La storia dello Stato coloniale sionista in Palestina si caratterizza per l’incessante susseguirsi di violenza da esso perpetrata ai danni di coloro ai quali quella terra appartiene. Tale affermazione, sconveniente per chi ha creato il mito sionista e per i sionisti liberal che coltivano la fantasia di un Israele redimibile, non è opinabile. Si tratta di un fatto storico, minuziosamente documentato e incontrovertibile: solo ignoranza, pregiudizio o mero razzismo possono negarlo.
È certamente puntuale affermare che lo Stato coloniale sionista in Palestina si basi costitutivamente sull’attuazione di una serie continuativa di violenze. La caratteristica distintiva, intrinseca e fondamentale, sulla quale si è forgiata la sua esistenza, adesso inevitabilmente confermata, è quella della violenza sistematica attuata soprattutto, ma non solo, contro il popolo palestinese derubato della propria terra.
Tale violenza si manifesta in tutte le forme immaginabili, spesso inimmaginabili: dall’attuale, feroce genocidio di Gaza ad atti quotidiani e profondamente subdoli di aggressione, umiliazione, oltraggio e tortura psicologica.
Dal 7 ottobre 2023, la condizione di perenne e totale violenza ha raggiunto una forma palesemente genocida, nettamente estrema rispetto a quella riconducibile alle cronache degli ultimi decenni. Sebbene i paragoni storici siano spesso impropri, è lecito sostenere che il catastrofico assalto di Israele a Gaza abbia superato, per vari aspetti, la portata e la gravità della violenza e della distruzione che ebbero luogo durante la Nakba nel 1948.
In quella piccola striscia costiera della Palestina, sono stati commessi atti di violenza così feroci, spietati e inauditi che i rapporti che li documentano necessitano più di una lettura per poter anche solo iniziare a rendersi conto dell’esatta entità dell’orrore compiuto e in essi descritto.
Paradossalmente, nonostante Israele abbia impedito ai giornalisti di entrare a Gaza e abbia sistematicamente assassinato i giornalisti palestinesi e i loro congiunti ivi residenti, alcune delle prove più scioccanti delle atrocità compiute sono state volutamente prodotte dagli stessi responsabili.
Con sadica ilarità, i soldati israeliani – intenti a saziare gli appetiti di un pubblico fascista e connazionale, affamato di sangue e umiliazione ai danni dei palestinesi resistenti – hanno essi stessi pubblicato sui social media testimonianze dei loro sordidi crimini. Entrambi, militari e spettatori immorali, fervidi sostenitori della violenza genocida scatenata, aspirano a riaffermare quel brutale dominio psicologico che gli Stati colonizzatori impongono alle popolazioni colonizzate.
L’iniziale successo militare dell’operazione al-Aqsa Flood del 7 ottobre ha però minato le fondamenta di tale dominio, che poi è risultato ulteriormente compromesso dal fallimento militare di Israele contro la resistenza di Gaza.
In questo momento, pieno di dolore e speranza, sono quattro i punti fondamentali riguardanti il contesto della solidarietà che, mai come ora, sollecitano le mie riflessioni. È necessario ribadirli alla luce di alcune tendenze, latenti o palesi, che si sono manifestate internamente al movimento di solidarietà per la Palestina.
Mi riferisco all’attribuzione di una crudele eccezionalità riferibile al solo Benjamin Netanyahu, alla condanna della resistenza armata palestinese e alla pedante critica rivolta agli slogan utilizzati dai movimenti di solidarietà studentesca: si tratta, in tutti i casi, di atteggiamenti accomodanti nei riguardi del sionismo, perciò dannosi perché offuscano la natura della lotta contro di esso e la modalità con cui verrà sconfitto.
1. I Palestinesi hanno diritto alla resistenza armata
Contrariamente all’ontologia violenta e coloniale che vuole i Palestinesi un non-popolo, immeritevole di vita e dignità, occorre ricordare che essi non solo esistono come popolo ma hanno il diritto morale, legale e umano di difendere tale esistenza, di resistere a espropriazioni, colonizzazione e genocidio in corso e di perseguire la loro liberazione nazionale con ogni mezzo necessario, compresa la lotta armata. Qualsiasi cosa possa dichiarare la Corte Penale Internazionale o altra istituzione occidentale, non c’è paragone o equivalenza che regga tra la violenza attuata dall’oppressore e quella esercitata dall’oppresso.
