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“Qui c’è ancora odore di sangue…”

“Qui c’è ancora odore di sangue: tutti i profumi d’Arabia non lo cancelleranno da questa piccola mano” Shakespeare, Macbeth, V-I

 

Per fortuna Gabriele Del Grande è tornato a casa.

Impossibile non gioirne, perché le carceri turche non si augurano a nessuno, ma anche perché a questo punto il martirologio, in mancanza di martire, probabilmente cesserà.

Nonostante questo, prosegue il processo di beatificazione del “blogger, giornalista indipendente mai iscritto all’albo, documentarista, regista” che, in circostanze e per motivi ancora da chiarire, è stato fermato in Turchia mentre, così ha riferito, cenava al ristorante con una sua “fonte”.

Siccome però i processi di canonizzazione richiedono l’esame di documenti e testimonianze che comprovino la santità, e visto che abbiamo la fortuna di essere contemporanei dell’aspirante santo, ci permettiamo una breve, inevitabilmente parziale, analisi della vita e delle opere di Gabriele Del Grande.

In fondo è a casa, vivo e in buona salute, quindi non si rischia di incappare in un’accusa di eresia.

Gabriele Del Grande è il fondatore di un blog, Fortress Europe, che monitora le morti nel Mediterraneo (ultimo aggiornamento: 2 febbraio 2016, più di un anno fa) e collabora, o ha collaborato, con diverse testate, tra le quali Internazionale e L’Unità.

Certo, su questo aspetto del suo lavoro è difficile fare obiezioni. Come si fa ad avercela con un ragazzo che con i sui soli mezzi si impegna per informarci sulla tragedia immane di persone che muoiono tentando di fuggire dalla fame e dalla guerra? Be’, in effetti i mezzi in un’occasione glieli ha forniti Soros, ma cosa c’è di strano? In fondo il capo di Open Society Foundation finanzia i progetti “benefici” più disparati in giro per il mondo, dal golpe in Ucraina alle varie rivoluzioni arancioni che hanno destabilizzato il Medio Oriente, causando buona parte delle ondate di profughi alle quali abbiamo assistito in questi anni, ma perché sottilizzare, se poi regala qualche euro a chi li salva? Del Grande ha detto in conferenza stampa che la notizia dei finanziamenti di Soros é una bufala, perché lui ha ricevuto “solo” 37.000 euro, e solo nel 2011. Prendiamo atto del fatto che Soros con lui è stato spilorcio (evidentemente 37000 euro gli sembrano pochi), ma non si capisce perché la notizia, da lui stesso confermata, debba essere considerata una bufala.

Ma Del Grande non si occupa solo di questa meritoria opera di monitoraggio (ferma, come abbiamo detto, da più di un anno): scrive anche reportage da vari teatri di guerra, come la Libia e la Siria, ed è proprio durante il conflitto libico che Del Grande comincia a diffondere la sua verità, che per brevità chiameremo Verbo, su dittatori, rivoluzioni e jihadismo.

Per evitare interpretazioni spurie del suo pensiero, e sospetti di pregiudizi nei suoi confronti, attingiamo direttamente dal Verbo: secondo Del Grande, che rilascia questa intervista  nel 2011, il conflitto libico fu un movimento assolutamente spontaneo di cittadini che chiedevano più libertà, una sorta di “risorgimento” di un popolo oppresso da decenni di dittatura, nella quale “ogni forma di dissenso è stata repressa. L’unica forma di opposizione interna negli ultimi decenni è stata quella dell’islam politico. Represso durissimamente dalla dittatura. Basti pensare ai 1.200 islamisti fucilati in una notte nel carcere di Abu Salim a Tripoli nel 1996. E anche la rivoluzione del 17 febbraio è esplosa sulla scintilla di una loro protesta, quando il 15 febbraio i familiari delle vittime sono scesi in piazza per chiedere giustizia. Per il resto è un movimento spontaneo, fatto soprattutto di giovani, anche ingenuo se volete, ma nel senso positivo del termine. Nel senso che c’è una generazione che senza farsi troppi sofismi ha deciso che per la libertà vale la pena lottare e che ha deciso di porre fine al regime di Gheddafi, anche a costo della vita.”.

