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Crisi della democrazia liberale ed egemonia gramsciana

L’incoronazione di Kamala Harris si è verificata all’interno di una convention democratica che ha mostrato per intero tutta la difficoltà che sta attraversando il modello di democrazia liberale che gli USA hanno voluto/saputo imporre/proporre a tutto il mondo occidentale dopo la caduta del muro di Berlino con l’assunzione dei concetti di “fine della storia” e di “gendarme del mondo” che ne sono derivati con relativo scivolamento nella “guerra di civiltà”.

A Chicago tutti i leader dell’asinello si sono rifugiati dentro il recinto dei grandi valori repubblicani (ne parla Nichols in una intervista al “Corriere della Sera”) rinunciando a declinarli in una progettualità concreta che definisse – almeno – l’orizzonte di un sistema da modificare.

Anche la sinistra di Sanders e Ocasio Cortez ha fatto a meno di evidenziare la necessità proprio di delineare un quadro di sistema su cui proprio l’ultimo lavoro di Bernie Sanders si era comunque addentrato.

L’esclusione dei militanti pro-Palestina ha rappresentato il punto di maggiore evidenza di questa difficoltà nella rinunzia a fare della pace l’emblema di una prospettiva epocale, proseguendo invece oggettivamente sulla linea portata avanti dall’amministrazione Biden.

Non è però il dettaglio rappresentato dall’esito della convention di Chicago ad interessarci maggiormente, bensì il fatto che in quella sede siano emerse per intero le ragioni di questa crisi. Ragioni che derivano dal mancato riconoscimento dell’incapacità espressa dalla democrazia liberale classica (occidentale, bianca, a prevalenza maschile) ad affrontare il tema dell’uguaglianza.

Caduto il sistema sovietico, modificato nel profondo quello cinese e preso atto dell’impossibilità di riforma – da quella parte – in senso democratico, gli epigoni della democrazia liberale dovrebbero riconoscere prima degli altri la difficoltà di porsi sul terreno egualitario: intendiamo l’eguaglianza di fondo non semplicemente quella borghese emersa dalla Rivoluzione dell’89.

Dall’Italia può arrivare un grande contributo di pensiero rielaborando il concetto di egemonia gramsciana: concepire il dominio politico come qualcosa che và al di là dello stato e del mercato e che si colloca nella sfera della cultura e della società.

Per uscire dalla transizione si dovrebbe uscire da una politica condotta nei termini esistenti del dibattito (guerra di movimento, secondo Gramsci) a una guerra di posizione con l’obiettivo della definizione di un nuovo ordine da realizzarsi attraverso l’espressione di una nuova filosofia pubblica e un programma politico incentrato sul superamento di una organizzazione sociale incentrata sull’individualismo competitivo e consumistico

Si tratta di delineare una visione postliberale evitando forme rozze di solidarietà costruite sull’omogeneità etica o religiosa: si tratta di ricercare – invece – l’eredità pluralista delle tradizioni etiche forgiate nell’800 e nel ‘900; in sostanza il postliberalismo non deve sostituire la vecchia opposizione sinistra vs.destra (considerate ancora valide le argomentazioni di Norberto Bobbio), nè contrapposizioni apparentemente più moderne come quelle tra liberalismo e populismo aggiornandole in relazione all’emergenza scaturita della complessità delle contraddizioni in atto

Come abbiamo visto l’esito del ‘900 ha dimostrato che tra Stato e Classe il nodo teorico non è stato risolto. Un nodo che riguarda ancora la dimensione etica degli scopi del “governo” poiché proprio l’esito del ‘900 ha posto il problema di verificare fin dove potesse spingersi l’azione di un governo che volesse salvaguardare non solo i diritti negativi (di non interferenza: si può fare tutto quello che non è vietato) dei cittadini, ma anche i diritti positivi, ossia l’estensione a fasce sempre più vaste della popolazione dei diritti di tutela sociale, salute, istruzione, assistenza, fino all’eguaglianza nell’accesso alle risorse disponibili (salvo il grande interrogativo orwelliano, sugli alcuni più eguali degli altri).

Le domanda finali riguarderebbero:

1) La radicalità della natura del razzismo emergente e consolidatosi sia dal punto di vista della paura del “diverso” e soprattutto della “diversa” anche questa è vicina, anzi accanto;

2) il chi espande e tutela i diritti della natura, già così fortemente compromessi da un’antropizzazione esasperata che attraverso la logica del consumo non riconosce più differenze di status e di scansione sociale in una sorta di “omogeneizzazione al ribasso”? Come questi diritti della natura possono intrecciarsi, o restare irrimediabilmente conflittuali, con quelli della tensione al permanere della disuguaglianza versus la tensione all’eguaglianza e alla fine dello sfruttamento umano

3) L’altro punto è quello di fornire una risposta riguarda la consapevolezza che nell’applicazione del dominio della scienza e dei suoi effetti tecnologici emerge sempre un rapporto mercificante tra soggetto e oggetto in una forma sempre più piena come dimostrato dalla realtà della comunicazione sociale. E’ necessario essere capaci di esercitare una funzione critica sulla violenza che la tecnica, frutto della scienza del dominio, esprime implicitamente.  Serve una critica che reclami il recupero delle finalità umanistiche che avevano contraddistinto l’emergere della civiltà moderna, anche attraverso l’espressione delle utopie egualitarie e della “critica all’economia politica”.

