Nell’analizzare l’evoluzione della crisi greca e la gestione del suo decorso da parte della Troika si fa da sempre molta ideologia. Vi fa ricorso estremo la Troika, che ha costruito un pupazzo su cui infilare molti spilloni di comodo (“non sono professionali”, “inaffidabili”, hanno visuto al di sopra dei propri mezzi”, ecc), con l’appoggio acritico di tutti i media mainstream (fa eccezione il Financial Tiimes, spesso, ma stranamente nessuno lo prende ad esempio in questo solo caso). Vi fanno ricorso ovviamente i demagoghi semplificatori (“usciamo dall’euro” e basta, pensando alla svalutazione competitiva come panacea universale). Vi fa ricorso, nelle prese di posizione pubbliche, quasi per obbligo istituzionale, anche il governo Syriza, che deve barcamenarsi tra offensiva pressante dei “creditori”, condizioni di vita della popolazione intollerabili e un mandato eletorale – anche per sua responsabilità – da mission impossible: “restare nell’euro e nella Ue, ma mettere fine all’austerità”).
Sorvoliamo sui deficienti in tribuna – a destra come in certe aree della sinistra, persino “antagonista” – che sparano ricette immaginando quel che farebbero loro al posto di Tsipras-Varoufakis, ecc, senza conoscere altro che i numeri pubblicati dai giornali. Ovvero pochi, incompleti, estratti non per caso da un mazzo ben più folto.
La questione fondamentale è che ben pochi conoscono la struttura dell’economia ellenica. E se non sai con quale materia stai pasticciando rischi sempre di parlare al vento (se lo fai quando hai poteri decisionali, invece, fai danni epocali).
Proponiamo questa analisi tratta da http://www.eunews.it, che mette i piedi nel piatto e illumina anfratti bui, chiarendo buona parte dei “misteri” che circondano un sistema economico decisamente non standard.
Già il fatto che i 600 armatori greci fossero esentati per dettato costituzionale – la Carta scritta dai colonnelli golpisti, ancora in vigore – avrebbe dovuto sollevare numerosi dubbi sulle ricette “consigliate” dalla Troika. Come si fa, infatti, a imporre una politica fiscale deflazionistica a un’economia il cui settore trainante – per dimensioni, fatturato e profitti – non contribuisce quasi per nulla alle entrate dello Stato?
Da sinistra questa scandalosa esenzione è stata vista solo dal lato moralistico, una clamorosa ingiustizia. Come in effetti è. Ma è solo una parte del problema, e neanche la principale. Se il settore produttivo principale è addirittura fuori dalle statistiche ufficiali, di cosa stiamo parlando? Come si fa a calcolare qualcosa rispetto al Prodotto interno lordo (Pil) se questo dato è “svuotato” di una parte consistente del contenuto? Il deficit, il debito, il peso economico delle stesse “riforme strutturali” che la Troika pretende… Non c’ insomma soltanto qualcosa di ingiusto, ma soprattutto una deformazione falsificante dei dati economici.
E, bisogna dire, non risulta neanche troppo sorprendente. La “marina mercatile”, per sua natura, è internazionalizzata quasi quanto il capitale finanziario. E come quello è “logicamente” apolide. Il suo circuito si nutre di dollari, gira su “conti esteri” sottratti programmaticamente alla contabilità nazionale. Insomma: contribuisce ad aumentare la ricchezza di alcuni imprenditori, non di un paese.
La questione centrale è dunque che – qualunque decisione venga presa domani nel vertice tra i capi di stato, ovvero sia che il governo Syriza si arrenda di schianto, sia che si metta il moto la procedura di espulsione di Atene dalla Ue –, senza comprendere il peso della marina mercantile all’interno delle equazioni miranti a “salvare” o far “risorgere” la Grecia, ogni soluzione sarà inefficace.
“Comprendere”, in questo caso, va inteso in entrambi i sensi: “tener dentro” e “capire”.
Ci si può domandare: com’è possibile che gente economicamente competente come i vertici dell’Eurogruppo, la Bce, il Fmi, non abbiano “capito”? Basta ricordare che aimo in regime capitalistico: contano gli interessi, non le teorie. Anzi, le seconde sono sempre elaborate che corrispodano agli interessi. Se gli interessi della Troika sono, come sono, quelli del capitale multinazionale, Atene può anche morire.
