Prendo spunto, come mi è capitato in altre occasioni, da questo articolo del compagno Maurizio Iacono apparso sul “Tirreno” di Livorno per sottolineare un elemento che mi sta particolarmente a cuore.
L’arroganza non è espressione necessaria e immediata delle élite politiche che non hanno sempre espresso necessariamente un dato di separatezza tra il cosiddetto ceto politico e la società ( oppure tra la classe dirigente e la base all’interno di quelli che erano definiti”partiti di massa”.
In questo senso ho pensato di completare il testo di Maurizio Iacono (ordinario di storia della filosofia all’Università di Pisa) redigendo, in calce, una sintesi di quella teoria delle èlite che ha sempre rappresentato il riferimento essenziale nella definizione
Il punto che si intende sostenere in questa occasione è quello che l’arroganza e la superficialità che viene costantemente dimostrata da quella che si vorrebbe autodefinire “classe dirigente” è direttamente proporzionale all’assenza di legittimazione che sicuramente non può derivare da elezioni impostate nei termini del plebiscitarismo maggioritario e dell’individualismo competitivo su cui si basano i molteplici sistemi elettorali adottati (vorticosamente) in Italia e la stessa – distruttiva – logica delle primarie così come questa è stata adottata dal PD (incoronazione del “padrone del partito) in sostanziale sintonia della logica altrettanto padronale del “partito personale” così come descritto da Mauro Calise e praticato ormai in quasi tutti i soggetti presenti nell’arena politica italiana.
Questo di seguito il citato testo di Maurizio Iacono
“Niente da fare. Grillo impazza per le vie di Genova, la Raggi vaga per quelle di Roma, ma, nonostante contraddizioni, pasticci, litigi, M5Stelle è in crescita. Tutti i sondaggi sono d’accordo.
Il M5Stelle è attualmente il primo partito, avendo sorpassato il PD. Si dirà. Non bisogna fidarsi dei sondaggi. Da un po’ di tempo a questa parte prendono bufale su bufale. Vero. Però, la sensazione che il movimento di Grillo sia in testa è forte e diffusa. Nonostante i mass media e le altre forze politiche vadano giù forte contro Grillo, Raggi & c., nonostante, effettivamente, questo movimento di pasticci ne faccia e di ambiguità culturali e politiche ne abbia, esso continua ad avere consensi e forse ad aumentarli.
Perché? All’interno dell’area di sinistra, per quanto sia un’area piuttosto rarefatta, è difficile riflettere su una forza come il M5S. Anzi, in generale è difficile riflettere. Non ci si è più abituati. Da tempo. Eppure, in questo momento così confuso, è ciò che andrebbe fatto, superando l’impatto emotivo e sforzandoci di comprendere.
Tutti sono concentrati su Roma e sulla Raggi, pochi riflettono sul fatto che andrebbe compresa la situazione di una città come Torino, dove il PD, nonostante tutto, ha tenuto la barra di una buona amministrazione. Allora perché proprio lì il sindaco è Appendino?
Non sono in grado di rispondere a una domanda del genere. Quello che tuttavia so è che bisognerebbe cominciare a sollevare delle domande a partire dalla bellissima città sabauda. Torino non è Roma, così come non lo sono Parma e Livorno. Perché allora? Perché il PD viene sconfitto anche in una città come Torino?
Forse, dopo il referendum, si è infranto il sogno, sognato per molti anni da destra e da sinistra, di avere una democrazia semplificata, oligarchica e elitaria in un’economia dominata dagli interessi privati, dalle diseguaglianze, dallo smantellamento dello stato sociale. Un sogno che accomuna perversamente figure anche antitetiche come Gelli, Berlusconi, Renzi e molti altri, impresari, politici, opinionisti.
L’idea di una democrazia con partiti leggeri, con leader legittimati da un consenso plebiscitario, con lobbies forti e potenti e con l’illusione di una sinistra addomesticata che accetta il dominio delle banche e lo vuole conciliare con le riforme.
Ci si è dimenticati, a destra come a sinistra, di due cose. La prima è che il periodo di maggiore crescita del nostro paese corrisponde a un’epoca di fortissimi scontri ideologici e tesissimi antagonismi sociali in un sistema nient’affatto semplificato dal punto di vista istituzionale. La seconda è che al popolo questo sogno non è mai piaciuto, perché ha significato povertà, diseguaglianza, ingiustizia e disagio.
Il risultato è ciò che erroneamente e con molto disprezzo viene chiamato populismo e che se continua a permanere un vuoto nella sinistra va e andrà inevitabilmente altrove.
Il vuoto si nota nei dettagli. Due settimane fa a Montecitorio è stato presentato il libro Gabbie, edito da MdS, che raccoglie racconti di detenuti e no. Alla presentazione partecipa il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, l’antagonista di Renzi. Persona dai tratti fini e cortesi, arriva, legge un testo con dotte citazioni da Tasso e da Aristotele che però niente avevano a che fare con il libro da presentare, e se ne va, esattamente un attimo prima che cominci a parlare uno dei detenuti scrittori.
