate agli imputati sono complessivamente una quindicina.

 

Marzotto e i vertici della Marlane erano stati rinviati a giudizio nel novembre del 2010 al termine di una inchiesta della procura di Paola durata dieci anni. I periti incaricati dai magistrati avevano sostenuto che esiste un nesso di causalità tra la morte degli operai e le esalazioni tossiche sprigionate dai coloranti utilizzati nella produzione. Nonostante questo, la vicenda della “fabbrica dei veleni” calabrese non ha mai avuto la visibilità mediatica che meritava. Eppure, nel fascicolo del processo, ci sono le numerose testimonianze degli operai, i dati statistici che rivelano all’interno della fabbrica un’incidenza di tumori significativamente superiore rispetto al dato regionale (4% contro 0,003% secondo una perizia tecnica del 2008) e l’accusa di disastro ambientale per i rifiuti tossici rinvenuti dai carabinieri del Noe nelle vicinanze dello stabilimento del conte Marzotto. Si attende adesso la sentenza. Lucio Musolino.

 

 

 

Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2014

 

 

 

Roma: parteciparono a Presa Diretta, sospesi dal servizio. L'Usb occupa l’assessorato

 

 

 

I delegati sindacali dell’USB Ilario Ilari e Valentino Tomasone sono stati sospesi dal servizio in via cautelativa dalla loro azienda, la “Trotta Bus Service”, dopo essere stati intervistati dal programma di Rai 3 “Presa Diretta” per la puntata andata in onda domenica 21 settembre, dedicata ai problemi del trasporto pubblico.

 

Per protestare contro questi provvedimenti l’USB ha occupato la sede dell’Assessorato alla Mobilità del Comune di Roma, dato che la Trotta è una delle società facenti parte del Consorzio Roma Tpl, che gestisce in appalto il 30% del servizio bus nella capitale.

 

Nelle lettere inviate ai lavoratori si contesta la loro presenza in trasmissione senza alcuna autorizzazione da parte aziendale e l’aver rilasciato al giornalista inviato ‘dichiarazioni inerenti il parco automezzi aziendale circolante e la relativa manutenzione delle vetture altamente lesive dell’immagine dell’azienda”, spiega Walter Sforzini dell’USB.

 

Crediamo che le immagini trasmesse parlino chiaro – evidenzia Sforzini – i lavoratori non hanno rilasciato nessuna dichiarazione diversa da ciò che proprio le immagini hanno mostrato, ovvero una vettura guasta al capolinea, proprio durante l’intervento di un meccanico; un autobus che ad ogni inserimento di marcia scaricava l’aria dei servizi automezzo e rischiava di bloccare la vettura. Inoltre – prosegue il rappresentante USB – la risposta ad una domanda del giornalista in merito al rinnovo del parco automezzi, come previsto dal contratto di servizio stipulato con il Comune di Roma, è venuta non dalla bocca dei lavoratori, ma dal passaggio di un autobus, evidentemente molto in là con gli anni, che emetteva un intenso fumo nero dal tubo di scappamento”.

 

La sospensione dei nostri delegati, che potrebbe preludere al loro licenziamento, appare come un’azione di ritorsione nei confronti della nostra organizzazione sindacale, che da anni denuncia questo tipo di mancanze alle istituzioni responsabili del servizio. Alla luce di ciò l’USB chiede l’annullamento immediato delle sanzioni nei confronti dei delegati e l’attivazione delle necessarie verifiche sulla corretta applicazione del capitolato d’appalto con il Consorzio Roma Tpl”, conclude Sforzini.

 

 

 

Contropiano, 24 settembre 2014

 

 

 

Crolla un capannone in costruzione, due operai morti schiacciati da una trave

 

 

 

Tragedia durante i lavori per la costruzione della nuova ala della ditta Madel di Cotignola. Le vittime sono Matteo Buscarini, 35 anni, e Davide Bellini, di 36 anni, entrambi di Russi.

 

Cotignola (Ravenna), 25 settembre 2014 – Due operai edili sono morti in seguito a un crollo all'interno di un capannone in costruzione in via Torricelli a Cotignola, provincia di Ravenna.

 

Secondo una prima ricostruzione, l'incidente e' avvenuto durante i lavori per la costruzione della nuova ala della ditta Madel (che opera nel settore detersivi). I due sarebbero rimasti schiacciati da una trave che stava per essere montata alla sommità del nuovo capannone facendo un volo di 15-20 metri. Entrambi erano posizionati su una piattaforma aerea che è stata devastata dal pesante manufatto, che pare abbia provocato anche lo sfondamento di un sottostante solaio. Nel crollo, attorno alle 16, sarebbe rimastacoinvolta anche una gru. Un operaio sarebbe morto sul colpo, il secondo durante il trasporto in ospedale.

 

Le vittime sono Matteo Buscarini, 35 anni, e Davide Bellini, 36 anni, entrambi di San Pancrazio, frazione del comune di Russi ( Ravenna) a qualche chilometro dal luogo della tragedia. Buscarini lascia la moglie e due figli piccoli. Sono intervenuti mezzi del 118, dei Vigili del fuoco, i carabinieri del 112 e la medicina del lavoro.

 

Al momento del crollo del tetto del capannone, al quale stavano lavorando al montaggio, sul posto c'erano anche altri operai, che non sono pero' rimasti coinvolti nell'incidente. Il cantiere e' stato posto sotto sequestro: le indagini dei carabinieri sono coordinate dal sostituto procuratore di Ravenna, Isabella Cavallari. Cinque i capannoni previsti per l'ampliamento della ditta Madel (detersivi): solo uno era gia' stato terminato.

