Diversi episodi tra cronaca e politica, in queste settimane, hanno reso urgente rispondere a una domanda: come viene selezionata la classe politica nel neoliberismo Occidentale di questo terzo millennio?
L’importanza è evidente: qualsiasi ipotesi di governo sociale – conservatrice, “riformista” o rivoluzionaria – non può prescindere dall’analisi dei meccanismi attraverso cui problemi e interessi sociali vengono “tradotti” oppure rifiutati in programmi, leadership, rappresentatività.
Tra i molti episodi ne abbiamo scelti due, che non a caso hanno ricevuto una copertura mediatica mainstream assai diversa. Il primo riguarda il presidente francese Emanuel Macron – ampiamente “minimizzato” per non sollevare troppe inquietudini – e l’altro, quasi ovviamente, Aboubakar Soumahoro, su cui invece si sono buttati tutti gli avvoltoi possibili.
Partiamo dal caso di “alto livello”. Al di là delle dietrologie e dei sempreverdi complottismi, l’inchiesta aperta dalla magistratura francese sui rapporti tra Emanuel Macron e la società americana McKinsey illumina meccanismi altrimenti sempre avvolti nella nebbia dell’ignoranza, tra onde di sospetto mai comprovabile.
Stavolta invece abbiamo a che fare con fatti concreti – un po’ come ai tempi di Tangentopoli in Italia – perché la Procura nazionale finanziaria (Pnf) francese da circa un mese sta lavorando su due inchieste. La prima sulle “condizioni di intervento delle società di consulenza nelle campagne elettorali del 2017 e del 2022”, la seconda sui presunti “favoritismi” di cui avrebbero beneficiato tali società successivamente alle due elezioni successive dello stesso Macron.
In pratica, queste società avrebbe finanziato e organizzato entrambe le campagne elettorali dell’attuale inquilino dell’Eliseo, ricevendo come compenso una serie di contratti di consulenza pagati dallo Stato. Pare senza gara di assegnazione e comunque per importi alquanto rilevanti: oltre un miliardo di euro.
Per la legislazione francese, comunque, Macron non rischia nulla fin quando resta presidente. Dunque sgomberiamo il campo dalle illusioni che queste inchieste aprano chissà quale nuova fase politica Oltralpe.
Però il “meccanismo” è molto interessante, perché appare comune a tutte le autodefinite “democrazie” occidentali.
Vediamo i dettagli.
McKinsey è una multinazionale statunitense specializzata in “consulenza manageriale all’alta direzione, che serve le maggiori aziende a livello mondiale”. In pratica una king maker che crea, istruisce e “piazza” amministratori delegati, presidenti, dirigenti di alto livello, in campo finanziario, industriale… e politico.
Organizzare una campagna elettorale per le presidenziali francesi è certamente costoso – da alcune decine a qualche centinaio di milioni di euro – ma altrettanto certamente remunerativo, se “il tuo candidato” raggiunge il risultato. Un gioco che vale assolutamente la candela…
Anche perché i contratti di consulenza spuntati successivamente sono solo una parte dei benefici che se ne possono trarre. Anzi, sono addirittura la parte meno importante. Basti pensare agli effetti delle scelte legislative in materia finanziaria, fiscale, ecc, che un presidente della Republique può mettere in moto.
Bisogna dire che la figura stessa di Emmanuel Macron sembra disegnata per corrispondere all’icona del “servo dei padroni”. Un giovane laureato all’Ena (la scuola di formazione degli “amministratori pubblici” in Francia, da cui passano quasi tutti i politici d’Oltralpe), poi funzionario della banca Rotschild, che viene chiamato da Francois Hollande a ricoprire prima la carica di vicesegretario dell’Eliseo e quindi quella di ministro dell’economia.
Una carriera fulminea che usa per demolire il Partito Socialista (cui era formalmente iscritto) e fondare la sua Republique en marche replicando – con maggior successo – lo schema di Matteo Renzi con il Pd.
Nel breve volgere di pochi mesi si guadagna la fama di presidente dei ricchi. E non è un’accusa campata in aria, ma comprovata dalla pubblicazione delle retribuzioni dei patron dei grandi gruppi francesi, che nel 2021 hanno registrato un record.
Con quei “consulenti” alle spalle, del resto, sarebbe stato difficile fare qualcosa di diverso…
Questo binomio tra gruppi multinazionali e politici di alto livello distrugge e bypassa il “corpo intermedio” che aveva fatto da pilastro per la politica nel Novecento: il partito politico (di qualsiasi tendenza), radicato nel territorio e nei principali settori sociali di riferimento.