Ecco! Questo è il vuoto. Questa è la distanza. Non è solo dallo straparlare scomposto del Ministro del Lavoro Poletti, ma anche dall’eloquio misurato e corretto del Ministro della Giustizia Orlando, candidato a segretario del PD, che si nota il distacco tra le istituzioni politiche e la società e si coglie un’arroganza quasi inconsapevole, tipica di chi è troppo assuefatto al privilegio.”
Questa invece, di seguito, è una riflessione – sintesi sulla teoria delle èlite nel sistema democratico principiando dagli studi di Giovanni Sartori, (The theory of democracy revisited 1988), che hanno consentito di superare definitivamente gli ostacoli residui che si frapponevano all'integrazione tra elitismo e democrazia com’era stato negli studi di Michels e Pareto.
Da un lato l’appena scomparso padre della politologia italiana ha evidenziato come l'esistenza di tendenze oligarchiche all'interno delle singole organizzazioni non escluda la presenza, a livello sistemico, di una vigorosa ed effettiva competizione tra oligarchie e, dall'altro, sottolineando come il controllo elettorale, esercitato liberamente nei confronti di una pluralità di élites concorrenti, conferisca un effettivo potere potestativo all'elettorato, rendendo le minoranze governanti responsabili verso di esso.
In conclusione si tratta di riconoscere che anche la politica democratica è dominata, in misura maggiore o minore, da élite ha comportato l'individuazione dei seguenti requisiti ritenuti indispensabili per configurare un'effettiva compatibilità tra élite e democrazia:
1) l'elettorato è in grado di scegliere tra una pluralità di élite in competizione;
2) le élite non possono rendere ereditario il loro potere o impedire a nuovi gruppi sociali di accedere alle posizioni di vertice;
3) le élite raccolgono sostegno da parte di coalizioni mutevoli in modo che nessuna può diventare permanentemente predominante;
4) le varie élite dominanti nei diversi settori della società non stabiliscono mai un'alleanza comune.
Posta in questi termini, l'iniziale contrapposizione tra élite e democrazia risulterebbe superata dalla formula 'elitismo democratico' con cui si vuole indicare che in una poliarchia il potere politico è esercitato mediante un'alternanza tra diverse élites mobili e aperte, élites che si propongono e non si impongono, e che l'influsso che il popolo in quanto elettorato opera sul governo dipende in ultima analisi dall'effettivo pluralismo delle élites e dalla competizione reale che si instaura tra di esse.
Tutto ciò equivale, come ha notato Peter Bachrach nel suo lavoro “The theory of democratic elitism (1967)”, non solo a ripudiare l'ideale etico della democrazia classica e a ridimensionare le istanze partecipative, ma soprattutto a ribadire l'inalterabilità della dicotomia élite-massa anche nelle società industriali contemporanee.
Nella teoria classica il fuoco dell'attenzione verteva sul popolo e sulla sua partecipazione al potere; nell'elitismo democratico l'attenzione si concentra sull'élite e sul suo carattere pluralistico e competitivo, con il conseguente arretramento del principio egualitario da uguaglianza di potere a uguaglianza della possibilità di accedere a posizioni di potere.
Sono questi gli elementi fondamentali su cui si dovrebbe basare l’apertura di una ricerca orientata su due obiettivi: la ricostruzione della soggettività politica in una dimensione di massa; l’elaborazione di una formula elettorale in grado di rendere produttiva la competizione tra le élite democratiche bilanciando, secondo il dettato della Costituzione Repubblicana, l’elemento prevalente della rappresentatività e quello della governabilità che dovrebbe discenderne.
Fornendo inoltre piena legittimazione ai protagonisti dell’arena politica: quella legittimazione che oggi manca e che si cerca goffamente di sostituire con l’improvvisazione e l’arroganza tipiche della “stupidità del potere” o dalla democrazia diretta o dalla cosiddetta e-democracy. Fattori dai quali genera il distacco così efficacemente descritto nell’articolo di Iacono.
Oltre ai testi di Sartori e di Bachrach citati nel testo è stato consultato per redigere questo testo anche il volume “ La teoria delle èlites” di Giorgio Sola, Il Mulino, Bologna 2000.
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Valter Lorenzi
definire Iacono "compagno" mi pare molto impegnativo, dato che si vanta di essere stato ghostwriter dei sindaci PD di Pisa, alla quale corte è stato chiamato come "maître à penser" per l'orientamento delle politiche locali e regionali. Ora sicuramente, nel terremotino interno a quel partito si sta riposizionando, anche perchè per contare nella nomenclatura accademica locale i salotti in subbuglio sono quelli.
Il sonno del trasformismo genera mostri…