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La disoccupazione per diffondere precarietà

“La disoccupazione non lascia tregua all’Italia e chiama alla prova il governo Renzi. A febbraio il tasso rilevato dall’Istat è volato al 13% (+1,1 punti percentuali sul 2013): il livello più alto sia dall’inizio delle serie mensili, nel gennaio 2004, sia delle trimestrali, a inizio del 1977.”

Questo è l’incipit di un articolo sul sito di Repubblica online. Che la disoccupazione sia un dramma nazionale è innegabile (al pari però della emergenza salariale di cui oggi non parla nessuno, rimuovendo il dato che fette importanti del mondo del lavoro sono sotto la soglia di povertà).

 Peccato però che questa improvvisa attenzione al “lavoro che non c’è” coincida sempre con la discussione in Parlamento di provvedimenti che estendono la cosiddetta “flessibilità”, meglio conosciuta dalla gente come precarietà.

All’emergenza lavoro si risponde con la solita ricetta proposta da qualche decennio: “occorre togliere lacci e lacciuoli alle imprese”; prima via la scala mobile, poi legalizzazione del contratto a termine at libidum, poi la deregolamentazione del part time a vita, poi i contratti interinale ed a chiamata (per non usare il termine “caporalato” che suona male), quindi la cancellazione dell’articolo 18, accompagnato dall’introduzione del contratto individuale e dalla possibilità di derogare in pejus leggi e contratti nazionali. Non dimenticando l’uso del lavoro a progetto, partite IVA e voucher. Poi, per non farci mancare nulla, abbiamo introdotto (violando la Costituzione) il riposo “settimanale” ogni quattordici giorni. Per fortuna che l’orario di lavoro consecutivo è fissato solo in un massimo di tredici ore giornaliere. Sono andato a memoria e, come tutti possono verificare, l’elenco è ampiamento errato per difetto, ma è sufficiente per fare un esempio.

Vediamo quindi: se una azienda vuole assumere cosa può fare?

 Assume un lavoratore o una lavoratrice a chiamata. Quindi nessun vincolo. Il fischio moderno, cioè un sms, e si corre a lavorare. Se c’è lavoro lavori, altrimenti te ne stai a casa senza il becco di un quattrino.

Beh! dirà qualcuno, ma forse l’azienda ha bisogno di un po’ di continuità nella presenza e teoricamente il “lavoratore squillo” si può rifiutare di presentarsi; che fare?

Pronti. Un bel contratto interinale part time al minimo orario contrattuale, mettiamo 14 ore settimanali, con le ovvie clausole flessibili ed elastiche. In questo modo ti garantisci continuità e massima flessibilità, potendo allungare l’orario sino al massimo contrattuale (38 o 40 a secondo della categoria), a totale discrezione ( leggi ricatto) dell’azienda.

Però, se avvio una nuova attività non potrò usare solo il lavoro interinale (pomposamente chiamato dalla legge “somministrazione di manodopera”), ma potrò optare per due soluzioni: un bel contratto a termine o un apprendista per tutti gli anni previsti dal CCNL.

Il secondo è certamente il più vantaggioso (la legge consente di usarlo sino a sei anni, ma spesso i contratti lo limitano a quattro) perchè non si pagano i contributi all’INPS e si decurta il salario mediamente del 20/25 %. L’obbligo della conferma di una percentuale di apprendisti prevista nei contratti? Facilmente aggirabile con un escamotage , inducendo l’interessato a licenziarsi da solo un anno prima del termine (ad esempio, preannunciando la non conferma un anno prima e con prestazioni lavorative al limite del mobbing); se il testardo non se ne va, alla scadenza e non si è arrivati alla percentuale di conferme prevista dalla norma, è sufficiente assumere il prossimo apprendista con una diversa qualifica simile ma non identica. Nella cattiveria del legislatore, sin al gennaio 2013 agli apprendisti licenziati non spettava neppure l’indennità di disoccupazione perché il padrone non versava neppure questo contributo.