Qui però il quasi santo è uno e bino, entrando in contraddizione con se stesso, perché nello stesso anno, in un’intervista a Lilli Gruber (23 marzo 2011), dice che la folla di Bengasi chiede la no fly zone e inneggia a Sarkozy e agli Stati Uniti, ed esclude “CATEGORICAMENTE!” che dietro le proteste ci siano gli islamisti. Ma le proteste non le avevano iniziate loro, unica forma di “opposizione”?

Fare fact checking sulle categoriche sicurezze di Del Grande riguardo alla Libia è fin troppo facile: la storia recente ha dimostrato chi fossero i pacifici manifestanti amici di Del Grande e in quali condizioni abbiano ridotto il paese.

 

I dirigenti di Liwa Al-Tawhid si uniscono ad altri gruppi e formano Ahrar al-Sham. Basta guardare i volti che trasudano moderazione e dialogo per essere conquistati da questa causa. AFP PHOTO/ISLAMIC FRONT

Forse più interessanti sono le opere che il Nostro ha dedicato alla Siria, paese che frequenta sin dall’inizio della guerra, riuscendo nell’incredibile impresa di non incontrare nemmeno un sostenitore di Assad. Nemmeno uno, neanche un tassista, un passante, un cugino alla lontana del cuoco del palazzo presidenziale. Nessuno.

Lui parla solo con gente come Yusef ‘Abbud (di Hayat Amr bil Ma’ruf, braccio civile del Fronte islamico per la liberazione della Siria, Jabhat Tahrir Suriya al Islamiya, poi alleati di Al Nusra, ma definiti da Del Grande “islamisti moderati”) intervistato ad Aleppo nel 2013 mentre distribuisce aiuti umanitari.

Del Grande ci informa che le uniche iniziative civili concrete sono quelle finanziate dai movimenti islamici moderati” i quali, a sentire lui, si contendono democraticamente il controllo del territorio con le milizie di Al Nusra, definita formazione islamista “internazionalista”, che controlla i tribunali dove si applica la sharia; però non fatevi strane idee, Gabriele ci assicura che tutto procede nel migliore dei modi, si tratta di tribunali regolari nei quali viene garantito ogni diritto e la pena di morte è riservata solo agli assassini. Di solito giustiziano Alawiti vicini ad Assad, quindi non c’è motivo di pensare che i processi non siano equi. E poi i bravi studenti del Corano escono prima per buona condotta. Queste corti islamiche sono un modello di civiltà.

E cosa ne pensa la popolazione degli islamisti di Al Nusra? Secondo il Verbo “i sentimenti dei siriani verso Jabhat el Nusra sono un misto di timore e rispetto”. Gli intervistati da Gabriele sono tutti molto fiduciosi: la Siria è un paese laico, e finita la guerra questi ragazzi un po’ scapestrati ma dai puri ideali, che impongono l’Islam politico e sognano la creazione di un Califfato, saranno “riassorbiti” dai moderati. Magari mettiamo un bello sbarramento al 5% col doppio turno alla francese e li escludiamo dall’arco parlamentare.

Intanto, visto che ci sono, amministrano la sharia e giustiziano la gente.

Del resto non si può attribuire a questi ragazzi la responsabilità di quello che accade in Siria. Certo, spesso ci sono degli eccessi, ma come si è arrivati a tutto questo? Tranquilli, ve lo racconta Gabriele: “Abu Faisal ha le idee chiare. Lui è un comandante di una delle più forti brigate dell’esercito libero, la Liwa Tawhid, islamisti moderati finanziati dal Qatar e ben visti dagli americani. Per lui c’è un solo responsabile, ed è il regime. “Per sei mesi, nel 2011, abbiamo manifestato pacificamente, con la polizia che ci sparava addosso. A giugno di quell’anno, il regime ordinò un’amnistia per i prigionieri politici. Sembrava un’apertura, ma di fatto servì a rimettere in libertà centinaia di uomini di Al Qaeda, che il regime aveva manovrato negli anni passati per gli attentati in Iraq. Le loro milizie sono ancora minoritarie, tuttavia in questi due anni sono cresciuti molto. Io mi chiedo chi li finanzi. Mi chiedo se sia un caso che gli arrivano così tanti soldi e così tante armi. Mi chiedo se sia un caso che tra i loro muhajidin la maggior parte siano proprio ceceni, i nemici di Putin. Ne saranno arrivati un migliaio in Siria. Chi li manovra? È lecito chiederselo, dopotutto il regime è il principale beneficiario della loro presenza. Aveva bisogno di un nemico per serrare le fila. Aveva bisogno di un mostro per dire al mondo: o me o loro. E devo dire che ci sta riuscendo abbastanza bene. Perché in questo momento noi non abbiamo la forza per combattere su due fronti. E dobbiamo concentrare i nostri sforzi contro il regime. Ma appena prenderemo Damasco, per forza di cose inizierà una seconda guerra contro di loro. La Siria non sarà mai governata da questi fanatici.”.

