Aldo Bianzino era un falegname di 44 anni residente a Pietralunga, paese che dista una ventina di chilometri da Città di Castello in provincia di Perugia. Aveva scelto una vita appartata insieme alla compagna Roberta Radici e a suo figlio Rudra: un appezzamento di terra nel cuore delle colline umbre, una cascina, uno stile di vita alternativo all’insegna del pacifismo e delle filosofie orientali. Questo fa di Aldo il perfetto “attenzionato”, un elemento che non può passare inosservato in una piccola comunità collinare, ma che era e rimane una persona ben vista da tutti. Un hippie con la barba lunga, una decina di piante di marijuana coltivate nell’orto di casa e con un modesto lavoro di falegname, facilmente può essere etichettato come diverso. Per quelle piantine di canapa, la notte del 12 ottobre Aldo e Roberta vengono arrestati con l’accusa di possesso e spaccio di sostanze stupefacenti. Suo figlio Rudra, di appena quattordici anni e la nonna di novanta vengono lasciati completamente soli e lontani da tutto per due giorni. Vengono condotti al carcere di Capanne e separati in diversi reparti. Dall’ingresso in carcere Roberta non vedrà più Aldo se non dopo la sua morte. La mattina seguente alle ore 8.15 Aldo viene trovato morto nella sua cella. Ad annunciarlo alla moglie ancora detenuta nella sezione femminile , è un dipendente del carcere che ambiguamente esordisce con questa domanda: ”Signora che lei sappia suo marito soffriva di svenimenti?”. Sarà Roberta a descrivere il tono incalzante di quel surreale dialogo, che avveniva mentre Aldo era già steso sul tavolo dell’obitorio. “Signora suo marito soffre di cuore? Ha mai avuto problemi al cuore? E’ mai svenuto?”, queste le domande che il dipendente dell’amministrazione penitenziaria rivolge alla compagna di Aldo. Roberta viene scarcerata verso mezzogiorno. Nei corridoi incontra quel funzionario accompagnato da un’altra persona e si precipita a chiedere quando avrebbe potuto vedere Aldo. L’uomo testualmente le risponde: “Signora, martedì dopo l’autopsia”.
Roberta muore un anno dopo di tumore, dopo aver dedicato gli ultimi mesi della sua vita alla ricerca della verità, convinta fin da subito che Aldo abbia subito violenze. Sarà il medico legale nominato da Gioia Toniolo, ex moglie di Aldo, il primo a parlare chiaramente di pestaggio “particolare”, effettuato con tecniche militari atte a non lasciare segni esterni ma a distruggere gli organi interni. Il fegato di Aldo presentava una profonda lacerazione. Il fascicolo sul decesso viene aperto dal pubblico ministero Petrazzini, lo stesso che aveva firmato il mandato di perquisizione dell’abitazione di Bianzino e che al primo incontro con la signora Toniolo esordì dicendo:”Signora lei non si deve preoccupare, svolgeremo indagini a 360 gradi, ma non è detto che troveremo il colpevole” cosa al quanto inquietante visto che il carcere è una struttura circoscritta sotto il pieno controllo delle istituzioni. . La prima autopsia riscontra lesioni al fegato, alla milza, al cervello e due costole rotte. Il medico legale Patumi, nominato dalla famiglia, asserisce che le lesioni sono effetto di “colpi dati chiaramente per uccidere”, che “mirano a distruggere gli organi vitali senza lasciare tracce esterne”. La seconda autopsia indica invece un aneurisma cerebrale come causa del decesso.
Si apre così un’indagine contro ignoti per omicidio volontario. Dai filmati delle videoregistrazioni interne al carcere, risulta che nella notte tra il 13 e i 14 ottobre non viene prestato alcun soccorso a Bianzino, che pure, secondo i detenuti ascoltati dal pubblico ministero, aveva chiesto insistentemente aiuto. Su queste basi, l’agente di polizia penitenziaria che quella notte aveva effettuato il turno di guardia viene iscritto nel registro degli indagati per omissione di soccorso e omesso servizio. Le videoregistrazioni avvenivano solo per quindici secondi ogni due minuti, e l’agente non disponeva delle chiavi delle celle.
Nel febbraio 2008 il pm Petrazzini chiede che il fascicolo contro ignoti per omicidio volontario venga archiviato, in quanto le indagini non avrebbero fornito prove di aggressioni a Bianzino né alcuna ragione perché si potessero verificare. I legali della famiglia però si oppongono, e chiedono che venga fatta luce sui punti ancora controversi: come mai il tentativo di rianimazione di Bianzino non è avvenuto in cella?, qual è l’origine della profonda lesione epatica riscontrata in sede di autopsia?, la lesione epatica ha una correlazione con il decesso?. Contro il parere dei medici legali incaricati dalla procura, i periti della parte civile escludono totalmente che la lesione possa essersi verificata durante le manovre di rianimazione. Petrazzini, però, chiede nuovamente l’archiviazione. Ma molte altre sono le domande rimaste senza risposta. Non si sa perché Bianzino fosse seminudo e con la finestra aperta malgrado il freddo, per quale motivo non siano stati effettuati rilievi da parte della polizia scientifica nella cella, quali furono i movimenti di Bianzino il pomeriggio prima di morire e perché una delle magliette di Aldo, restituita dopo il decesso alla compagna, è stata smacchiata con della candeggina.
Per la morte di Aldo Bianzino è finito a processo con le accuse di omissione di soccorso e omissione d’atti d’ufficio Gianluca Cantoro agente di polizia penitenziaria. In primo grado l’agente Cantoro fu condannato a 1 anno e 6 mesi di reclusione, pena ridotta in appello di 6 mesi. Nel giugno 2015 la Cassazione ha confermato la condanna ad un anno di reclusione per l’agente. Secondo la tesi dell’accusa, accolta ora definitivamente dai giudici, la guardia carceraria non chiamò il medico quando Bianzino si sentì male.
Le dichiarazioni della compagna:
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa