Un operaio in cassa integrazione del polo logistico di Nola (Pino D. C.), afferente allo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco (Napoli), attivista dello Slai Cobas, si è ucciso nella giornata di martedì 4 febbraio in casa ad Afragola.G
L’uomo aveva 43 anni, in cassa integrazione da alcuni anni stava attraversando un periodo di depressione per questioni di carattere familiare ma, soprattutto, per la nuova condizione di difficoltà economiche in cui era precipitato a seguito dei processi di ristrutturazione aziendale in atto nel settore auto a Pomigliano d’Arco a partire dal 2010 in poi.
Nella zona era noto per il suo impegno nelle lotte dei cassaintegrati dello stabilimento di Pomigliano d’Arco della Fiat dove partecipava alle iniziative di mobilitazione organizzate dai suoi compagni di lavoro.
Come al solito, come avviene nei troppi casi analoghi che stanno accadendo in Italia e non solo, si sprecano le luride analisi sociologiche circa le motivazioni di questi gesti estremi.
Questa volta vogliamo provare ad avviare un ragionamento, oltre il dato emozionale, per avviare una riflessione sugli aspetti che riconduciamo ai veri e propri fattori di produzione di morte del capitalismo e dei suoi inumani rapporti sociali.
Un tentativo di inquadramento analitico che tiene conto dell’aggrovigliarsi dei fattori di crisi, della scomposizione sociale e dei devastanti caratteri di quello che abbiamo definito come il turbo capitalismo della nostra epoca.
Un contributo alla discussione che concepiamo finalizzato, soprattutto, all’azione politica e sociale che svolgiamo nel movimento ed oltre.
Intanto, però, la cronaca quotidiana continua ad elencarci il numero dei morti, dei tentativi di suicidi che si stanno moltiplicando in ogni angolo del paese con una cadenza temporale sempre più incalzante ed angosciante.
Si pone, dunque, almeno a giudizio di chi scrive, la necessità di un supplemento analitico su alcuni versanti che afferiscono all’aggravarsi dei dispositivi di desolidarizzazione e di atomizzazione sociale che sono il vero detonatore di questo black out cognitivo ed umano che spinge individui “normali” – per quanto attanagliati da problemi economici ed esistenziali – ad una pesantissima scelta senza alcuna possibilità di ritorno.
Sempre più per larghi settori sociali le dinamiche della vita appaiono senza senso. Sempre più a partire dalle aree metropolitane e dai cosiddetti punti alti dello sviluppo capitalistico, dove i rapporti sociali sono più violenti e contraddittori, si vanno diffondendo patologie sociali le quali sono la risultante dell’intreccio tra crisi economica, decomposizione dei vecchi assetti della società ed incapacità di esprimere una convincente risposta collettiva a queste derive.
E’ oramai evidente, anche a parere di molti analisti borghesi, che l’unica dinamica interessante della “nostra” società è quella di produrre effetti di auto-negazione su sé stessa. Una parossistica spirale verso il basso la quale non riesce a trovare assetti di stabilità e che procede verso soglie sempre più inumani ed antisociali.
Non è un caso che, sotto gli effetti di questa autentica mannaia stiano evaporando tutti i meccanismi di protezione e di ammortizzamento che nel corso dei decenni passati hanno, a grandi linee, hanno garantito elementi di salvaguardia e di tutela individuali e collettivi per larghissime fasce di popolazione.
Liquidità delle metropoli, evanescenza delle identità, scomposizione ed, addirittura, competizione tra gli individui sono la vera condizione materiale in cui siamo immersi ed in cui dovremmo, obbligatoriamente, operare per tentare di ricostruire forme possibili di ripresa dai contenuti antagonistici. Una ricerca ed una intrapresa collettiva che dovrà essere sperimentata ad ampio raggio ed a scala sempre più globale.
Il capitalismo è diventato, oramai da tempo, un sistema così libero da ogni controllo da parte dell’uomo, da procedere a briglia sciolta verso quel suicidio che impone così spesso agli individui che assoggetta. Dentro questa infernale situazione un individuo che cerchi di dare un senso alla propria esistenza non può che realizzare la propria condizione di super sfruttato e di alienato in mezzo ai suoi simili e tentare di porvi un cosiddetto rimedio spesso con modalità placebo.
Quando poi, all’insorgere di difficoltà impreviste come quelle che si stanno palesando nelle cronache che quotidianamente leggiamo, percepisce di essere un granello fra altri, sembra non avere altra scelta che arrendersi dando fuori di testa contro di sé o i suoi simili.
Ritorna – quindi – al di là di qualsiasi dissertazione rituale e formale il tema, l’autentico rompicapo teorico, della necessità di un diverso ordinamento sociale e di nuovi e più avanzati rapporti tra gli individui.
Lungi da noi la banale suggestione che questa riflessione possa alimentarsi slegata dalle forme del conflitto, della lotta e delle sue variegate problematiche.
Ma, se veramente vogliamo interrogarci sulle cause profonde dei tragici suicidi a cui stiamo passivamente assistendo, dobbiamo iniziare a porre, in tutti gli ambienti sociali in cui agiamo, unitamente al piano di azione della mobilitazione immediata, la necessità potente dell’alternativa di società e la passione durevole del comunismo
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