A parte il consueto “Ha stato Putin” che non poteva mancare (del resto in Siria ci sono un sacco di integralisti Ceceni, notoriamente manovrati dal Cremlino che, altrettanto notoriamente, non li ha mai combattuti e non li combatte) in questo brano ci sono alcune osservazioni interessanti, tanto più se consideriamo che queste tesi sono state adottate da Del Grande, che le ha scritte, ripetute, difese e rivendicate negli anni a seguire: esistono dei gruppi di islamisti moderati, idealisti e internazionalisti, che combattono per la libertà contro la dittatura di un folle sanguinario e che, sebbene con qualche eccesso, sono per questo giustificati. Del resto l’ultimo lavoro che sta preparando, quello per il quale si trovava in Turchia, è un libro dal titolo “un partigiano mi disse”, nel quale intende raccontare la guerra in Siria e gli uomini e le donne del Califfato, gli internazionalisti che tradiscono l’ideale, i compagni che sbagliano.

L’opinione di Del Grande è chiarissima: “Non tutti hanno una formazione islamista radicale. Tanti sono venuti semplicemente per seguire un grande ideale di solidarietà con la comunità musulmana sunnita siriana, a cui sentono di appartenere al di là delle frontiere. Né più né meno come i comunisti italiani che nel 1936 andarono in Spagna a combattere contro il fascismo”.

Né più né meno. In effetti questa è grossa, però bisogna considerare che l’estasi mistica può dare alla testa.

Anche perché Del Grande considera moderati gruppi islamisti che moderati non sono: noi sappiamo (lui evidentemente no, anche se ci va a cena) che il FSA, l’Esercito libero siriano, originariamente costituito soprattutto da disertori dell’esercito regolare, è ormai formato da gruppi tutt’altro che moderati come, per esempio, la brigata Liwa Tawhid da lui citata, che secondo TRAC  è anch’essa una formazione islamista che opera attraverso attentati utilizzando tattiche terroristiche.

Ma pazienza, per adesso è prioritario concentrare tutti gli sforzi contro il regime, poi ci preoccuperemo della guerra contro l’Isis, sul quale Del Grande esprime in effetti qualche riserva. Anche qui però il Verbo è oscuro, e difficile da interpretare. Ma non avevamo detto che gli islamisti radicali si sarebbero fatti assorbire dai processi democratici? In effetti è comprensibile: dopo aver visto gli uomini del Califfato all’opera qualche dubbio sulla loro sincera fede democratica può venire anche a un tipo indulgente come Del Grande.

I racconti si susseguono, accorati e commoventi:

“Per anni quella bandiera nera è stata usata da una miriade di sigle del terrorismo islamico. Nella Siria di oggi però è diventata il simbolo dell’internazionalismo islamista.” 

La bandiera nera dell’internazionalismo islamista. Detta così sembra una cosa romantica.