Ma se questo binomio annienta la macchina che in precedenza costruiva il consenso verso determinate idee e programmi, allora necessita – per conquistare le menti e i cuori del cittadini-elettori, sia pur provvisoriamente – di un solido presidio dei principali media del paese, a loro volta sotto il pieno controllo proprietario di altri gruppi industriali o finanziari.
Che possono perciò o contrattare iniziative legislative in cambio del proprio appoggio, oppure aprire una “guerra” per favorire l’emersione di altri “personaggi politici” (inventati o meno) in grado di “competere” per le cariche più alte.
Niente di nuovo sotto il sole, potremmo dire.
Certo, ma che sia questa la situazione in cui avviene qualsiasi campagna elettorale, a qualsiasi livello, dovrebbe aiutare le forze della “sinistra radicale” a comprendere (e superare) la follia depressiva in cui sono cadute nell’ultimo ventennio.
Quello in cui hanno costantemente cercato, ad ogni scadenza, di individuare un “personaggio da cui ripartire”, una sorta di “salvatore della sinistra” in grado di produrre – con la sua sola presenza – risultati elettorali molto migliori di quanto la propria, scarsa, presenza sociale possa garantire. Per poi scoprire che non funziona, anzi…
E qui arriviamo al “caso Soumahoro”, al lato opposto della scala del potere, che illumina invece il miserrimo escamotage tipico nella “vecchia sinistra” e il consapevole distacco tra queste formazioni e “il popolo” (comprese le sue componenti di “recente immigrazione”).
Abou è stato candidato solo quando si era completata la sua trasformazione da sindacalista vero e semplice in “icona” mediatica simboleggiante il mondo dei braccianti, tramite il lungo e sapiente lavorio del duo Damilano-Zoro (ovvero del gruppo L’Espresso – ora passato in mano alla famiglia Agnelli-Elkann – e del gruppo Cairo-Corriere della Sera).
Candidato insomma in quanto “personaggio noto”, “nome spendibile”, etichetta di richiamo su un prodotto vecchio e ammuffito (Sinistra Italiana più Angelo Bonelli & co.). In altre parole: candidato non perché era un sindacalista, ma perché aveva smesso di esserlo.
Cerchiamo di esser chiari. C’è un bisogno disperato, per le classi popolari, di una rappresentanza politica vera, in grado di far valere gli interessi degli sfruttati in qualsiasi sede, anche istituzionale, per moltiplicare le occasioni di generalizzazione del conflitto e la costruzione di un progetto di trasformazione radicale.
In questa chiave è ovvio che le “avanguardie delle lotte” costituiscono il meglio che si possa mettere in gioco anche in un processo elettorale. Con la ragionevole certezza – nulla di assoluto, ma con qualche probabilità in più – che “non tradiscano la fiducia degli elettori” alla prima occasione. Il loro legame con i rispettivi settori sociali è quello che li rende “rappresentativi” non di se stessi, individualmente, ma ma di figure sociali più o meno estese.
I “personaggi noti per la loro fama”, invece, galleggiano tra le onde di un sistema mediatico controllato da altri (come abbiamo visto nel caso Macron), che solleva o annega in un attimo chi torna utile e chi smette di esserlo.
A che pro tutto questo “ragionare”?
Ad eliminare, il prima possibile, quelle assurde illusioni che da venti anni, ormai, trascinano “la sinistra radicale” a ripetere sempre lo stesso schema suicida: un cartello elettorale abborracciato all’ultimo momento, slegato da qualsiasi conflittualità sociale reale, e appeso alle paturnie volatili del “personaggio famoso” (o almeno “conosciuto”) di turno.
C’è un “sistema” industriale, finanziario e mediatico che controlla i processi elettorali e ne determina largamente i risultati. Chi vuole cambiare davvero qualcosa, in questo mondo, deve costruire la forza sociale che permette di rompere questa gabbia. E non si fa con il solo marketing furbesco…
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Giancarlo Staffo
“C’è un “sistema” industriale, finanziario e mediatico che controlla i processi elettorali e ne determina largamente i risultati. Chi vuole cambiare davvero qualcosa, in questo mondo, deve costruire la forza sociale che permette di rompere questa gabbia. E non si fa con il solo marketing furbesco”.
Aggiungerei, una forza sociale e militante, con un chiaro progetto alternativo di società in totale rottura con l’ordine unipolare esistente.
ndr60
Un articolo lucidissimo: “candidato non perché era un sindacalista, ma perché aveva smesso di esserlo.”, ovvero reso innocuo per il sistema che lo candida, e lo coopta fin dall’inizio, per scaricarlo se non serve più.