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Le fabbriche dell’infelicità nel capitalismo criminogeno

Antonio Formicola, 60 anni, un fioraio di Ercolano ed Alessandro, il cognome non è stato fornito, 35 anni, un disoccupato di Brusasco (Torino) sono le ultime due vittime che hanno scelto, con modalità diverse, di togliersi la vita.

Oramai scorrendo le notizie sta diventando una (triste) consuetudine apprendere tali eventi i quali nella parossistica babele del circo mediatico in cui siamo tutti immersi si configurano alla stregua di “brevi” spogliate e vivisezionate dall’immenso carico di sofferenza umana e sociale di cui sono impregnate. Se, poi, a tale allucinante fenomenologia aggiungiamo l’aumento esponenziale ed assoluto del numero delle persone vittime della svariate tipologie di depressione – comunque derivanti dal proprio sentirsi inadeguati rispetto ai cosiddetti standard di vita ufficiali – raggiungiamo cifre di popolazione considerevoli le quali popolano queste autentiche fabbriche dell’infelicità che sono, nelle loro costitutiva complessità, le moderne società capitalistiche.

Tantissime volte il background che sta alla base di tali comportamenti estremi è una inadeguatezza personale fatta artatamente percepire come un limite rispetto ad una presunta soglia da raggiungere ad ogni costo per sentirsi, in qualche maniera, appagati e rispondenti efficacemente all’ideologia, ai valori ed ai molteplici codici comportamentali vigenti. Senza nessuna esagerazione ideologica, a fronte dello spaventoso aumento del numero di questi suicidi, possiamo iniziare ad ipotizzare che si sta intravedendo, particolarmente nei paesi capitalistici più avanzati, il configurarsi di quegli aspetti criminali e criminogeni, bene descritti da Marx, propri delle forme mature del capitale globalizzato. Un sapiente e capillare mix il quale affianca ai classici dispositivi di sfruttamento e di alienazione nuove modalità di abbrutimento diffuso le quali – spesso – alludono e provocano pratiche di annientamento sociale dispiegato anche se, volgarmente, camuffate e classificate, dall’ azione opacizzante dei media ufficiali, come suicidi disperati.

Su tale versante della discussione teorica e culturale esiste una ampia documentazione a cui richiamiamo a partire dagli scritti economici e filosofici di Marx fino alle numerose ricerche della sociologia non allineata la quale ben descrive questa vera e propria  produzione di morte dall’alto.
Da marxisti e, soprattutto, da militanti impegnati nel gorgo del conflitto sociale dobbiamo interrogarci su tale perversione dei rapporti sociali e delle forme del dominio che si stanno incuneando nel tessuto sociale in relazione all’attuale scorcio della crisi ed in questa congiuntura politica dagli aspetti soporiferi e narcotizzanti.

Cosa sta succedendo,ora, nella società e nelle famiglie più esposte ai colpi della crisi ?
Come mai un gesto senza ritorno – come il suicidio – diventa l’approdo naturale per molti individui di fronte al palesarsi di difficoltà economiche le quali, per quanto gravi, non giustificano assolutamente un tale livello di mortificazione, di umiliazione e di auto/annullamento delle persone?

Tentare di rispondere a questi interrogativi non è cosa semplice se si vogliono evitare le banalizzazioni d’accatto e le ipocrite lacrime di coccodrillo che ascoltiamo quotidianamente nelle  volgari trasmissioni televisive e/o leggiamo nelle puntuali esecrazioni della stampa quotidiana.  
Una vicenda enorme, come quella della diffusione dei suicidi “
a causa della crisi” attiene ad argomentazioni le quali, solo in parte, derivano dall’oggettivo corso antisociale della crisi, da mere ragioni economiche, ma sono riconducibili, in ogni caso, alla gigantesca opera di atomizzazione e di disciplinamento coatto a cui, da tempo, sono soggetti i segmenti più deboli della composizione di classe.

Spesso, in occasioni del genere, nella psiche di un individuo vengono a compimento, seppur in maniera tumultuosa e rovinosa, fattori diversificati che producono una sorta di black/out della ragione che spinge verso esiti con questa tragica dimensione. Una mostruosa induzione dall’alto – apparentemente una scelta individuale e disperata – la quale è da ascrivere ai crimini di questi schifosi rapporti sociali che regolano le nostre vite.