Per la loro partecipazione alla guerra, non otterranno niente in cambio. Al contrario, sanno che la maggior parte di loro morirà presto in battaglia. Quello che non sanno è che chi si salverà, non riuscirà a conservare il proprio idealismo. Perché come tutte le guerre, questa è una guerra sporca. Sporca come il sacco sulle spalle del vecchio appena uscito dalla sede della brigata islamista. Gronda sangue. Dentro ci sono i vestiti degli shabbiha catturati nei giorni scorsi. Si tratta dei criminali assoldati dal regime per perseguitare gli oppositori. A tagliare loro la gola è stato l’afgano, con una specie di spada. I corpi li hanno sepolti nella piazzola sotto il cavalcavia, dove hanno già sotterrato un’altra ventina di sgherri del regime giustiziati alla stessa maniera. Il vecchio ora sta andando a bruciare i loro panni.
Nessuno dei combattenti però presta attenzione al suo passaggio. Perché nel frattempo è arrivata una macchina in corsa. I primi a scendere sono Abu Zeid e Abu Moaz. C’è un cadavere a bordo da scaricare. Si tratta di Abu Abed. E’ successo tutto un’ora prima. Il colpo di mortaio è esploso a un paio di metri dall’auto. E per Abu Abed non c’è stato niente da fare.” C’è una notevole differenza tra il distacco col quale viene descritta l’esecuzione sommaria degli “sgherri” di Assad e il tono accorato usato per raccontare la morte dei “martiri dello jihad”.

E ancora “Abu Malek un anno fa faceva il rivenditore di automobili. Le armi le ha prese quando la polizia gli ha ammazzato il fratello in una manifestazione. E oggi è a capo della brigata dei martiri di Salah Ed Dine, tutti ragazzi dell’omonimo quartiere popolare di Aleppo. Dei 115 uomini che aveva a disposizione un mese fa ne ha già persi 40: dodici sono morti in battaglia e altri 28 sono gravemente feriti. Le vittime della guerra ad Aleppo però sono soprattutto civili. L’ultimo martire è un uomo di mezza età colpito alla testa da un cecchino dell’esercito di Assad. Lo stanno seppellendo in quello che prima della guerra era il giardinetto di Sukkari. Due ragazzi scavano in fretta una buca, con la pala. Hanno paura di attirare l’attenzione degli aerei militari che sorvolano la città. Al lato della fossa, tre bambini stanno a guardare, ormai abituati a vedere la morte abitare i loro quartieri. 
Improvvisamente uno stormo di uccelli neri attraversano il cielo. Questa volta l’esplosione è molto più forte delle precedenti. È un bombardamento aereo. L’ennesimo. Da una strada non lontana si leva una colonna di fumo. Seguono altre esplosioni, saranno a un chilometro di distanza, in mezzo a una zona abitata, lontano da qualsiasi obiettivo militare.

Insomma, a parte l’anacoluto (che però gli perdoniamo, perché non è iscritto all’albo) qui si sostiene la tesi già sentita secondo la quale il cattivissimo e non troppo intelligente Assad bombarderebbe deliberatamente i civili “con l’unico obiettivo di terrorizzare e punire la popolazione che è rimasta in città”. O forse l’obiettivo in questo caso erano i componenti della brigata dei martiri di Salah Ed Dine, affiliata a Ahrar al Sham, che a Del Grande sono tanto simpatici, ma restano jihadisti finanziati da Arabia Saudita e Qatar? Forse non se ne è reso conto, ma stava parlando con loro.

 

il Ceceno Abu Bakr al-Shishani comandante Ahrar al-Sham: un sincero democratico con i sui ragazzi. I bombardamenti russi hanno purtroppo spento prematuramente una promettente carriera di leader moderato

C’è un’altra tesi che Del Grande ha trasformato in dogma della fede, dandola per accertata anche se si tratta semplicemente dell’opinione dei “ribelli moderati” che ama intervistare: Assad avrebbe messo in atto una sorta di strategia della tensione, provocando una guerra fratricida tra le varie fazioni dell’opposizione armata, liberando i terroristi dal carcere di Sednaya grazie a un’amnistia (in realtà furono una serie di amnistie) diabolicamente escogitata da Assad proprio per mettere il proprio paese nelle mani dei terroristi. La situazione poi gli sarebbe sfuggita di mano. Chi volesse approfondire può farlo qui; ai nostri fini basti ricordare che le amnistie furono chieste a gran voce da Amnesty International e dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (che comunque le giudicarono sempre insufficienti) e che prevedevano la scarcerazione solo per i reati meno gravi e per i malati terminali o ultrasettatenni. Attribuire a questo episodio la degenerazione del conflitto siriano non ha alcun senso.

Altro dogma della fede è la presunta alleanza di Siria e Iran con Al Qaeda per destabilizzare l’Iraq. Su questo però ammettiamo la nostra impotenza: il fact checking si può fare sulle bugie, non sui vaneggiamenti. C’è un limite a tutto.

