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Dopo 20 anni, il muro ideologico

In tutto il mondo, il capitalismo è entrato in una crisi priva di sbocchi. Non gli è rimasta altra scelta che sprofondare in un caos ecologico e sociale oppure accettare la rinuncia alla proprietà privata dei mezzi di produzione e quindi il socialismo. Ambedue le alternative significano la sua fine». Non sono parole dettate dalla cronaca ma pronunciate mentre cadevano ancora gli ultimi mattoni del muro di Berlino e la polvere sollevata sembrava far intravedere (ai più) le magnifiche sorti e progressive del capitalismo. Era l’inizio dell’inverno del 1992 ed Erich Honecher sosteneva la propria autodifesa (e delle ragioni dell’allora socialismo possibile) davanti al tribunale di Berlino. «Qui non si prosegue la guerra fredda, – continuava Honecher – ma si vogliono gettare le fondamenta di un’Europa dei ricchi. L’idea della giustizia sociale deve essere soffocata una volta per tutte. Bollarci come assassini serve a questo».

Può anche darsi che il capitalismo non si abbatta in modo definitivo e che il nocciolo storico-politico consista nel governo di classe di un modo di produzione che se diretto dalle forze del proletariato determina la transizione socialista e il suo superamento mentre, al contrario, se è guidato dalla borghesia è sacralizzato attraverso una metafisica ideologica che di ristrutturazione in ristrutturazione fa apparire necessario per tutti ciò che, invece, è necessario solo per il mantenimento del privilegio di alcuni. Consapevolmente o meno si è ancora pienamente dentro questo conflitto: la borghesia ha impiegato quattrocento anni per raggiungere e consolidare la propria posizione dominante e oggi è chiaro a tutti quanto fosse appunto ideologico e, quindi, per nulla scientifico sostenere le tesi sulla fine della storia.

Che i dirigenti della DDR, del Patto di Varsavia, dell’URSS abbiano commesso errori non c’è bisogno di udirlo dalle frequenze del campo imperialista e poi scimmiottarlo; basta ascoltare la storia quando parla di vittorie e di sconfitte (non di fallimento che è ben altra cosa e riguarda l’incapacità strutturale e sistemica del capitalismo di soddisfare i bisogni reali) e assumersi in pieno, riportando così il lavoro teorico dei comunisti sull’analisi materialistica dei processi in atto (altro che culto della personalità), tutta la tragicità di un grande tentativo di costruzione di un mondo diverso e migliore, finito sì male ma senza rinnegare le conquiste che il movimento comunista internazionale ha comunque rappresentato per l’intera umanità. Come quando prima con Mussolini e dopo con Hitler il sistema liberale aveva garantito l’avvento al potere di quelle forze e di quegli uomini che sembravano l’argine migliore contro l’avanzata delle classi popolari: Vittorio Emanuele III con l’avallo di Churcill nel ’22 e Hindenburg nel ’33 davano corpo alla tesi gramsciana sul sovversivismo delle classi dirigenti. Ancora: dopo la guerra e la liberazione, gli apparati di stato di quel sistema erano in parte sopravvissuti tanto da consentire ad alcune delle strutture e degli uomini coinvolti il riciclaggio in una nuova forma istituzionale. Furono le lotte dei comunisti a realizzare un progressivo ampliamento degli spazi democratici e una più compiuta partecipazione dei lavoratori ai destini della loro nazione.

La messa al bando dei comunisti è sempre stato il primo passaggio di quel sovversivismo.

Tra venti o trenta anni (sono questi i tempi cui rapportarsi realisticamente) la rivoluzione atlantica che aveva portato al governo del mondo la borghesia occidentale sarà sempre più nella sua parabola discendente; altri paesi detteranno il ritmo dei tassi di crescita e non perché la delocalizzazione produttiva (cioè un costo del lavoro più basso dato dalla parziale e contestualizzata affermazione del capitale sul lavoro in alcune aree del pianeta) avrà attirato gli investimenti e le risorse maggiori del capitalismo occidentale, quanto piuttosto perché si tratta di paesi basati su un modello di sviluppo diverso, per quanto non omogeneo.

Perché rileggere con attenzione, allora, dopo quasi venti anni l’autodifesa di Honecher?

Perché inserita in questo breve segmento di storia del mondo e, dunque, del conflitto di classe è essa stessa un momento di questa battaglia e dello scontro teorico come parte della lotta di classe.

Il giudizio del tribunale di Berlino contro la DDR voleva essere la proclamazione della vittoria assoluta del capitalismo sulle ragioni del socialismo e, contemporaneamente, l’investitura dell’unico e del migliore dei mondi possibili. Estirpando, così, alla radice l’idea che la vera fuoriuscita dalla crisi è l’alternativa socialista. Ma i fatti hanno la testa dura.

Oggi che è del tutto evidente quanto sia strumentale l’uso del Diritto Internazionale (e dei cosiddetti diritti umani), quanto sia assolutamente formale la sua applicazione che, invece, di là dal feticcio, è data esclusivamente dai rapporti di forza tra gli Stati (com’è ampiamente confermato dalla indiscutibile autonomia che alcuni di essi hanno rispetto allo stesso Diritto Internazionale cui spesso si appellano, come Israele), bisogna rimettere in cima all’agenda politica delle forze del cambiamento la necessità dell’organizzazione di un’adeguata soggettività e, con essa, il tema della presa del potere e della cornice statale entro cui agire. Non c’è questione internazionale o sociale che possa prescindere da questi due poli della soggettività.

Lo Stato della Repubblica Democratica Tedesca, di cui Honecher pur riconoscendone gli errori difende nel suo diritto all’autodeterminazione, nasce nel 1950 in conseguenza della costituzione, l’anno prima, della Repubblica Federale Tedesca per opera degli USA, della Francia e della Gran Bretagna che temevano l’iniziale convinzione di Stalin circa l’opportunità di lasciare unita la Germania. Da quel momento la DDR fu progressivamente riconosciuta sul piano internazionale e poté godere della propria sovranità nazionale fino a quando, alla fine degli anni Ottanta, la crisi del comunismo internazionale ne determinò la liquidazione della classe dirigente e lo smantellamento dell’assetto politico-istituzionale. Quello stesso Diritto Internazionale che l’aveva vista soggetto riconosciuto come entità statale e politica, adesso la riteneva sostanzialmente illegittima.

Furono oggetto del processo, infatti, i Decreti del Consiglio Nazionale della Difesa, cioè le decisioni di un organo Costituzionale della DDR. Relativamente alla valutazione sull’opportunità della costruzione del muro, quindi, un tribunale ‘giudicò’ (per proprietà transitiva) la decisione politica presa a Mosca in una riunione degli Stati membri del Patto di Varsavia.

I rapporti di forza erano cambiati.

Vent’anni di guerre e di neocolonialismo successivo lo dimostrano.

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