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Una scomoda verità sulla classe operaia in Occidente

Nel 1970 la rivista Monthly Review pubblicava due contributi degli economisti marxisti Arghiri Emmanuel e Charles Bettelheim sul tema delle basi economiche della solidarietà di classe tra i lavoratori dei Paesi ricchi e dei Paesi poveri1.

Nel suo articolo Bettelheim sosteneva che la contraddizione principale, all’interno della società capitalista, è sempre quella tra capitale e lavoro. Poiché sia i lavoratori dei Paesi ricchi che quelli dei Paesi poveri vengono espropriati del proprio pluslavoro, entrambi hanno interesse a rivoltarsi contro i propri capitalisti, formando a questo scopo un’alleanza internazionale.

Al contrario di Bettelheim, che partiva dalla teoria, Emmanuel partiva dai fatti, che attestavano il coinvolgimento della grande maggioranza della classe operaia dei Paesi ricchi nella cogestione capitalista di quel tempo.

Secondo lui, contro questa evidenza valeva a poco appellarsi alla teoria, così come all’“opportunismo” o al “tradimento” del proletariato da parte di una ristretta “aristocrazia operaia”. La sua conclusione era impietosa: “Dopo un secolo di lotte sociali e politiche, le masse hanno avuto il tempo di darsi i leader e i partiti che meritano.

Per quanto le sue conclusioni fossero scomode, il metodo seguito da Emmanuel era prettamente marxista. Poiché la sovrastruttura è determinata, in ultima istanza, dalla struttura, se osserviamo che la maggioranza della classe operaia è pronta a seguire la politica della propria borghesia, è una conclusione coerentemente marxista dedurne che la classe operaia abbia interessi economici in comune con essa.

La verità scomoda proclamata da Emmanuel è dunque la seguente: nei Paesi ricchi la parte maggioritaria della classe operaia (per non parlare dei salariati in generale) migliora il proprio benessere usufruendo di una parte dei dividendi della rapina imperialista, e dunque non ha interesse materiale a formare un’alleanza internazionale con la classe operaia dei Paesi poveri.

Non vorrei concentrarmi su quali siano esattamente i canali attraverso cui fluiscono i benefici dell’imperialismo, né sulla loro entità. Tanto meno vorrei negare che questi benefici possano convivere con diffusi meccanismi di sfruttamento interno, né che i processi di sfruttamento all’interno dell’Occidente si siano intensificati negli ultimi decenni, né che esistano drammatici problemi sociali che affliggono grandi parti delle nostre società.

Neppure vorrei trascurare l’evoluzione concreta della classe operaia occidentale, dove tendenze rivoluzionarie e controrivoluzionarie si sono scontrate a lungo, talvolta violentemente, spesso sottotraccia.

La storia delle mancate rivoluzioni in Occidente è fatta di repressione violenta, quando non di vera e propria guerra interna. In altri termini, la borghesia occidentale ha svolto un ruolo attivo nel plasmare la classe operaia secondo i propri interessi, impiegando all’occorrenza il braccio violento della legge.

Ma (e questo è il punto fondamentale) se la borghesia riesce ad imporre la propria egemonia è, anche e soprattutto, perché sa impiegare a proprio beneficio la leva dell’interesse materiale immediato di gran parte della classe lavoratrice.

Torniamo così alla verità scomoda di Emmanuel, che è più che mai importante tenere presente oggi, perché siamo parte di un Occidente che vive una profondissima crisi di prospettive. L’accesa competizione politica tra un campo liberal-liberista in declino e un campo populista-reazionario in ascesa è lo specchio di una borghesia divisa come non mai tra apertura e isolamento, che trascina la classe lavoratrice occidentale nel vortice delle proprie contraddizioni.

Paradossalmente, la contestazione della globalizzazione non proviene oggi dal Sud globale, ma dall’Occidente stesso. Mentre il multipolarismo si propone di porre su nuove basi le relazioni economiche internazionali, l’Occidente agisce in modo distruttivo perché teme di perdere la propria egemonia.

La strategia neoliberale si è basata sull’idea che la convergenza verso il proprio modello economico e culturale avrebbe permesso all’Occidente di riplasmare i sistemi politici globali, archiviando definitivamente le esperienze politiche nate dai processi rivoluzionari e di decolonizzazione per sostituirli con regimi compiacenti.

In questa strategia il ruolo principale è svolto dal soft power, che esporta l’Occidente come uno spazio di libertà, opportunità e diritti per tutti, utilizzando allo scopo i propri veicoli d’influenza.

Questi ultimi vengono impiegati prima per creare e poi per mettere al potere i propri referenti interni. Quando questo programma incontra resistenza, si ricorre alla sovversione interna, ai colpi di stato, alle “rivoluzioni colorate”. Se questo ancora non basta, si gioca la carta dell’aggressione militare condotta unilateralmente o attraverso la NATO.

