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La giustizia sommaria dell’Occidente

I bambini, i bambini, i bambini… Finirà mai la ignobile speculazione sui bambini, vittime di guerra, per giustificare nuove guerre? Indimenticabile, nel 1999, la frase dell’allora ministro della Difesa, Piero Fassino: “Solo chi non ha guardato negli occhi un bambino kosovaro è contrario all’intervento militare”. E l’Italia intervenne, sulla base di una campagna di disinformazione, diplomatica, politica e giornalistica. E fu la guerra del Kosovo, o l’ultima guerra dei Balcani, dove la più grande coalizione militare mai vista nella storia (19 Stati) si scatenò contro quel che rimaneva della Repubblica Federale di Jugoslavia, che nella propaganda veniva chiamata (un po’ sprezzantemente) “la Serbia”, colpevole di essere l’ultimo Stato che orgogliosamente si dichiarava socialista nel cuore d’Europa; uno Stato grande come un paio di regioni italiane.

La “comunità internazionale” aveva stretto con un assedio diplomatico quello staterello, poi aveva imposto condizioni inaccettabili a Rambouillet (per poter accusare Milosevic di averle rifiutate), e ormai avendo la Nato (non il Patto Atlantico, ma la Nato, ossia la struttura militare dell’Alleanza), sostituito pienamente l’Onu, si procedé alla “punizione” dei Serbi, invocata a gran voce da alcuni autorevoli intellettuali: ricordo Barbara Spinelli, in Italia, e Daniel Goldhagen, sulla scena internazionale. E fu una classica guerra ineguale, asimmetrica, che oltre a distruggere l’economia serba, e le infrastrutture, fece diecimila morti, la gran parte civili, trattandosi di guerra esclusivamente aerea. A chi faceva notare che aggiungere cadaveri ai cadaveri non riportava in vita nessuno, si rispose che si trattava di dare un esempio, impartire una lezione: o, semplicemente, di “punire”chi osava non piegare la testa ai diktat di chi ormai era rimasto il solo padrone del mondo. Il Muro era stato abbattuto dieci anni prima. Si festeggiava così, quel decennale, cancellando l’anomalia jugoslava, l’ultima falce e martello nel Continente.

A Milosevic furono disegnati i baffi di Hitler, e l’intellettualità europea fece a gara, a braccetto con la diplomazia angloamericana, nel tratteggiare paragoni storici. I kosovari erano i nuovi ebrei, i serbi i nazisti. E il richiamo alla Seconda Guerra mondiale imperversò: quella era stata la guerra giusta per antonomasia, la guerra delle democrazie contro le dittature (nei richiami si ometteva l’Urss di Stalin, vera vincitrice della guerra, con i suoi 22 milioni di morti; ma tant’è, nell’officina della propaganda non si va per il sottile). Anche ora, contro i nazi-serbi, la guerra era ”giusta”. Mentre tanti negavano fosse una guerra, ma una benefica operazione di salvezza, di peace keeping, Norberto Bobbio si spinse a definirla “etica”, cadendo in uno dei peggiori incidenti teorici della sua onorata carriera di filosofo; ma mentre l’aggettivo “umanitario” si sprecava, vi fu chi fece di peggio: il letterato George Steiner etichettò quel conflitto come “altruista”. E via seguitando.

