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Il 60° dei trattati di Roma non è solo “un pranzo di gala”

Il vertice di 27 capi di stato che confluiranno a Roma per le celebrazioni del 60° dall’avvio del processo di integrazione europea, si colloca nel pieno di una fase di transizione verso nuovi equilibri interni alla U.E. e di riconfigurazione delle relazioni geo-politiche su scala globale. Il libro bianco approntato dal presidente della commissione Junker è una chiara presa d’atto della ineluttabilità di questo passaggio  e della sfida politica ed economica sul cammino del polo imperialista europeo rappresentata dalla Brexit e dalle ripercussioni della risposta alla crisi di egemonia “dell’America profonda”  con la elezione di Trump.

La vicenda Brexit, oltre al significato simbolico della prima fuoriuscita in 60 anni  di un paese  membro dal processo di integrazione, segnandone la rottura come processo inclusivo e pertanto a rappresentazione progressiva, per l’incidenza strategica della Gran Bretagna crocevia delle relazioni Nord-Atlantiche e per peso economico della prima piazza finanziaria continentale, ha oggettivamente accelerato il sommovimento interno al sistema di governance della U.E. incubato in anni di gestione delle varie manifestazioni della crisi sistemica.

 Il rafforzamento della centralizzazione dei  livelli decisionali attraverso una  precisa gerarchizzazione delle relazioni tra stati membri e la riaffermata centralità dell’asse franco- tedesco, al contempo cause ed effetti della accelerazione della competizione geo-economica, forniscono i tratti costituenti di una nuova fisionomia della U.E.. L’uscita dalla U.E. della Gran Bretagna segna, non solo simbolicamente, per la funzione storicamente esercitata di cerniera tra le sponde dell’Atlantico, il trapasso ad una nuova fase delle relazioni geo-politiche , in cui il ruolo di compensazione tra interessi nazionali e/o componenti delle classi dominanti degli istituti sovranazionali si ridefinisce in ragione della competizione tra poli imperialisti. Naturalmente ciò di cui trattiamo non è un processo realizzatosi “ a freddo” bensì all’interno di una crisi ormai decennale dai risvolti sociali in taluni contesti devastanti, vedi Grecia, e la rottura politica operata con il referendum britannico esprime contenuti di profondo malessere sociale egemonizzati o, forse meglio, strumentalizzati dalle componenti della borghesia britannica, disinteressate al rapporto organico con il polo europeo e maggiormente sintonizzate sulle rotte del “vecchio impero”, fornendo una perniciosa dimensione identitaria e alimentando a sua volta un chiaro “input” agli scenari della competizione globale. Interessante si rivelerebbe, ma accennato solo come traccia per approfondimenti in altra sede, la funzione svolta dalla Gran Bretagna nel processo costitutivo dell’Integrazione europea e l’elevato grado di competizione interna sistematicamente esercitata.

L’elezione di Trump affonda le radici nel disagio del ceto medio, prevalentemente bianco, a conferma del ruolo fondamentale rappresentato  in quel paese dalla stratificazione sociale razziale, prostrato dalla crisi e solo marginalmente beneficiato dalle politiche espansive della Federal reserve, in realtà concepite a sostegno della tenuta sistemica  finanziaria e politicamente vicine al Partito Democratico. Quella di Trump, con buona pace dei globalisti progressisti, è l’espressione della rivincita americana, che per concretizzarsi deve creare le condizioni per una ripresa robusta del processo di accumulazione, richiamando nei confini degli USA i flussi di capitale finanziario ed industriale coadiuvati da  piani di investimenti pubblici in mega-progetti infrastrutturali e di sostegno al complesso militare-industriale, con una operazione di selezione nel mercato del lavoro, vedi limitazioni all’immigrazione, di matrice ideologica identitaria. Insomma, una decisa forzatura dell’orizzonte multipolare con fibrillazioni evidenti negli organismi sovranazionali a partire dalla NATO.