Nel quadro neoliberale prevale sul piano esterno la spinta verso l’integrazione, grazie ad una situazione economica fortemente asimmetrica, che porta enormi benefici al capitale occidentale. Sul piano interno, prevale la retorica dell’integrazione per assimilare le componenti migranti. In cambio di una promessa di benessere, è richiesto loro di accettare la cancellazione della propria identità e l’assimilazione incondizionata dei cosiddetti valori occidentali.

In breve, il neoliberismo prevede un controllo assoluto dell’Occidente sia sul piano internazionale che su quello interno. Quando il primo comincia a venire meno, anche il secondo comincia a scricchiolare. Prende allora forza un’opzione differente, che spinge verso una ricostruzione identitaria da spendere in una contrapposizione militare diretta con un nemico molto più difficile da affrontare rispetto al passato.

Il militarismo riprende quota come opzione prioritaria sul piano esterno, e viene accompagnato da un’ondata di politiche protezionistiche. Ne risultano potenzialmente penalizzate le sfere di capitale maggiormente competitive e innovative.

Invece, dalla svolta protezionista traggono beneficio i settori meno competitivi, più legati al mercato interno e alla spesa pubblica, in particolare militare. Questa è la base economica della drammatica frattura politica all’interno delle élite occidentali.

La costruzione del consenso per l’opzione populista-reazionaria passa attraverso l’appello alla difesa degli interessi immediati del proletariato bianco in contrapposizione con quelli del proletariato multinazionale. La responsabilità delle difficoltà economiche viene attribuita alla concorrenza esterna, sia essa rappresentata dall’immigrazione o dalle merci cinesi.

Le suggestioni del protezionismo e di un welfare ridefinito su basi razziali vengono proposte alle componenti più impoverite della popolazione bianca, così come alle componenti più integrate della classe lavoratrice, quali risposte capaci di preservare quel benessere che il sistema non riesce più ad assicurare.

Non dovrebbe sorprenderci che queste suggestioni riscuotano il consenso di ampi strati popolari. Ne risulta confermata una volta di più la scomoda verità di Emmanuel, ovvero che una parte importante del proletariato è disposta a seguire la propria borghesia, come ieri sul piano della compatibilità socialdemocratica, così oggi sul piano populista-reazionario.

Questa componente forma la massa di manovra necessaria per disciplinare sul fronte interno il proletariato multinazionale, così come per spingere la società sul piano inclinato della guerra. Per entrambi i compiti risulta funzionale la riproposizione di una gerarchia razziale basata sul suprematismo bianco, che sta prendendo piede in termini sempre più espliciti.

Arriviamo così alle conclusioni operative del ragionamento. In primo luogo, non ci dovremmo stupire che spezzoni delle classi lavoratrici occidentali si mobilitino in senso reazionario, dati i fattori strutturali e sovrastrutturali all’opera nelle società imperialiste.

In secondo luogo, non dovremmo mai giustificare chi si lascia guidare dall’odio razziale, e dovremmo considerare come compagno di strada solo chi è pronto ad aprirsi al mondo intero in uno spirito di fratellanza. In terzo luogo, è urgente rafforzare all’interno delle società occidentali la lotta per la pace e per la fratellanza tra tutti i popoli.

Le bandiere palestinesi che sventolavano nelle manifestazioni antifasciste nel Regno Unito ci indicano la via da seguire, perché lanciano un messaggio di solidarietà che non può essere manipolato o strumentalizzato.

All’opposto, la censura della solidarietà con la Palestina nelle manifestazioni anti-AfD in Germania mostra i limiti di una sinistra occidentale che ancora non ha fatto i conti con il proprio passato e che tende a riproporne i canoni coloniali.

La sinistra neoliberale non può contrapporsi alla destra perché ne condivide gli obiettivi di fondo. Ma la sinistra radicale non può contrapporsi alla sinistra neoliberale se accetta le medesime compatibilità e ne segue la medesima logica in politica estera. La solidarietà internazionale è il migliore antidoto alle strumentalizzazioni, perché la lotta di liberazione dei popoli oppressi non è compatibile né con il razzismo né con il cosmopolitismo neoliberale.

Allo stesso modo, dovremmo avere ben chiaro che la lotta per la pace, per la libertà e la pari dignità di tutti i popoli è incompatibile con il nazionalismo e il protezionismo, tanto quanto lo è con il militarismo. Si tratta di porre la globalizzazione su nuove basi per procedere sulla via della solidarietà internazionale e del socialismo, non di ritornare verso un passato che non ha niente di positivo da offrire.

1 Sono debitore a Francesco Macheda di questa segnalazione.

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