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Halevi: “Dopo Covid, rischi di esplosione delle disuguaglianze”

Quale sarà il problema o i problemi più immediati che dovremo affrontare nella fase del dopo coronavirus?

La risposta dipende molto dall’angolatura con cui si guarda a tutta la vicenda del Covid 19. Partirei da una visione che combini sia la dimensione di classe che quella strutturale che specificherò dopo una breve premessa.

L’aspetto economico principale di questa crisi consiste nel fatto che è la prima vota che il sistema si blocca sia dal lato della produzione, cioè dell’offerta, che dal lato della domanda. Il blocco della produzione ha a sua volta prodotto il blocco degli investimenti che, sommato ai licenziamenti di massa, ha fatto precipitare le economie occidentali in una recessione molto simile ad una grande depressione.

Questo è successo nei paesi sviluppati. Le ripercussioni su quelli molto più poveri che, in maniera mistificante, vengono chiamati mercati emergenti, sono state disastrose. Le catene di valorizzazione – già meccanismi di sfruttamento acuto negli ‘emergenti’ e di precarizzazione del lavoro nei paesi ‘avanzati’ – si sono a loro volta disarticolate sia sul piano produttivo che su quello finanziario.

Gli ‘emergenti’ stanno immergendosi fin sopra la testa nella crisi. Fino a poco tempo fa giornali, riviste e siti economici dei paesi occidentali speravano in un andamento a V in cui ad una forte discesa segue una rapida salita.

Ora non ne parlano più. Con le flotte della loro aviazione civile a terra e con le compagnie che stanno smobilitando i loro grossi vettori intercontinentali inviandoli ai parcheggi-deposito nel deserto dell’Arizona e perfino nel centro dell’Australia ad Alice Springs, nei paesi occidentali si sta facendo avanti l’ipotesi che la ripresa sarà probabilmente lenta ed assai problematica.

Un certa ripresa probabilmente ci sarà ma bisogna tenere a mente che essa può avvenire con l’economia che complessivamente rimane in uno stato ancora interno alla stagnazione causata dal depressione (esempio: l’economia cala del -10% e si riprende con un 3% per poi trascinarsi con un 0,5, 1%, il che significa che dopo 10 anni non ha ancora raggiunto il livello precedente alla caduta).

Lo scenario futuro o immediatamente prossimo potrebbe far emergere diverse reattività da parte dei vari Paesi, nonostante la globalizzazione? In altre parole: la barca è la stessa, ma i passeggeri no?

In questo contesto vale la pena sottolineare che il Covid-19 ha messo in evidenza alcune fenomeni di natura strutturale. I paesi che sono riusciti a prendere in mano la situazione dopo lo sbandamento delle prime settimane che ha permesso il rapido propagarsi del virus, sono stati quelli che hanno una notevole completezza nei settori che producono macchinari e beni capitale in genere.

La Cina malgrado la forte negligenza iniziale e pur essendo ancora un paese realmente in via di sviluppo per reddito pro capite, deve essere annoverata fra questi, in cui primeggiano il Giappone, la Corea del sud e Taiwan, mentre in Europa lo stacco tra la Germania ed il resto dei grandi paesi dell’UE è netto e crescente.

Ciò è dovuto alla capacità tecnico produttiva di affrontare la crisi pandemica che gli altri paesi, inclusa la Francia, non hanno. Austria, Svizzera, quest’ultima con ritardo, e Repubblica Ceca si collocano nell’ambito tedesco e così sarebbe stato per la Svezia se non fosse per la leggerezza con cui il governo ha trattato il Covid-19 dovendosi poi scusare pubblicamente al cospetto della cittadinanza.

Al polo opposto abbiamo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, paesi importanti e altamente destrutturati sia perché hanno capacità produttive sbrindellate non coerenti tra di loro, sia per l’assetto sociale del loro sistema sanitario; gerarchicamente privato negli Stati Uniti, svuotato dall’interno – attraverso la famigerata partnership tra privato e pubblico (come in Lombardia) di blairiana memoria – nel Regno Unito.

Desta apprensione in molti osservatori la situazione degli Usa, punto chiave per l’economia mondiale. Quali potrebbero essere le conseguenze sugli assetti economici del mondo? 

Gli USA hanno le multinazionali più potenti ed aggressive al mondo forti del sostegno globale che ricevono dallo Stato americano. Esse presiedono in gran parte ad una struttura produttiva sfilacciata per le loro stesse scelte di delocalizzazione. Lo sfilacciamento colpisce ormai tutti i settori ad eccezione forse di quello delle costruzioni.

La gravità della situazione è emersa chiaramente nelle dichiarazioni del governatore dello stato di New York Mario Cuomo che lamentava le difficoltà di approvvigionamento in macchinari e di kit per attuare i test di controllo.

Giornali come il New York Times hanno riportato la dipendenza dalle importazioni cui è soggetto il sistema sanitario che sono, a loro volta, connesse alle catene di valorizzazione che partendo da tutta l’Asia sfociano negli Stati Uniti formando la rete su cui poggiano molte delle multinazionali americane.