Alcuni di quei superbi cantori della moralità della guerra sono usciti di scena, mentre altri restano e imperversano: vedi il solito Bernard Henri-Lévy, che qualcuno continua a prendere sul serio, e non è che una figura macchiettistica del sottobosco mediatico (ha tuonato, sul Corriere della Sera: “L’Occidente salvi l’onore in Siria”: 28 agosto). Non poteva mancare, naturalmente, Michael Walzer, una sorta di bobbiano d’Oltre Oceano, che, dalla sua cattedra di Princeton, ha filosoficamente approvato tutte le guerre americane dell’ultimo venticinquennio (dissotterrando appunto la categoria medievale di “guerra giusta”), Onore, punizione. In una intervista (a Ennio Caretto, sempre sul Corriere della Sera, 27 agosto), ammette di aver cambiato idea, avendo fino a pochi giorni prima sostenuto i dubbi di Obama, e in qualche modo incoraggiandolo a non precipitarsi in una nuova avventura bellica (suscitando un certo stupore in chi segue le posizioni intellettuali di Walzer). E, dimostrando come Platone sbagliasse a sognare un mondo governato dai filosofi, se ne esce con chiacchiere da mercato: “L’impiego dei gas tossici da parte di Assad non può restare impunito. È un terribile crimine contro l’umanità, e chi lo commette deve sapere che sarà chiamato a rispondere delle sue colpe. È una questione morale prima che politica e di diritto. Occorre stabilire un precedente, in modo che tragedie come queste non si ripetano mai più. Basta con le vittime civili innocenti”. Forse nell’ultimo quarto di secolo il professor Walzer non ha letto i giornali, non ha ascoltato radio, né guardato tv; non ha mai navigato in Rete. Altrimenti saprebbe che di “precedenti” ve ne sono a iosa. E che ogni volta il suo “Grande Paese”, che si è assunto, motu proprio, da tempo immemorabile il ruolo di giudice e carabiniere del mondo, ha provveduto a castigare. “Sorvegliare e punire”, è il caso di dire, richiamando Michel Foucault.

Ovviamente, come si può usare categorie come colpa e punizione per la politica? E come si può decretare che è giusto bombardare (Walzer non esita a intervenire anche sulle questioni di strategia e tattica militare, decidendo che deve trattarsi di guerra esclusivamente aerea: non sia mai che sul terreno debba rimetterci la pelle qualche marine!) un Paese (pardon, solo gli “obiettivi sensibili”), sulla base di accuse non dimostrate? Ma possibile che l’Iraq non abbia insegnato nulla? A Walzer, e a quanti in queste ore invocano la guerra accusando quel cattivone di Assad? Abbiamo dimenticato la penosa scenetta dell’allora segretario di Stato Usa, Dick Powell, che all’Assemblea dell’Onu, agitava una fialetta per “dimostrare” che Saddam Hussein era in possesso di armi di distruzione di massa?

Aggiungo, per chi lo avesse scordato o non ne avesse notizia, che lo stesso politico a distanza di qualche anno confessò che quello era stato il momento peggiore della sua carriera: “mentivo sapendo di mentire”, disse, in sostanza. E quanti cattivi abbiamo ammazzato, dopo aver bombardato, umanitariamente, i loro popoli? Siamo davanti a una deprimente, “coazione a ripetere”, come ha scritto Giulio Marcon sul Manifesto (28 agosto); non siamo in grado di cambiare il copione. Creiamo il casus belli – un massacro, possibilmente –, decretiamo trattarsi di un crimine contro l’umanità, e sulla base di un pregresso lavorio di costruzione del nemico, lo hitlerizziamo (sorte toccata oltre che a Milosevic, a Saddam, a Gheddafi, e ora ad Assad), e scateniamo infine la rappresaglia: andiamo a fare giustizia, anche quando sappiamo in partenza che non potremo “esportare la democrazia”. Gli obiettivi sono sempre variabili, nelle guerre post -1989. È la logica del lupo e dell’agnello: anche se non sei colpevole, hai colpe pregresse, e se non sei stato tu è stato un tuo antenato. Ti devo punire, comunque.

Quante giustizie sommarie l’Occidente ha sulla propria coscienza, potremmo chiederci, ricorrendo anche noi a categorie morali, invece che politiche. Se poi si guarda alle conseguenze politiche delle “neoguerre coloniali” (di questo si tratta: il ritorno del colonialismo, in una nuova fase dell’imperialismo), è impossibile negare che tutti i Paesi aggrediti in nome della democrazia, con o senza l’assenso dell’Onu, dagli angloamericani, con l’appoggio di alleati variabili, la situazione è quasi sempre drasticamente peggiorata. Oggi sono scomparsi dalle prime pagine, ma quei Paesi sono sempre teatri di guerra. Guerra infinita e permanente, in un’orgia estenuante di sangue, di devastazione, di orrore, in cui la vita delle persone è appesa a fili invisibili. Guerra di tutti contro tutti, in situazioni di quotidianità disperata, dove nulla ha senso, in uno scenario privo di qualsiasi prospettiva di pace. Guerre che abbiamo scatenato noi occidentali democratici, inventando ogni volta una “buona causa” di cui ci siamo presentati come paladini. Nessuna di quelle cause per le quali abbiamo bombardato, incendiato, distrutto, massacrato, ha prodotto risultati apprezzabili; anzi, perlopiù è il contrario.

