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Il vero rischio debito è quello di Obama

Il motivo? La minaccia dei repubblicani di bloccare la legge per elevare il limite massimo di debito consentito oltre i 14,3 trilioni di dollari attuali. Siccome il debito Usa presto supererà quella soglia, in assenza della legge un’obbligazione a breve termine in scadenza il 4 agosto, del valore di 30 miliardi, non potrà essere ripagata. Il problema è che i repubblicani, in cambio di un loro voto favorevole, chiedono che Obama, anziché alzare le tasse (in particolare ai ricchi), tagli pesantemente la spesa pubblica. Obama sembra tenere il punto sulle tasse, ma la scorsa settimana è parso invece disponibile a tagliare la spesa pubblica: “Dobbiamo tagliare le spese che non possiamo permetterci in modo da riportare l’economia su basi più solide”. Questa dichiarazione ha sconcertato molti dei suoi sostenitori. Il premio Nobel Krugman l’ha contestata: “Il tentativo di giungere al pareggio di bilancio in tempi di crisi economica è una ricetta per peggiorare la crisi. Tagli alle spese effettuati oggi non riporterebbero l’economia ‘su basi più solide’: ridurrebbero la crescita e aumenterebbero la disoccupazione”. Anche Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, parlando davanti alla Commissione economica del Congresso Usa, ha affermato che tagli immediati alle spese rallenterebbero l’economia. Anch’egli si è detto preoccupato per la disoccupazione, oggi oltre il 9 per cento.
I dati governativi più recenti confermano che questo è il problema numero uno per gli Stati Uniti. L’occupazione a giugno è cresciuta di appena 18 mila unità (e il dato di maggio è stato rivisto al ribasso, da 54.000 a 25.000 nuovi occupati). Non solo: diminuiscono le ore lavorate per addetto, e il tasso di occupazione è sceso al 58,2% (il minimo trentennale). Una ricerca di McKinsey ha offerto un quadro a dir
poco allarmante: dal dicembre 2007 gli Stati Uniti hanno perso oltre 7 milioni di posti di lavoro, e gli Usa torneranno prima del 2020 ai tassi di disoccupazione pre-crisi soltanto nello scenario più ottimistico (che è molto improbabile): si tratta del tasso di recupero più lento del dopoguerra. Ciò che è peggio, la ricerca di McKinsey inserisce quanto è accaduto negli ultimi anni in una tendenza di più lungo periodo.
In particolare, dal 2000 in avanti la creazione di nuovi posti di lavoro è stata di gran lunga inferiore alla media dei 40 anni precedenti. Per quanto riguarda poi le imprese manifatturiere questo decennio evidenzia un saldo negativo di 5,6 milioni di posti di lavoro, e la ricerca ritiene che nella migliore delle ipotesi l’emorragia si arresterà; nello scenario peggiore di qui al 2020 si perderanno altri 2,3 milioni di posti di lavoro.
Secondo un altro studio, pubblicato a marzo dal premio Nobel Michael Spence con Sandile Hlatshway, praticamente la totalità della crescita dell’occupazione (il 97,7 per cento) nel periodo 1980-2008 ha riguardato settori non esposti alla concorrenza internazionale. La parte del leone l’hanno fatta il pubblico impiego (che nel 2008 occupava 22,5 milioni di lavoratori) e il settore della sanità (16,3 milioni). Il problema, oggi, è proprio questo. E’ infatti evidente che i tagli alla spesa pubblica ridurranno l’occupazione proprio in questi settori (dal 2008 gli  organici del pubblico impiego sono già stati ridotti di 500 mila unità e anche il settore sanitario è sotto attacco). Non solo. Al termine dello studio, gli autori insistono sul fatto che i problemi dell’occupazione negli Stati Uniti non possono essere considerati un “fallimento del mercato”, ma il risultato di un funzionamento più efficace dei mercati a livello mondiale. E quindi “ritenere che i mercati siano di per sé in  grado di risolvere questi problemi non è una buona idea”. Ma quali politiche possono essere messe in atto per impedire che acceleri la tendenza al trasferimento all’estero di lavori sempre più specializzati, mentre per contro (è notizia di pochi mesi fa) i call center di Wipro e Tata Consultancy Services tornano dall’India negli Stati Uniti? Le proposte degli autori sono queste: investire in alta formazione, sostenere la ricerca di base, privilegiare investimenti in grado di espandere i settori esposti alla concorrenza internazionale e di migliorare le infrastrutture, infine riformare il sistema fiscale in modo da favorire questi investimenti a scapito di altre agevolazioni pubbliche.
Con forti tagli al bilancio pubblico però tutto questo non si può fare. Da questo punto di vista, i tagli alla spesa non soltanto aggravano la crisi, come dice Krugman, ma ipotecano la crescita futura. Negli Stati Uniti e non solo.

 

Pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 13 luglio 2011

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1 Commento


  • martelun

    chiedo scusa in anticipo, non so come mettermi in contatto con vladimiro giacchè in quanto gli vorrei chiedere se posso mettere a puntate sul mio blog la sua premessa del libro “il capitalismo e la crisi”, quindi approfitto di questo luogo per lanciargli questo messaggio.
    il blog in questione è: http://www.progettoalternativo.com

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