Chiudiamo questa ampia disamina della vita e delle opera del Beato con alcuni brani del video di un incontro con Amedeo Ricucci (il quale, nonostante “l’amicizia e la stima reciproche”, non ha risparmiato critiche a Del Grande sulla sua recente condotta) incontro nel quale Gabriele ripete e approfondisce concetti già espressi, come la costernazione per l’incomprensibile embargo sui missili terra – aria imposto dai servizi segreti americani (in pratica il Nostro non si spiega come mai gli americani, che pure hanno un bel pelo sullo stomaco, abbiano qualche perplessità riguardo all’ipotesi di mettere in mano ai terroristi una contraerea).

A seguire c’è un interessante dibattito durante il quale Del Grande si affretta a difendersi dall’accusa, effettivamente infondata, di aver parlato male degli aspiranti martiri dello jihad. L’episodio è surreale, ne consiglio la visione.

Durante questo incontro racconta anche la sua esperienza coi foreign fighters, “tanti ragazzi che arrivano con questo senso di solidarietà, al di là delle frontiere, ceceni, afgani, algerini, tunisini, ingenui, naif”, accolti dalla popolazione siriana “con abbracci e col massimo rispetto”.

A questo punto il processo di canonizzazione è istruito e si attende il verdetto del Congresso dei Teologi. Manca solo il miracolo accertato.

Qualcuno si chiederà: perché fare tanta fatica per dimostrare che Del Grande ha una visione parziale e schierata delle vicende mediorientali e in particolare della Siria?

Semplicemente perché nei prossimi mesi Gabriele Del Grande ci verrà venduto come un grande esperto, uno che ha lavorato sul campo e che conosce la Siria, che ha parlato con le persone e che ne conosce le motivazioni. Ripeterà quella che è da anni la versione mainstream: un paese sconvolto da una rivoluzione giusta contro un dittatore spietato, degenerata in guerra civile per responsabilità esclusiva di quello stesso dittatore, ma lo farà da una posizione enormemente avvantaggiata, accreditato da tutti come giornalista indipendente e imparziale, reduce da una spiacevole disavventura che lo ha trasformato in un paladino della libertà di stampa (almeno così ce l’hanno raccontata), con l’aggiunta del crisma della bontà assoluta e in odore di santità, perché sostiene chi salva le persone che muoiono in mare. Il testimone perfetto.

Del Grande una volta ha detto che non si può sbattere la porta in faccia al vicino che scappa dalla casa in fiamme.

Questo è incontestabile, e fa parte delle regole fondamentali della convivenza civile e della solidarietà umana, ma non è ipocrita accogliere il vicino in difficoltà se contemporaneamente si solidarizza col piromane che ha appiccato il fuoco alla sua casa? Non si crea un cortocircuito se si piange per i profughi mentre si tifa per i terroristi che destabilizzano i paesi dai quali i profughi scappano? Se si scambiano i foreign fighters per internazionalisti, i terroristi per idealisti, e i paesi laici e sovrani per campi di battaglia per le scorribande di terroristi islamisti manovrati da potenze straniere?

Ovviamente ogni giornalista è libero di avere un’opinione, tutti i giornalisti hanno un’opinione, ma un bravo giornalista contestualizza, verifica le fonti, si pone delle domande e cerca le risposte. Un vero giornalista non si trasforma in megafono per la propaganda di una parte, soprattutto quando si tratta delle milizie jihadiste, altrimenti dovrà anche farsi carico della responsabilità morale per quelle stesse morti che si ritrova a piangere.

Non ci interessa sapere se Gabriele Del Grande sia in buona fede o se si sia semplicemente trovato una nicchia di mercato da sfruttare. Non è rilevante, perché non cambia il risultato. Nessuno si erge a giudice morale, non ha senso demonizzare dopo aver irriso chi beatifica.

Quello che conta è che quando Del Grande presenterà il suo ultimo libro, riempiendo le televisioni e i giornali con la sua versione dei fatti, qualcuno si ricordi cosa ha detto in questi lunghi anni in cui il Medio Oriente è stato massacrato dai suoi ragazzi idealisti con la bandiera nera, e diffidi.

Che qualcuno si ricordi (e ricordi ai troppi smemorati) da che parte sta.

 

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