La crisi pandemica negli USA è ancora in pieno svolgimento ed ha portato allo scoperto la vulnerabilità del paese. Per il momento non sono personalmente in grado di soppesarne la dimensione ma la sua indubbia esistenza è un fatto molto preoccupante in quanto gli USA sono la fonte principale di liquidità a livello mondiale e chiudono il circuito economico del pianeta. Non sono sostituibili.

Quali potrebbero essere gli scenari se la pandemia statunitense non si arresta?

Facciamo l’ipotesi che la crisi pandemica continui acuendo quella economica. La posizione mondiale della Cina ed il suo sviluppo intero sono altamente dipendenti dagli USA. Dopo il picco delle esportazioni nette raggiunto più o meno nei primi anni della scorsa decade la Cina ha intrapreso una massiccia politica di importazione di macchinari, beni strumentali e tecnologie varie in prevalenza dalla Germania, nonché dalla Corea del sud, dal Giappone e da Taiwan. Di conseguenza il surplus netto cinese, calcolato in rapporto al PIL si è ridotto moltissimo.

La chiave nella possibilità di continuare tale politica da parte della Cina sta nella capacità di mantenere un forte saldo attivo nei confronti degli USA. Quando questo viene minacciato le importazioni cinesi dai paesi di preferenza vengono subito ridotte.

In altri termini è il saldo attivo nei confronti degli USA che finanzia le importazioni cinesi dalla Germania e dagli altri paesi industriali necessarie al proseguimento della modernizzazione del paese. Con gli USA in crisi profonda Pechino si troverebbe scoperta con ripercussioni gravissime sull’Europa attraverso la Germania.

Nell’attuale assetto mondiale, che sul piano monetario ha origini nel 1945, gli USA sono insostituibili; non c’è alcun sistema economico o area economica del pianeta che non dipenda in maniera fondamentale dagli USA.

Il passaggio verso un nuovo assetto è impossibile se non per rotture incontrollate e attraverso crisi profondissime anche di natura bellica. La stessa moneta europea, l’euro, è profondamente dollarizzata in quanto la moneta USA costituisce la valuta di riferimento per le relazioni e transazioni interbancarie all’interno della stessa UE.

Inoltre le massicce operazioni di investimento cinesi in Africa sono a loro volta rese possibili dalle riserve in dollari di Pechino e costituiscono un fattore di dollarizzazione accentuata del continente a scapito dell’euro e del franco centroafricano ad esso connesso.

Ne consegue che la vulnerabilità USA emersa in questa crisi costituisce un serio rischio economico globale e non è solo – e nemmeno principalmente – un problema di rapporti di forze tra USA e Cina. Bisogna dire che la Federal Reserve è consapevole della situazione in quanto malgrado il degradarsi dei rapporti correnti tra gli USA e la Cina, la Fed ha da poche settimane aperto uno sportello bancario per le operazioni di dollar swaps e repo liberamente accessibile anche alla banca centrale della Repubblica Popolare Cinese.

Quale sarà il ruolo della tecnologia nella ripresa economico-sociale? E cosa pensa del digital divide e del rischio, ventilato da alcuni, per i sistemi democratici?  

Nel contesto delineato nella risposta alla domanda iniziale, si possono individuare delle tendenze interessanti ma non rassicuranti. Su Libération del 28 aprile scorso è apparsa un’intervista con Philip Mirowski dell’università di Notre Dame du Lac nello stato USA dell’Indiana. Mirowski è un filosofo ed epistemologo dell’economia e pertanto ha sempre avuto un angolo di visuale più vasto degli economisti numerici. Nell’intervista egli sostiene che è profondamente sbagliato credere che da questa crisi nasca una maggiore consapevolezza sociale.

Per Mirowski i ‘neoliberali’, contrariamente ad ogni forma di ‘sinistra’ politica (aggiungerei ad eccezione di Bernie Sanders che andò a portare le sue tesi direttamente sul terreno dell’elettorato popolare di Trump essendo l’unico tra i democratici capace di farlo), hanno tratto tutte le lezioni dalla crisi finanziaria del 2007/8 e si sono organizzati in conseguenza. Essi hanno sviluppato in maniera coerente con la visione neoliberale delle posizioni sistematiche sui temi più importanti.

La crisi, sottolinea Mirowski, ha rafforzato i detentori di ricchezza: nello stesso periodo in cui 26 milioni di lavoratori dipendenti sono stati licenziati la ricchezza dei miliardari è aumentata di 308 miliardi di dollari.

I neoliberal stanno spingendo verso ulteriori concentrazioni privatistiche del sistema sanitario aumentando la libertà di azione ed il potere monopolistico delle grandi società farmaceutiche e deliberatamente indebolendo le istituzioni federali di supervisione e controllo.

Steven Mnuchin, l’attuale segretario al Tesoro dell’amministrazione Trump, quintessenza del capitalismo opaco della finanza speculativa, è un elemento centrale nella strategia neoliberal specialmente per ciò che riguarda nella gestione dei fondi stanziati per la ripresa economica dalla crisi causata dal Covid 19.

