Le proteste in Brasile, opportunamente ed immediatamente mediatizzate dal circuito mainstream italiano, hanno prodotto la più classica immedesimazione tra fenomeno sociale esotico e sentimento cripto-colonialista occidentale. Gli stessi soggetti che in Italia non perdono occasione di etichettare come terrorista qualsiasi fenomeno politico esca dal recinto della compatibilità parlamentare, sono oggi in prima fila nello sponsorizzare tali proteste, condannandone gli eccessi ma appoggiandone idealmente le rivendicazioni. Come sempre, di fronte alle violenze di piazza, nei paesi ricchi i responsabili sono i manifestanti, mentre nei paesi “poveri” le violenze sono da addebitare alla polizia o al sistema politico (per definizione non ancora giunto ai nostri livelli di civiltà).
Ci sono diversi problemi però in questa narrazione artificiale e tendenziosa. Il primo è che il racconto dei media va preso cum grano salis: per questi, in Brasile sta avvenendo la tipica rivolta “da crescita economica” disorganizzata, in cui una piccola borghesia in ascesa chiede più diritti e un sostanziale riconoscimento politico delle proprie aspirazioni. E’ una lettura assolutamente parziale, che però contiene una parte di verità che non va disconosciuta: in queste manifestazioni c’è anche quel livello lì, cioè l’esplosione di una piccola borghesia secolarmente schiacciata tra il grande padronato filo-statunitense ed enormi quote di proletariato e bracciantato agricolo in condizioni di semi-schiavitù. La nascita di questo “cuscinetto sociale”, tale da stabilizzare il quadro politico, porta con sé contraddizioni tipiche nei diversi contesti in cui determinate manifestazioni hanno avuto luogo. Ciò detto, non è solo questo in campo oggi in Brasile, e in assenza di informazioni sostanziali non mediate dal racconto dominante, preferiamo non addentrarci in analisi più approfondite.
Quello che ci preme invece rilevare è la scelta che, di volta in volta, compiono determinati pezzi di movimento in presenza di manifestazioni simili. Per questi non esiste mai alcun dubbio, e se Repubblica riporta la notizia di una “rivolta”, questa è sicuramente giusta e da appoggiare. Soprattutto se questa utilizza strumenti di protesta simili a quelli messi in campo dai movimenti occidentali: allora la convergenza è per forza di cose ovvia.
Non è tanto in discussione il merito delle singole vicende. Non c’è dubbio che in Brasile siano presenti contraddizioni sociali enormi, e che parte di queste contraddizioni si stiano esprimendo in questi giorni sfruttando la vetrina mondiale che consente alle manifestazioni di amplificare il proprio messaggio. Un atteggiamento ovvio, persino sacrosanto. La farsa è l’atteggiamento italiano di fronte a queste vicende. D’improvviso, chi guardava il mondiale è divenuto complice della repressione poliziesca contro le manifestazioni popolari. Gente che fino al giorno prima non aveva idea di dove fosse il Brasile oggi ne parla quale avanguardia delle lotte sociali contro il capitalismo, discetta delle differenze tra i vari movimenti brasiliani o delle dinamiche di quartiere a Manaus.
Non poteva mancare infine la corsa al boicottaggio. Il mondiale non va visto, perché è un grande evento, per definizione da boicottare; oppure perché così si legittima il governo brasiliano; qualcuno si è spinto fino all’analisi sociologica della lotta al dio pallone. La stessa gente che magari ha delle comode Nike ai piedi, utilizza Facebook o Twitter per i suoi pipponi moralisti, si guarda la Roma su Mediaset Premium o Gomorra su Sky, va al centro commerciale la domenica o al concerto dei Rolling Stones al Circo Massimo, legge libri Mondadori o Feltrinelli, si compra i DVD prodotti da Medusa, rigorosamente acquistati su Amazon, mangia da Mc Donald’s, si muove per l’Italia in TAV, si compra la droga dal proprio spacciatore di riferimento, oggi fa passare come estrema coerenza militante il non vedersi le partite del mondiale. Un atto politico dicono, non sappiamo se in favore delle mobilitazioni in Brasile o per esprimere contrarietà all’evento “mondiale” in sé. In ogni caso, la pratica dei boicottaggio intellettuale dovrebbe essere bandita. E dovrebbe essere bandita perché presuppone un livello di coerenza individuale che niente ha a che fare con l’agire politico collettivo. Una pratica che non cambia di una virgola i rapporti di forza reali ma che fa stare a posto con la coscienza. L’autoassoluzione individuale, anche quando praticata da molti, non dovrebbe essere confusa per azione politica. La Rivoluzione insomma non passa per l’ascetismo.