Ho già scritto a sostegno del diritto inalienabile dei Palestinesi a perseguire la resistenza armata nel giugno 2021, sulla scia di Sayf al-Quds (“La spada di Gerusalemme”), una battaglia che per molti versi ha prefigurato ciò che poi è accaduto. Se ne fossi stato consapevole all’epoca, avrei incluso nel mio saggio le potenti parole di Rachel Corrie inviate a sua madre poche settimane prima di essere uccisa da un bulldozer militare israeliano a Gaza nel 2003:
Se subissimo una vita e una socialità completamente soffocate, se vivessimo con bambini in spazi che vanno restringendosi perché, per pregressa esperienza, consapevoli del fatto che soldati, carri armati e bulldozer possono sopraggiungere in qualsiasi momento e distruggere le serre pazientemente coltivate, mentre altri tra noi vengono picchiati e imprigionati… Non pensi che cercheremmo di usare mezzi anche violenti per proteggere quel poco che ci rimane? Penso a questo soprattutto quando vedo orti, serre e alberi da frutto distrutti: semplicemente, anni di cura e coltivazione in fumo. Penso dunque a voi, a quanto tempo ci vuole per far crescere le cose, a quanto questo sia un lavoro amorevole. Penso davvero che, in una situazione simile, la maggior parte delle persone si difenderebbe a ogni costo. Penso che zio Craig lo farebbe. Penso che, probabilmente, lo farebbe la nonna. Penso proprio che lo farei anch’io.
2. Il sionismo è irredimibile
Nell’esprimere sostegno alla causa palestinese e nello sfatare l’opera di propaganda a essa avversa, non va concesso nemmeno lo spazio di un centimetro a illusioni, pregiudizi e alla cinica manipolazione emotiva dei sionisti. Sentimenti ed espressioni di conforto espressi da un sionista meritano la stessa considerazione e la stessa riverenza che si devono a un fascista: nessuna.
Il sionismo non è un’identità culturale benigna o un credo religioso; è un’ideologia politica assassina, coloniale e intrinsecamente razzista che deve essere isolata, contrastata e sconfitta.
Se tale enunciato dovesse risultare scioccante o indelicato, significa solo che il lettore non ha ancora compreso fino a che punto arrivi il sionismo in quanto forma di fascismo e supremazia bianca.
3. Non addolciremo i nostri slogan
Nessuno slogan degli oppressi, realmente autentico, potrà mai risultare gradito agli oppressori. Perciò, qualsiasi sedicente sostenitore attento a mitigare o, addirittura, criticare gli slogan delle aspirazioni fondamentali e materiali del movimento di liberazione palestinese è da considerarsi estraneo all’obiettivo della liberazione. Di conseguenza, le sue opinioni vanno ignorate.
4. “Israele” deve finire
L’entità sionista comunemente nota come Israele è un progetto coloniale d’insediamento sostenuto, per i propri scopi, dall’imperialismo statunitense. Si tratta di una presenza temporanea sulla terra palestinese, siriana e libanese, che sarà sconfitta fino alla sua conclusione. La liberazione sarà ottenuta principalmente per merito di coloro che per essa lottano sul campo ma, fino a quando non arriverà quel giorno in cui lo Stato coloniale sionista non esisterà più, è compito di ognuno supportare la lotta palestinese per il proprio diritto a esistere e per la definitiva liberazione in tutti i modi che le nostre responsabilità, le nostre capacità e le circostanze lo consentiranno.
From the River to the Sea, Palestine Will be Free
* Storico, scrittore. Editor di Liberated Texts e di Ebb magazine
Traduzione di Pasquale Liguori
Pubblicato il 24 maggio 2024 da MONDOWEISS
https://mondoweiss.net/2024/05/four-points-on-solidarity-after-the-gaza-genocide/
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Andrea Vannini
Articolo bellissimo.