A tal riguardo in una recente intervista al giornale e rete Naked Capitalism Thomas Ferguson, uno dei maggiori politologi USA che è anche economista, ha sottolineato come i fondi pubblici stanziati per le piccole e medie imprese in realtà vengano incanalati verso le grandi società monopolistiche mentre oltre ai licenziamenti le città stanno andando in bancarotta.

Ma è pensabile che dalla pandemia non nasca un nuovo senso collettivo bensì un’ulteriore spinta all’individualizzazione e alla privatizzazione come nel verbo neoliberal? 

La privatizzazione ed individualizzazione dell’istruzione è uno dei principali obiettivi dei neoliberali e la pandemia, nota Mirowski, ha fornito un’ottima occasione per far dei grandi passi in avanti in questo progetto attraverso l’uso di tecnologie per l’insegnamento a distanza e la riduzione dei contatti diretti.

Oggi la tecnologia non può essere assolutamente vista da un punto di vista neutrale registrabile nella rubrica ‘progresso tecnico’, ‘rivoluzione tecnologica’ e via dicendo. In realtà essa non è mai stata neutrale quasi scaturisse da un processo puramente ingegneristico. Marx docet.

Attualmente le tecnologie di punta del mondo anglo-occidentale si concentrano nelle nuove formazioni del capitale monopolistico come Google, Amazon ecc.

In un articolo recentemente uscito negli USA sulla rivista online The Intercept, ripreso interamente dal londinese Guardian, Naomi Klein descrive ed analizza la strategia di tali società nel contesto della crisi pandemica che si presenta come una grande opportunità di sviluppo non a fini sociali.

Il fondamentale pezzo della Klein si concentra sul ruolo di Eric Schmidt, già CEO di Google e ora presidente della pubblica NSCAI, National Security Commission Artificial Intelligence. Questa commissione nazionale di fatto unifica le nuove tecnologie stile Google ed il complesso militar industriale.

Uno dei principali punti concreti e attuali di contatto riguarda lo sviluppo delle tecnologie G5 in concorrenza conflittuale con la Cina che hanno una valenza altamente militare oltre che di consumo.

Fino allo scoppio della pandemia covid-19 il punto di coagulo era appunto il conflitto da sviluppare nei confronti della Cina e delle sue società in questi campi. L’arrivo del covid ha allargato l’arco d’azione in quanto ha permesso a persone come l’ex capo di Google – il quale oltre che a presiedere il NSCAI è attualmente il presidente del Defense Innnovation Advisory Board del ministero della difesa di Washington  – di spingere al massimo per l’erogazione di fondi pubblici alle attività di intelligenza artificiale partendo dalla considerazione che le persone sono dei rischi biologici mentre le macchine no.

Un mondo e una società con contatti minimi, possibilmente contactless in cui il militare, l’eternizzazione dell’emergenza sicurezza ed il possesso di metadati riguardo le persone costituiscono le caratteristiche salienti delle nuove forme del capitale monopolistico.

In tutto questo, il lavoro?

Klein osserva che non si tratta però di una società asettica senza contatti in senso stretto. Dietro i droni di Amazon ad esempio ci sono decine di migliaia di lavoratori precari impiegati nei centri di raccolta e smistamento, analoga precarietà caratterizza i dipendenti delle altre società tecnologiche cui viene dato sempre più il compito di guidare le trasformazioni infrastrutturali (a scapito delle spese per infrastrutture civili che negli USA stanno messe malissimo), istituzionali e amministrative aperte dalla pandemia.

Queste nuove forme del capitale monopolistico – che si fondono sino a confondersi col settore finanziario – si portano dietro anche il capitale monopolistico tradizionale fatto di ferraglie varie soprattutto grazie al militare.

Philip Mirowski; https://www.liberation.fr/debats/2020/04/28/l-apres-ne-sera-pas-favorable-a-une-societe-de-gauche-mais-a-une-acceleration-des-mesures-neoliberal_1786730
Thomas Ferguson: https://www.nakedcapitalism.com/2020/05/tom-ferguson-big-business-takes-cash-as-workers-laid-off-states-and-cities-go-bust.html
Naomi Klein: https://www.theguardian.com/news/2020/may/13/naomi-klein-how-big-tech-plans-to-profit-from-coronavirus-pandemic

Sulle prospettive del dopo Covid,  Stamptoscana si è rivolta all’economista Joseph Halevi. Halevi è nato a Haifa nel 1946 da madre lucchese e ha studiato a Roma, dove si è laureato nel 1975 in filosofia con una tesi in economia. Sempre nel 1975 ha lasciato l’Italia e ha insegnato economia alla New School for Social Research a New York e alla Rutgers University nel New Jersey. Ha anche insegnato per svariati anni alle Università di Grenoble, di Nizza e di Amiens. Nel periodo compreso fra il 1990 e il 2012  è stato collaboratore del Manifesto. Dal 2009 insegna economia nel programma Master di giurisprudenza presso l’International University College a Torino.

* da StampToscana

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1 Commento


  • paolo regolini

    Grande Halevi, come sempre. Grazie. Sentiamolo più speso, sempre.

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