Imponente manifestazione contro le condizioni carcerarie dei detenuti politici, il super carcere di Voghera era noto per essere tra i più duri sotto ogni punto di vista, organizzata dai Comitati dei familiari ed appoggiata dal Partito radicale.
Partecipano più di 1000 persone provenienti da tutta Italia e tre giovani romani diretti alla manifestazione muoiono carbonizzati nella loro auto travolta da un Tir.
Si tratta di Valeria Scialabba, sorella di quel Roberto, assassinato a Roma in via Don Bosco il 28 febbraio 1978 dai neo-fascisti e futuri NAR Valerio e Cristiano Fioravanti, Franco Anselmi e Alessandro Alibrandi, e di Stefano Latrella ed Eleonora Gianmarino.
Si scatena per le vie della città una violenta repressione con scontri e quant’altro, al termine della quale ci saranno un centinaio di fermati e tre arresti, e tre anni dopo, il 25 febbraio 1986, inizierà un processo penale a carico dei manifestanti.
Grazia Grena, in una intervista del 2003 a Gianni Saporetti pubblicata su “Una città“, ha raccontato che: “All’ ingresso il denudamento, i piegamenti, la doccia, la divisa, i cancelli, le parolacce, la musica a tutto volume. Volevano destrutturare la nostra persona.
Volevano impedire che arrivando si sentissero le voci delle donne, delle compagne che erano alle finestre. Dopo ogni arresto, infatti, facevano i turni giorno e notte in finestra per verificare chi arrivava, di modo che ci fosse un controllo e nessuna venisse persa.
Allora si veniva subito chiuse in una cella e la musica a tutto volume doveva impedirci di parlare con le compagne alle finestre. Da lì si veniva portate nella cella di isolamento, attraversando una miriade di cancelli che facevano “beep beep” ogni volta che si aprivano.
E lì, però, almeno si cominciava ad avere a che fare con le compagne che stavano nei piani superiori, il che ci faceva sentire meno sole, facevamo parte nuovamente di una comunità. Già, sentire le voci delle compagne è stato importantissimo.
Poi le 23 ore in cella, un’ora d’aria in 5 o 6 per volta, e con chi lo decidevano loro, tutto ti veniva detto al microfono. La presenza umana, anche della guardiana stessa, doveva essere ridotta al minimo.
Eravamo belve, quindi ci parlavano con i microfoni e ci guardavano dappertutto con le telecamere. In doccia c’era la telecamera. Era il primo carcere moderno in Italia, dove, però, tutti gli spazi di socialità previsti erano stati chiusi e in pratica funzionava solo la cella e il cortile dell’aria.
Allora c’era l’articolo 90. L’articolo 90 è il 41bis di adesso: non ci si poteva scrivere da carcere a carcere, i colloqui avvenivano solo con i familiari e attraverso il vetro, niente pacchi, niente libri.
Davano le mutande contate, le canottiere contate, i vestiti contati e le scarpe contate. Una biro blu, niente pastelli, matite, orecchini, nulla.
Mi ricordo che alle orecchie portavamo il filo da cucire colorato, per contrastare il grigiore. Non avevamo fornelli. Facevamo il caffè usando la carta del sacchetto del pane che veniva consegnato la mattina per fare una torcia e con quella riscaldare il latte nel tetrapack.
Non oso immaginare le schifezze che ci siamo bevute. Le celle erano singole, tutto era singolo. Per 23 ore uno stava solo. E però avevamo la nostra vita in finestra.
Devo essermi presa lì la mia tremenda cervicale, perché stavamo giorno e notte in finestra. Era l’unico modo per parlare, almeno con le vicine di finestra, oppure, sgolandoci, anche da sezione a sezione. Quello è il ricordo più netto: noi attaccate alle finestre.
Per parlarci invece di nascosto c’era “radio carcere”, parlavamo con i tubi del bidé o del cesso delle celle confinanti. Poi per protestare facevamo la battitura con le scarpe, perché non avevamo padelle.
La battitura è un momento di lotta del carcere e allora si batteva con le scarpe, e ci toglievano le scarpe, si batteva con le scope e ci toglievano le scope, non avevamo più nulla.
Con la scopa, quando me la lasciavano, ero poi riuscita ad aprire lo spioncino, che altrimenti solo la guardiana apriva, ma io ero riuscita a far scattare la molla e quindi a farlo rimanere aperto per fare corrente.
Mi avevano minacciato, ma pian piano sullo spioncino cominciarono a mollare perché c’erano 40 gradi nelle celle e qualcuna sveniva. Alla fine ottenemmo di tenerlo aperto, ma al decimo svenimento“.
*da Facebook
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