Mi pare che a Napoli vi sia una espressione che rende bene l’idea: “mazziato e cornuto”.

Dall’elenco dei prodotti “inquinati” presenti nel supermercato del lavoro, ho colpevolmente dimenticato la figura del socio lavoratore, tanto cara al terzo settore, alla Lega delle cooperative etc, al quale la cooperativa nata con determinate caratteristiche può persino non applicare il contratto nazionale di lavoro ma un proprio regolamento scritto ad hoc.

Se poi parliamo della cosiddetta prestazione lavorativa, la legislazione attuale prevede che l’azienda imponga al dipendente la presenza sul luogo di lavoro sino a 13 ore. Ipocritamente la legge stabilisci che, tra un turno di lavoro e l’altro, è obbligo lasciare almeno 11 ore ( limite ampiamente derogato da numerosi contratti di lavoro), dicitura che, oltre a consentire un turno di lavoro massacrante, lascia completamente mano libera al Padrone su come distribuire l’orario durante il giorno e la notte.

Quando l’azienda, bontà sua, riterrà che un posto “fisso” si può anche concedere, dopo un tale passaggio di 6 o 7 anni all’interno di queste fosse caudine, chi sopravvive è certamente meritevole di avere di un contratto a tempo indeterminato, Per i più giovani che non conoscono questo termine rimando per il significato a wikipedia ed all’aiuto del nonno.

A questo punto, se l’azienda è così sfortunata che, dopo quella selezione di sette anni, il fortunato o fortunata che possiede il biglietto-premio del posto fisso si ammala, si scopre sindacalista, inizia a fare figli, se è una azienda con meno di 15 dipendenti nessun problema, una bella letterina e si sta a casa al massimo, se va male, con piccolo indennizzo. Per quelle poche aziende che ancora hanno più di 15 dipendenti si possono attivare le norme previste dalla legge 223 per i licenziamenti collettivi, se i fannulloni sono almeno 5 ( da licenziare in 120 giorni) si avvia la procedura e si sbattono fuori.

Se invece il licenziamento è individuale si dovrà ricorrere alla norma prevista dalla modifica all’articolo 18 (riforma Fornero), dichiarando una riorganizzazione della produzione e l’impossibilità di riutilizzare il lavoratore licenziato ricollocandolo altrove. Il lavoratore non può contestare la scelta dell’imprenditore di scegliere i modi più efficaci per condurre l’impresa. Al massimo può contestare al datore di lavoro di non averlo riutilizzato, e comunque ,anche in questo caso ,l’impresa se la cava con piccolo indennizzo.

Sono questi solo alcuni esempi, e molto sintetizzati, dei pesanti lacci e lacciuoli con cui sono vessate e legate le aziende nel nostro paese…

Come su tanti altri temi dovremmo essere noi a farci carico della controinformazione, contrastando dati alla mano la campagna di disinformazione che su tutti i temi, dalla previdenza al lavoro, dal salario allo stato sociale, trasforma i padroni da carnefici in vittime.

 

L’unica vera fune con cui potremmo veramente legare ed imbrigliare l’egoismo e l’inciviltà del sistema padronale italiano è quello di cambiare i rapporti di forza con i quali si è chiuso il lavoro dipendente in una cella d’isolamento. Per farlo, il primo passo è riappropriarci di una dimensione collettiva della nostra rappresentanza. In una parola, abbiamo bisogno di un Sindacato di classe.

 

PS. Come si può notare l’unico passaggio nel quale ho usato la parola escamotage, cioè trovare una via non proprio lineare, è quando ho parlato di apprendistato. Dato che questo evidentemente è un lacciuolo, dato che il diversamente berlusconiano è il teorico della ricerca dello spazio più breve che divide uno spazio, anche detta “linea”…. Che ha fatto? Cancellato l’obbligo anche della pur minima percentuale di conferma degli apprendisti. Non se ne poteva più di tanti vincoli!

 

Maurizio Scarpa

 

Iscritto USB

 

 

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