 

 

 

Il Resto del Carlino, 25 settembre 2014

 

 

 

Milazzo, incendio nella raffineria. A fuoco un milione di litri di carburante

 

 

 

Il rogo è divampato intorno a mezzanotte e 45 per cause ancora da accertare. Comune e Federpetroli rassicurano: "Nessun rischio per la popolazione". Le fiamme visibili nella notte a chilometri di distanza.

 

Un incendio di vaste proporzioni si è sviluppato all’interno della Raffineria Mediterranea di Milazzo. Secondo le informazioni diffuse dalla centrale operativa provinciale dei vigili del fuoco le fiamme, che si notano a diversi chilometri di distanza, riguardano un deposito che contiene un milione di litri di carburante. Non si registrano fino ad ora feriti. Sul posto stanno operando tre squadre dei vigili del fuoco provenienti da Milazzo e Messina, oltre a quelle del servizio di sicurezza della Raffineria. Secondo la centrale operativa la situazione in questo momento è “sotto controllo” e non è stato predisposto alcun piano di evacuazione della zona, anche se centinaia di famiglie che risiedono nella zona hanno preferito allontanarsi in auto per paura intasando le strade del comprensorio.

 

Il rogo è sviluppato intorno alle 0,45 per cause ancora da accertare; le fiamme, che si levano altissime, sono visibili per diversi chilometri dai comuni della fascia tirrenica del messinese. Al Comune di Milazzo il sindaco, Carmelo Pino, ha insediato il Coc (Centro operativo comunale), in stretto contatto con la Prefettura di Messina che coordina i soccorsi. Al momento è stato confermato che non vi è alcun pericolo per la popolazione e che i vigili del fuoco stanno raffreddando con getti d’acqua il serbatoio in attesa che si esaurisca il carburante. L’operazione potrebbe durare diverse ore. L’ultimo incidente grave alla Raffineria di Milazzo risale al 4 giugno 1993, quando in una esplosione all’interno dell’impianto Topping 4 morirono 7 persone.

 

Dopo l’incidente, FederPetroli Italia ha diffuso un comunicato: “Al momento l’incendio è domato dalle forze del Vigili del Fuoco e da altre squadre di sicurezza e si procede con intervento mirato sino ad esaurimento bruciatura prodotto presente nei serbatoi”, riferisce FederPetroli. “Il Comune di Milazzo e la Prefettura di Messina – si legge ancora – ci hanno confermato che nessun operaio o tecnico è rimasto ferito nell’incidente al serbatoio 513 e non è presente alcun allarme rosso. Nonostante la nube a seguito dell’incendio, non vi sono situazioni dannose per l’ambiente e l’aria circostante”.

 

La Raffineria di Milazzo dopo gli interventi negli anni scorsi sull’ammodernamento delle infrastrutture, risulta una delle più all’avanguardia a livello europeo con impianti di raffinazione di alta efficienza tecnologica. FederPetroli Italia sta monitorando la situazione con gli organi preposti fino a fermo diretto e stato di sicurezza dell’incidente”, conclude FederPetroli.

 

Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2014

 

 

 

Tragedia sul lavoro a Cremona: crolla un silo, due operai muoiono sepolti dal mais

 

L'incidente all'interno di un'azienda a Bonemerse. I vigili del fuoco sono intervenuti per il crollo della struttura che conteneva 700 chili di mais e hanno trovato i corpi di due uomini di 48 e 54 anni

 

Lo stabilimento dell'incidente MILANO – Due operai, Francesco Lissignoli (48 anni) e Giuseppe Vezzoli (54), dipendenti della Ferraroni Mangimi di Bonemerse (Cremona), sono morti schiacciati sotto almeno 300 tonnellate di mais fuoriuscito da un silos. Il dramma si è consumato nella tarda serata di venerdì: secondo la ricostruzione dei carabinieri, i due lavoratori erano addetti alla manutenzione dell'essiccatoio e sarebbe stato lo scricchiolio proveniente dalla cima del serbatoio a indurli ad avvicinarsi all'impianto per verificare l'origine del rumore. In un attimo la lamiera del gigantesco cilindro, contenente circa 700 tonnellate di cereali, si è squarciata nella parte superiore e una valanga di mais caldo, perché appena essiccato, si è riversata sui due uomini.

I soccorsi sono stati immediati, ma i vigili del fuoco arrivati da Cremona hanno impiegato un'ora e mezzo per estrarre i copri sepolti sotto le granaglie. I soccorritori si sono armati di pale da neve e hanno compiuto una disperata corsa per spostare la massa di mais, aiutati dagli altri operai accorsi in ditta assieme ai titolari, nella vana speranza di trarre in salvo i due operai. Mezz'ora dopo la mezzanotte, davanti alle due salme, i carabinieri di Sospiro (Cremona) e di Casalmaggiore hanno avvisato il magistrato di turno del tribunale di Cremona, Francesco Messina. L'impianto è stato posto immediatamente sotto sequestro. Occorrerà effettuare una perizia per stabilire le condizioni del silos e accertare eventuali responsabilità.

Francesco Lissignoli, separato e padre di due figli, abitava a Bonemerse. Giuseppe Vezzoli viveva a Stagno Lombardo (Cremona): lascia la moglie e una figlia di 27 anni. Tutta la loro carriera lavorativa si era svolta nell'azienda di Bonemerse. Il sindaco Oreste Bini ha annunciato il lutto cittadino nel giorno dei funerali. "Questa disgrazia getta nel dolore tutta la comunità – ha commentato -. Siamo vicini alle famiglie delle vittime e alla famiglia Ferraroni, che considera i propri dipendenti come figli. Entrambi erano originari di Bonemerse ed erano molto conosciuti e stimati".

 

 

La Repubblica, 27 settembre 2014

 

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