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La Grecia: una superpotenza dell’export che non sa di esserlo?
di Thomas Fazi
Neanche il più accanito sostenitore della Grecia si azzarderebbe a definire “competitiva” l’economia ellenica. Non è forse vero che il paese esporta formaggio di capra e poco altro, e che la bilancia commerciale del paese è in deficit da decenni, in particolar modo dall’entrata del paese dell’euro? Al massimo ci si azzuffa sulle cause di questo deficit: burocrazia sclerotica, eccesso di regolamentazione e soprattutto salari e costi eccessivi, secondo la troika; gli squilibri generati dall’architettura dell’euro, secondo le schiere di critici dell’austerità. Sui numeri, però, concordano tutti. E se invece fossero proprio questi ad essere sbagliati?
Secondo un recente paper di Michael Bernegger, esperto di questioni finanziarie ed ex ufficiale della banca centrale svizzera, i dati relativi alla bilancia commerciale e al PIL della Grecia sono completamente distorti dal fatto che le esportazioni relative all’industria della marina mercantile – dagli anni sessanta il principale settore economico del paese – sono drammaticamente sottorappresentate nelle statistiche ufficiali. Se le esportazioni del settore fossero conteggiate correttamente, sostiene Bernegger, risulterebbe che fino al 2008 la Grecia ha registrato un notevole e crescente avanzo delle partite correnti, superiore anche a quello della Germania nello stesso periodo; e che nel 2008 il PIL del paese era superiore del 15% rispetto a quello ufficiale. Scrive Bernegger:
La verità è che la Grecia è un paese con un’industria dell’export molto grande e competitiva. La sua flotta mercantile è da più di quarant’anni la flotta più grande ed efficiente del mondo. Il suo settore turistico è tra i più forti d’Europa. Tra il 1999 e il 2008 il paese ha registrato uno straordinario boom delle esportazioni. Nessun altro paese dell’Europa occidentale, ad eccezione della Norvegia, ha registrato un tasso di crescita delle esportazioni lontanamente comparabile a quello greco.
Nelle statistiche ufficiali, però, di queste esportazioni non c’è traccia. Come è possibile? Si tratta di un problema che è noto almeno dagli ottanta, quando si è cominciato a parlare del “fenomeno della flotta mancante”. Esso ha a che vedere con l’esposizione valutaria, la regolamentazione e la tassazione del settore mercantile in Grecia. Sostanzialmente, prima dell’ingresso dell’euro, a differenza di quello che avveniva nel resto del mondo, lo Stato greco non calcolava i profitti esteri delle compagnie di navigazione come esportazioni. Solo i trasferimenti dai conti correnti esteri degli armatori (denominati in dollari, la valuta “ufficiale” del settore) – utilizzati per tutti i trasferimenti internazionali – ai conti correnti greci figuravano come esportazioni nelle statistiche nazionali. Queste cosiddette “rimesse” servivano a coprire i costi dei fattori produttivi domestici (i salari dei marinai, i contributi pensionistici, ecc.).
In seguito all’introduzione dell’euro, la situazione statistica è leggermente migliorata. Oggi, a differenza di prima, i trasferimenti verso la Grecia sono tutti contabilizzati; e una parte dei profitti all’estero degli armatori viene inclusa nelle statistiche ufficiali. Di conseguenza, la percentuale dei proventi delle esportazioni dell’industria mercantile che è coperta dalla bilancia dei pagamenti greca è passata dal 10% del 1999 al 25% circa del 2008. Ma la maggior parte delle esportazioni del settore continua a rimanere fuori dalle statistiche ufficiali. Gli stessi problemi concettuali esistono nel settore del turismo. Nota Bernegger:
L’industria dell’export greca è molto competitiva, e poiché è orientata verso quei settori dell’economia globale che registrano tassi di crescita superiori alla media è anche ben posizionata ad affrontare le sfide del futuro. Ma è poco diversificata, ed è basata quasi interamente su un settore, quello dei commerci marittimi, che è estremamente ciclico.
In seguito al 2008, infatti, il settore è stato esposto a un drastico crollo dei prezzi che ha colpito duramente tutti gli operatori. Nel 2014-15, le petroliere hanno registrato un calo nelle tariffe di trasporto del 30-40% rispetto alla media degli anni 2000, e le navi cargo addirittura del 70-80%. Rispetto ai picchi del 2008, si tratta di un calo del 50-95%. Anche nel settore alberghiero e della ristorazione i prezzi sono calati del 20% circa rispetto ai livelli del 2007-8. “La contrazione delle esportazioni greche, dunque, è un fenomeno di natura ciclica e settoriale. Nessun altro paese ha subìto un crollo delle esportazioni di questa magnitudine”, si legge nel paper.