Ha tuonato anche il nostro presidente del Consiglio per caso, dopo aver indossato elmetto e giubbotto protettivo (immagine preziosa per il futuro cultore del genere), che siamo davanti a “crimini intollerabili” e che “si è passato il punto di non ritorno”, praticamente ripetendo le parole del Segretario Usa alla Difesa, tanto per confermare l’eterna sudditanza italiana. È vero: la ministra Bonino, pur accettando le tesi statunitensi, ha detto no, per ora, no senza un mandato Onu. Staremo a vedere.

Il punto fondamentale tuttavia non è la possibile azione con o senza l’avallo delle Nazioni Unite, il punto è accettare le “prove che inchiodano Assad”, senza porsi qualche dubbio. Lo ricordava Manlio Dinucci sul Manifesto (27 settembre): possibile che sia così cretino, questo Assad, da usare gas tossici (contro il suo stesso popolo) al’indomani dell’arrivo degli ispettori ONU? Ecco, basta questa domanda, anche senza andare a esaminare i filmati, che, per quanto consta a osservatori seri, sono a dir poco sospetti, e provengono molto probabilmente da centrali nelle quali la Cia ha collaborato con Israele, e con l’appoggio diretto o indiretto di altri Stati interessati a destabilizzare la Siria, dalla Turchia agli Emirati Arabi. E Francia e Gran Bretagna che indipendentemente dalle maggioranze politiche, non hanno perso il riflesso condizionato dell’interventismo, convinte di poter riacciuffare il ruolo perduto di potenze che fanno la politica internazionale, sono ormai soltanto fastidiose mosche cocchiere: si immaginano di guidare il cavallo americano, ossia convinte di poter spingere il riluttante Obama ad “agire”. Se la politica è l’arte di guardare lontano, possibile che in questa sciagurata ripetitività delle politiche occidentali non ci si chieda quali conseguenze – al di là dei nuovi mucchi di macerie e di cadaveri – un intervento militare porterà? Che cosa accadrà se si attacca la Siria? Come reagiranno gli altri attori dello scacchiere mediorientale? 

Al proposito, a mo’ di conclusione, a beneficio dei tanti tuttologi che, privi di incertezze, convinti che quello che vedono in tv sia la verità, invitano a “salvare l’onore” dell’Occidente (anche dell’Italia, naturalmente), e ad andare a “punire” il cattivo, rompendo gli indugi, mi permetto di citare una lettera al direttore del Financial Times, ripresa, giustamente, da Internazionale, che l’ha pubblicata col beffardo titolo: Benvenuti in Medio Oriente. Scrive dunque un lettore londinese di origine araba, tale K. N. al Sabah: “Gentile signore, l’Iran appoggia Assad. I paesi del Golfo sono contro Assad! Assad è contro i Fratelli musulmani. Obama e i Fratelli musulmani sono contro il generale Al Sisi. Ma molti stati del Golfo sono a favore di Al Sisi, il che significa che sono contro i Fratelli musulmani. L’Iran è filo Hamas, ma Hamas appoggia i Fratelli musulmani! Obama sostiene i Fratelli musulmani, eppure Hamas è contro gli Stati Uniti. Gli stati del Golfo sono con Stati Uniti. Ma la Turchia è alleata con gli stati del Golfo contro Assad; eppure la Turchia è a favore dei Fratelli musulmani contro il generale Al Sisi. E il generale Al Sisi è appoggiato dai paesi del Golfo. Benvenuti in Medio Oriente e buona giornata”.

* da http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-giustizia-sommaria-delloccidente

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