IL libro bianco è un’evidente tentativo di rispondere alla accelerazione imposta dal combinarsi degli effetti interni alla UE con la fuoriuscita della Gran Bretagna e del nuovo corso di Trump, partendo dall’analisi di alcuni “fondamentali” della condizione della UE con proiezione sugli scenari futuri. Un primo esame è quello del mercato interno: la popolazione continentale in termini percentuali è destinata a decrescere ed a invecchiare con ricadute sul potere economico della UE con contrazione della quota percentuale sul PIl mondiale dall’attuale 25% al  20% del 2030, in linea  con una flessione dell’area UE-27, la Gran Bretagna è già  fuori dal computo, dal 2004 al 2017 dal 26% al 22%. La contrazione delle quote di PIl é condivisa con le aree del cosiddetto capitalismo avanzato, USA e Giappone, mentre le quote di PIL mondiale detenute dai paesi emergenti nello stesso periodo di riferimento crescono con uno spettacolare balzo cinese dal 5% al 15%. A seguire, Il ruolo dell’Euro è quella della seconda moneta mondiale più utilizzata, come seconda è nel “paniere” del Fondo Monetario Internazionale per “i diritti speciali di prelievo” con una quota del 33% nel 2015 che si contrae al 30% nel 2017. A questo punto del documento in relazione alla necessità di garantire la tenuta dell’Euro insidiato dagli “emergenti”, si dischiude il campo agli scenari di guerra del Medio Oriente e dell’Africa alla necessità di garantire la sicurezza, dei propri mercati evidentemente, con una precisa indicazione  “La NATO continuerà a fornire sicurezza….ma l’Europa non deve essere ingenua e deve provvedere alla propria sicurezza. Essere “soft power” non basta più…” Relazione più esplicita tra ruolo del polo geo-economico europeo e acquisizione di una fisionomia anche militare adeguata, non sarebbe possibile: tutti i competitori hanno piani di investimento in armamenti con una proiezione pluridecennale, una competizione quella militare che si riapre senza freni,  in una duplice funzione di volano economico e strumento per l’egemonia. Il tutto in relazione al miglioramento della condizione interna all’Unione minata dalla crisi con preoccupante disoccupazione specie giovanile e invecchiamento della popolazione, il contrasto al declino si realizza con un chiaro sostegno al  progetto egemonico della UE: garantirsi gli ambiti esterni di estorsione di valore per assicurare l’equità sociale dell’UE. IL documento prosegue con l’analisi dei dati sulla fiducia dei cittadini europei nella UE mettendone in risalto la perdita di consenso  “ circa un terzo dei cittadini ha fiducia nella UE , contro circa la metà di dieci anni fa” con considerazioni sulla appropriata comunicazione nei paesi membri del ruolo della UE e come molti degli interventi in campo sociale siano tuttora prerogativa degli stati membri, al contrario una maggiore cogenza della UE nella gestione contribuirebbe a migliorarne la percezione(?). La parte finale del documento si articola nella definizione dei possibili scenari, in cui si misura, è questa la nostra opinione, la tenuta a diversi  stadi dell’integrazione dei paesi “esterni” allo zoccolo duro.

 La presenza nella UE di livelli di partecipazione diversificato tra i 27 paesi membri, a partire dall’appartenenza all’area Euro, non costituisce certo una novità e la crescente spinta alla polarizzazione in  aree geo-economiche funzionali alla strutturazione delle forze produttive condiziona fortemente “le orbite d’appartenenza” dei singoli stati. Le giornate del 60°, con la indiscussa centralità della governance franco-tedesca a cui si aggiungono i paesi “pesanti” per popolazione e qualità della composizione socio-economica quali l’Italia e la Spagna, serviranno come verifica interna all’impianto UE. Il vertice di Roma è l’avvio di un  processo di scandagliamento dell’intera costruzione, attraverso una calendarizzazione di incontro tematici previsti nel corso dell’anno: dimensione sociale, gestione globalizzazione, unione economica e monetaria, difesa europea, finanze UE.

La brusca precipitazione degli eventi della Brexit e dell’elezione di Trump imposta ad uno scenario già instabile per la persistenza di una crisi che inevitabilmente inasprisce i caratteri della competizione, rende ineludibile il passaggio ad una maggiore centralizzazione della governance della UE, come risposta allo scenario della “deglobalizzazione”. Un fenomeno di cui dobbiamo cogliere il movimento, cercando di non replicare l’errore commesso con la forzatura interpretativa della globalizzazione , ossia, l’assunzione in forma  diretta da parte dei protagonisti dello scontro geo-economico  per il deterioramento dei margini di mediazione offerto dai consessi inter-capitalistici, come esemplificato dall’atteggiamento di Trump, prescindendo dalla teatralità del personaggio, nei confronti della Merkel al recente incontro alla Casa Bianca, in cui, tra gli altri, lo scontro commerciale, vedi lo scandalo sulle emissioni delle vetture Volkswagen,  tracima in  guerra commerciale.

La composizione dei tratti della fase geo-politica in gestazione assume le caratteristiche di una inquietante escalation della competizione tra poli, in cui il paragone con drammatiche fasi storiche passate sembra farsi largo prepotentemente. I prossimi passaggi elettorali previsti nei paesi core della UE,  Francia e Germania, costituiscono il versante interno, non privo di insidie, dello stesso processo di ridefinizione delle relazioni su scala globale. Il rafforzamento del polo imperialistico della Ue è allora una necessità interna allo competizione, il cui esito non può che prevederne un innalzamento della perniciosità sociale, politica ed economica. Una condizione che va fatta vivere nelle mobilitazioni sociali e politiche in calendario per l’anniversario dei trattati di Roma.

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