Tutte contraddizioni irrisolte che si collocano oltre l’usato schema di Rokkan della “contraddizione principale” e di quelle (città/campagna, religione/stato; centro/periferia intrecciate ad essa).

Riconoscersi quindi nell’interrogativo della ricerca di Thomas Piketty in “Capitale e Ideologia”? Come può la politica trasformare questi interrogativi in una nuova “incarnazione storica”?

Sarebbe necessario il recupero dell’impianto gramsciano dell’egemonia in un quadro di rinnovata tensione verso la trasformazione sociale e le nuove fratture emergenti nel moderno conflitto sociale.

Nel quadro immediato rimane il tema della soggettività politica e forse è questo il punto più irrisolto di un possibile dibattito.

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5 Commenti


  • Enea Bontempi

    Il marxismo di Gramsci, di cui la teoria dell’egemonia è la sublimazione, è para-marxismo derivante dal rovesciarsi del marxismo stesso in idealismo. Riproporlo oggi significa riproporre tutta una serie di mistificazioni. Gramsci è stato una rilevante e degnissima figura di militante comunista, ma il suo pensiero, considerato nell’interezza della sua parabola, appare teoreticamente debole. D’altra parte, la crisi attuale della democrazia borghese-imperialistica deve costituire la premessa storico-materiale di una critica radicale della democrazia esistente, in cui, dal punto di vista degli interessi del proletariato, non vi è più nulla da salvare perché è tutta spazzatura da smaltire, non da riciclare…


  • Oigroig

    Gramsci aveva visto fin troppo bene i limiti del leninismo e aveva cercato di mostrare che non vi era UNA SOLA VIA alla rivoluzione e non a caso nel mondo non-occidentale è un autore tradotto, ripubblicato e letto… Gramsci aveva capito che le aristocrazie operaie di fabbrica erano la premessa alla cooptazione nella piccola borghesia o al capitalismo di stato… Così come aveva capito che contrastare il latifondo con la piccola proprietà contadina era cooptazione di braccianti e mezzadri nella piccola borghesia… Ha visto molto bene i pericoli che ci aspettavano. Oggi abbiamo solo sfruttati e sfruttatori, perché parlare di “proletariato” senza che vi sia coscienza di classe questo si è idealismo…


    • Redazione Contropiano

      Non attribuiremmo a nessuno capacità profetiche sui dettagli… E’ già molto che qualcuno abbia individuato le leggi di movimento della Storia e le leggi del Capitale….
      Anche la categoria di “proletariato” – “coloro che hanno come unica ricchezza i figli” – non implica alcuna “coscienza”, ma indica un “in sé”. E nel mondo attuale è messa in discussione dal calo demografico…
      Meno ideologia, più analisi concreta della situazione concreta…


  • Oigroig

    Quale calo demografico? siamo passati da 3 miliardi di persone nel 1960 a 8 miliardi di persone attuali e non sono tutti benestanti… In latino proletarius vuol dire che è privo di averi e non fa parte di alcun certo sociale (la derivazione da prole è un luogo comune senza fondamento). Per Marx è l’operaio salariato a cui viene sottratto parte del valore che produce. Il proletario è un “in sé”, certo, ma il proletariato…? Quanto alle profezie, Wells parlava delle “profezie razionali”. Ci sono analisi che ci fanno prevedere l’avvenire e Gramsci è un comunista del nostro tempo…


  • Enea Bontempi

    Gramsci, pur essendosi imposto moralmente di agire come un militante impegnato in senso rivoluzionario, è rimasto sempre teoricamente un liberale di sinistra (il che spiega anche il relativo successo ottenuto nel campo socialdemocratico sia occidentale sia non-occidentale). Per quanto riguarda il carattere in ultima istanza non-marxista del pensiero di Gramsci, sono quindi fondamentali le seguenti precisazioni critiche: un marxismo ridotto a mera metodologia, l’inadeguatezza dell’analisi gramsciana rispetto alla realtà tardo-capitalistica, l’idealismo soggettivo che caratterizza la sua concezione politica ed impregna la filosofia della prassi, una nozione generica di democrazia che vanifica la tematica della dittatura del proletariato, un modo puramente formale di intendere la politica che ne fa una categoria vuota, la regressione da Marx a Ricardo nella interpretazione della teoria del valore. Mi pare che basti per fissare la tragica inadeguatezza del pensiero gramsciano nella contraddittorietà e nella fragilità che l’hanno contraddistinto.

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