Da quando è scoppiata la crisi finanziaria il commercio estero greco sta vivendo una dinamica deflattiva estrema. I due shock petroliferi del 2007-8 e del 2011-14 hanno rappresentato un fardello enorme per tutta l’economia greca, non solo per la sua flotta mercantile. Nessun’altra economia avanzata, infatti, è dipendente dal prezzo del petrolio quanto quella greca. Questa dipendenza riflette la natura marittima del paese: oltre ad avere la più grande flotta mercantile al mondo, la Grecia ha migliaia di isole che possono essere raggiunte solo via nave o in aereo, e questo vuol dire alti costi di trasporto. Inoltre, l’elettricità sulle isole è generata esclusivamente per mezzo di centrali a olio/gas combustibile. Da cui la pressione deflattiva estrema – e solo in parte registrata nelle statistiche ufficiali, per le anomalie di cui abbiamo parlato – esercitata sul commercio estero del paese dall’aumento del costo del petrolio.
“Si tratta, in sostanza, di un classico shock esterno causato dal drastico aumento del prezzo del petrolio dal 2007 ad oggi. Esso non ha assolutamente niente a che vedere con le dinamiche dei prezzi e dei costi interni della Grecia”, sostiene Bernegger.
A causa di questa errata interpretazione dei problemi del paese la troika ha formulato una risposta completamente sbagliata: ad una deflazione esterna estrema ha risposto con una politica di deflazione interna altrettanto estrema, senza pari nella storia moderna. Questa politica di deflazione interna è inappropriata per una serie di motivi:
L’industria delle esportazioni ellenica è molto poco sensibile ai costi interni, e dunque non ha ricavato nessun beneficio dalla drastica riduzione dei prezzi e dei salari greci: l’industria mercantile è fortemente dipendente dalla manodopera straniera (retribuita nella valuta del paese di provenienza), mentre quella turistica è in buona parte a conduzione familiare.
La politica di svalutazione interna ha peggiorato la posizione debitoria delle famiglie e delle imprese greche: a causa della riduzione dei prezzi e dei salari e dell’alto livello di disoccupazione i redditi nominali sono drasticamente diminuiti ma il valore reale del debito è rimasto inalterato, e dunque il suo valore reale è aumentato. Questo ha creato una situazione da deflazione da debiti (debt deflation).
Questa deflazione da debiti ha enormemente aggravato la crisi sistemica del settore bancario greco, che funge da “acceleratore finanziario” della crisi greca: l’esplosione delle sofferenze bancarie ha infatti determinato un credit crunch quasi totale e una crisi della liquidità che ha paralizzato tutta l’economia.
Il ruolo della politica fiscale nella crisi è stato fortemente sopravvalutato. Un consolidamento del settore pubblico era necessario, è vero, ma la maniera brutale in cui è stato implementato dalla troika ha avuto effetti estremamente negativi e distorsivi sull’economia: chi già pagava le tasse oggi ne paga ancora di più, ottenendo in cambio minori servizi. Questo ha creato un enorme incentivo all’evasione fiscale. Per non parlare di tutti quelli che non possono più permettersi di pagare le tasse a causa della situazione economica. Tutto questo si sarebbe potuto evitare requisendo una parte delle tasse evase parcheggiate nei conti offshore.
La conclusione di Bernegger è chiara: “La politica di svalutazione interna della troika ha messo in moto un processo di deflazione da debito che, sommandosi alla severa deflazione esterna già in corso nel settore più importante dell’economia, quello del commercio navale, ha ridotto l’economia greca allo stremo”.
Che opzioni ha il paese di fronte a sé a questo punto? Un’uscita dall’euro, secondo l’autore del paper, danneggerebbe le due principali industrie dell’export greche, quella mercantile e quella turistica. L’industria marittima non beneficerebbe per nulla da una svalutazione poiché la maggior parte delle entrate e delle spese del settore sono in dollari. Entrambe le industrie sono ad alta intensità di capitale e dunque abbisognano di tassi di interesse bassi e stabili e di una buona offerta di credito. Un ritorno alla dracma implicherebbe tassi di interesse alti e volatili. “Per prosperare, queste due industrie hanno bisogno di un sistema bancario capace di garantire un’offerta di credito a tassi di interesse bassi e stabili, che solo la permanenza della Grecia nell’euro può garantire. Ma perché questo sia possibile, è necessario rompere subito il braccio di ferro con i creditori per evitare una corsa agli sportelli e il collasso definitivo dell’economia greca”, sostiene Bernegger. “Di per sé, continuare con le politiche di consolidamento fiscale e le ‘riforme’ della troika non farà che aggravare il processo di deflazione da debito in corso”.
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