,Ci domandiamo allora, in maniera non formale, che rapporto c’è tra l’esplodere di questa tipologia di suicidi e la perdita, oramai da tempo, di tutti quegli elementi di identità collettiva di classe che, per decenni, hanno fatto vivere ai lavoratori e ai disoccupati una particolare forma di orgoglio e di nemicità antisistemica la quale riusciva a fare barriera verso i processi di , di desolidarizzazione e di frammentazione dilaganti.

Ci domandiamo, quindi, che relazione c’è tra la liquidità delle nostre metropoli e la dissoluzione di ogni vincolo comunitario, classista e per alcuni aspetti anche territoriale che riusciva a creare quel cuscinetto di protezione e quella difesa diffusa verso i meno garantiti e i ceti sociali subalterni.
Se oggi, in Occidente, persino la pratica religione, nella forma del Cristianesimo, non riesce più – pur disponendo di un immaginario ricco e mitologico, di una storia millenaria e di un radicamento sociale enorme – a fare collante nella società allora possiamo ipotizzare che ci stiamo approssimando, seppur tendenzialmente e in maniera diversificata, a quegli scenari che molto hanno a che fare con ciò che definiamo, non solo nei classici ma anche nella corrente narrazione, come la barbarie. Naturalmente queste considerazioni, per quanto amare e nette e per quanto preoccupate rispetto al quadro sociale esistente ed all’insufficienza di una adeguata risposta di mobilitazione e di lotta, non vogliono essere un invito – anche inconsapevole – alla passivizzazione o ad un atteggiamento di mera osservazione verso la diffusione del degrado sociale e della devastazione.

Continuiamo a ritenere che, anche a fronte di questa fenomenologia, rimane inalterata la funzione e l’azione di una moderna soggettività comunista ed anticapitalistica la quale, a condizione di una ritrovata forma di incuneamento nei settori sociali, anche attraverso modalità inedite e sperimentali, potrà svolgere quel ruolo storico ed immediato verso l’urgenza e la necessità di rivoltare e distruggere questi insopportabili e mortiferi rapporti sociali.
Anche oggi la cronaca ci consegna alcune morti – ad Ercolano (Napoli) ed a Torino – ascrivibili, entrambe, alla mancanza di lavoro ed ai variegati e devastanti effetti del perdurare della crisi economica.

Antonio Formicola, 60 anni, un fioraio di Ercolano ed Alessandro, il cognome non è stato fornito, 35 anni, un disoccupato di Brusasco (Torino) sono le ultime due vittime che hanno scelto, con modalità diverse, di togliersi la vita.

Oramai scorrendo le notizie sta diventando una (triste) consuetudine apprendere tali eventi i quali nella parossistica babele del circo mediatico in cui siamo tutti immersi si configurano alla stregua di “brevi” spogliate e vivisezionate dall’immenso carico di sofferenza umana e sociale di cui sono impregnate. Se, poi, a tale allucinante fenomenologia aggiungiamo l’aumento esponenziale ed assoluto del numero delle persone vittime della svariate tipologie di depressione – comunque derivanti dal proprio sentirsi inadeguati rispetto ai cosiddetti standard di vita ufficiali – raggiungiamo cifre di popolazione considerevoli le quali popolano queste autentiche fabbriche dell’infelicità che sono, nelle loro costitutiva complessità, le moderne società capitalistiche.

Tantissime volte il background che sta alla base di tali comportamenti estremi è una inadeguatezza personale fatta artatamente percepire come un limite rispetto ad una presunta soglia da raggiungere ad ogni costo per sentirsi, in qualche maniera, appagati e rispondenti efficacemente all’ideologia, ai valori ed ai molteplici codici comportamentali vigenti. Senza nessuna esagerazione ideologica, a fronte dello spaventoso aumento del numero di questi suicidi, possiamo iniziare ad ipotizzare che si sta intravedendo, particolarmente nei paesi capitalistici più avanzati, il configurarsi di quegli aspetti criminali e criminogeni, bene descritti da Marx, propri delle forme mature del capitale globalizzato. Un sapiente e capillare mix il quale affianca ai classici dispositivi di sfruttamento e di alienazione nuove modalità di abbrutimento diffuso le quali – spesso – alludono e provocano pratiche di annientamento sociale dispiegato anche se, volgarmente, camuffate e classificate, dall’ azione opacizzante dei media ufficiali, come suicidi disperati.