Per cominciare, invitare al boicottaggio mondiale da Facebook o da Twitter, come il 100% dei compagni ha fatto in questi giorni, è una contraddizione in termini. Riguardo allo sfruttamento lavorativo, al modello produttivo globale, all’organizzazione economica e al potere decisionale delle dinamiche finanziarie mondiali, nonché riguardo al controllo e all’organizzazione repressiva, Facebook, Twitter, Google o Amazon sono decisamente più rilevanti dell’organizzazione di un mondiale di calcio. Nessun quartiere buttato giù dalla costruzione di uno stadio, nessuna manifestazione manganellata dalla polizia brasiliana, nessuno tipo di corruzione pubblica o privata inerente al mondiale può minimamente eguagliare il ruolo economico e politico di Facebook & soci nell’economia mondiale, il loro determinare gli attuali livelli di sfruttamento. Invitare il boicottaggio mondiale da Facebook è come boicottare la FIAT andando in giro in Ferrari.
In secondo luogo, come abbiamo appena visto, la pratica del boicottaggio prevede sempre un’escalation ascetica per cui qualcuno sarà sempre più puro, coerente o radicale di te. Se si boicotta il mondiale si dovrà ben ragionare sul vedere le partite su Sky della propria squadra; in effetti, non solo di calcio si nutre Sky, da boicottare in tutti i sensi quindi; d’altronde, neanche Rai o Mediaset possono dirsi ininfluenti nel processo di controllo ideologico e dello sfruttamento capitalistico. E se il discorso vale per la televisione, uguale ragionamento si dovrà fare per il cinema, controllato dalle medesime società, nonché per la musica e ogni altra rappresentazione artistica. E così via, senza una possibile fine, tornando nei boschi cibandosi di bacche. Il fatto è che a nessuno di questi compagni (per fortuna) verrebbe in mente di boicottare coerentemente il sistema consumista nel quale vivono. Per sentirsi a posto con la coscienza basta seguire l’ultimo titolo di giornale.
La questione non è allora il boicottaggio dell’evento televisivo, inutile per definizione (quando non controproducente: decine di aziende colpite da boicottaggio hanno visto accrescere il proprio fatturato grazie alla pubblicità indiretta derivante dal boicottaggio stesso!). L’internazionalismo non passa per il boicottaggio del mezzo, ma per l’azione politica concreta in favore delle mobilitazioni, se si crede giusto appoggiarle. Significa riprodurre anche nei nostri contesti le ragioni di quelle proteste, farle proprie. Allo stesso tempo, se il boicottaggio riguarda strumenti o eventi di massa, quali possono essere la televisione e i grandi eventi da questa trasmessi, la lotta non può avvenire scollegandosi da quella parte di popolazione interessata all’evento, ma occupando la scena, lottando dentro il mezzo per ribaltarne il significato. Lottare contro il sistema calcio non può significare rifiutare quel piano, ma starci dentro portando avanti i propri contenuti, piegando quel mezzo ai propri fini. Così come la lotta al sistema informativo mediatico non avviene rifiutando il mondo dei media, ma occupando lo spazio mediatico cercando di far emergere anche i nostri contenuti.
L’unica certezza è che la moda estiva anti-mondiale passerà con la fine della manifestazione sportiva. Dal 14 luglio il Brasile tornerà ad essere ricordato per le sue spiagge e i suoi calciatori. Così come l’Egitto, la Turchia, la Tunisia, la Libia: finiti i titoli di giornale, terminerà anche l’interesse intorno ad essi. In attesa del prossimo boicottaggio.
da http://www.militant-blog.org/
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