Su tale versante della discussione teorica e culturale esiste una ampia documentazione a cui richiamiamo a partire dagli scritti economici e filosofici di Marx fino alle numerose ricerche della sociologia non allineata la quale ben descrive questa vera e propria  produzione di morte dall’alto.
Da marxisti e, soprattutto, da militanti impegnati nel gorgo del conflitto sociale dobbiamo interrogarci su tale perversione dei rapporti sociali e delle forme del dominio che si stanno incuneando nel tessuto sociale in relazione all’attuale scorcio della crisi ed in questa congiuntura politica dagli aspetti soporiferi e narcotizzanti.

Cosa sta succedendo,ora, nella società e nelle famiglie più esposte ai colpi della crisi ?
Come mai un gesto senza ritorno – come il suicidio – diventa l’approdo naturale per molti individui di fronte al palesarsi di difficoltà economiche le quali, per quanto gravi, non giustificano assolutamente un tale livello di mortificazione, di umiliazione e di auto/annullamento delle persone?

Tentare di rispondere a questi interrogativi non è cosa semplice se si vogliono evitare le banalizzazioni d’accatto e le ipocrite lacrime di coccodrillo che ascoltiamo quotidianamente nelle  volgari trasmissioni televisive e/o leggiamo nelle puntuali esecrazioni della stampa quotidiana.  
Una vicenda enorme, come quella della diffusione dei suicidi “
a causa della crisi” attiene ad argomentazioni le quali, solo in parte, derivano dall’oggettivo corso antisociale della crisi, da mere ragioni economiche, ma sono riconducibili, in ogni caso, alla gigantesca opera di atomizzazione e di disciplinamento coatto a cui, da tempo, sono soggetti i segmenti più deboli della composizione di classe.

Spesso, in occasioni del genere, nella psiche di un individuo vengono a compimento, seppur in maniera tumultuosa e rovinosa, fattori diversificati che producono una sorta di black/out della ragione che spinge verso esiti con questa tragica dimensione. Una mostruosa induzione dall’alto – apparentemente una scelta individuale e disperata – la quale è da ascrivere ai crimini di questi schifosi rapporti sociali che regolano le nostre vite.

,Ci domandiamo allora, in maniera non formale, che rapporto c’è tra l’esplodere di questa tipologia di suicidi e la perdita, oramai da tempo, di tutti quegli elementi di identità collettiva di classe che, per decenni, hanno fatto vivere ai lavoratori e ai disoccupati una particolare forma di orgoglio e di nemicità antisistemica la quale riusciva a fare barriera verso i processi di , di desolidarizzazione e di frammentazione dilaganti.

Ci domandiamo, quindi, che relazione c’è tra la liquidità delle nostre metropoli e la dissoluzione di ogni vincolo comunitario, classista e per alcuni aspetti anche territoriale che riusciva a creare quel cuscinetto di protezione e quella difesa diffusa verso i meno garantiti e i ceti sociali subalterni.
Se oggi, in Occidente, persino la pratica religione, nella forma del Cristianesimo, non riesce più – pur disponendo di un immaginario ricco e mitologico, di una storia millenaria e di un radicamento sociale enorme – a fare collante nella società allora possiamo ipotizzare che ci stiamo approssimando, seppur tendenzialmente e in maniera diversificata, a quegli scenari che molto hanno a che fare con ciò che definiamo, non solo nei classici ma anche nella corrente narrazione, come la barbarie. Naturalmente queste considerazioni, per quanto amare e nette e per quanto preoccupate rispetto al quadro sociale esistente ed all’insufficienza di una adeguata risposta di mobilitazione e di lotta, non vogliono essere un invito – anche inconsapevole – alla passivizzazione o ad un atteggiamento di mera osservazione verso la diffusione del degrado sociale e della devastazione.

Continuiamo a ritenere che, anche a fronte di questa fenomenologia, rimane inalterata la funzione e l’azione di una moderna soggettività comunista ed anticapitalistica la quale, a condizione di una ritrovata forma di incuneamento nei settori sociali, anche attraverso modalità inedite e sperimentali, potrà svolgere quel ruolo storico ed immediato verso l’urgenza e la necessità di rivoltare e distruggere questi insopportabili e mortiferi rapporti sociali.

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