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La diplomazia americana tra la Russia e la Cina e la vendetta inglese contro la Germania

Per l’Ucraina non c’è niente da inventarsi, basta replicare la sceneggiatura del Vietnam: dalle partite di ping-pong che riaprirono il dialogo con i cinesi ai tempi di Mao Zedong agli incontri di hockey su ghiaccio ora programmati con i russi di Vladimir Putin, la politica americana sta girando il sequel della grande svolta diplomatica suggerita da Henry Kissinger all’allora presidente Richard Nixon

Donald Trump sta riproponendo il durissimo processo politico che portó alla fine del conflitto in Vietnam, combattuto in nome di libertà e democrazia a difesa del Sud aggredito dai comunisti del Nord armati dalla Cina.

La via della diplomazia

Anche il presidente ucraino Volodymir Zelensky è rappresentato oggi come un eroe, ricevuto con ogni onore in Occidente, da Londra a Bruxelles: tutto come era stato per Ngô Dinh Diem, il presidente sudvietnamita soprannominato il «Churchill dell’Asia sud-orientale» per l’impegno a difesa dei valori dell’Occidente. Fece una brutta fine, abbandonato da chi tanto lo aveva sostenuto.

I colloqui tra Trump e Vladimir Putin ripropongono il copione kissingeriano con cui l’America propose alla Cina una «porta aperta» sul mondo intero, quella che trent’anni più tardi, nel 2001, le garantí con la presidenza Clinton l’ingresso nel Wto a condizioni di favore: era l’Urss allora il competitor degli Usa, che li aveva surclassati nella corsa allo spazio mentre tesseva ovunque relazioni politiche e militari. D’altra parte oggi è la Cina, e non la Russia, che sfida gli Usa per il ruolo di grande potenza.

Un continuo mutare delle relazioni politiche

Gli Usa abbandonano la strategia di Zbigniew Brezninsky, il consigliere subentrato ai tempi della presidenza di Jimmy Carter: è stato lui il teorico della destabilizzazione dell’Heartland asiatico e di tutte le altre aree in cui gli Usa non riuscivano a imporsi. Questa è stata la stella polare della politica estera americana a partire dal 1978: un continuum che si è snodato tra l’abbandono dello Scià di Persia Reza Pahalevi e il dissimulato sostegno al rientro a Teheran dell’Ayatollah Khomeini.

Una strategia perseguita col sostegno dato ai Talebani in Afganistan affinché trasformassero l’invasione sovietica in un Vietnam, con le due guerre del Golfo combattute dai Bush e con le Primavere Arabe sostenute da Barack Obama, fino al conflitto in Ucraina che prende le mosse dalla progressiva estensione della Nato, processo che era stato dichiarato inaccettabile da Putin sin dalla Conferenza di Monaco del 2007.

D’altra parte, anche Ronald Reagan non fece altro che perseguire la destabilizzazione dell’Urss, provocandone il collasso: la caduta del Muro di Berlino era stata la sua scommessa e fu il suo trionfo.

La strategia degli Stati Uniti

Ma l’Occidente è profondamente diviso: si marca profonda come mai, oggi, la distanza tra la strategia nei confronti della Russia che viene perseguita da Trump rispetto a quella del premier britannico Keir Starmer. Non solo gli Usa vivono in una dimensione continentale, e coltivano con Trump la prospettiva che fu già di James Monroe di controllarla tutta emancipando le ex-colonie europee, ma ora tornano a operare come una sorta di pendolo che oscilla dalla Cina alla Russia per evitarne un’ulteriore, pericolosa saldatura.

La Gran Bretagna invece non riesce a superare la sindrome dell’isolamento che la colloca alla periferia dell’Europa obbligandola a intervenire per evitare la altrettanto pericolosa saldatura tra Germania e Russia che si era palesata durante il lungo cancellierato di Angela Merkel e che si era addirittura estesa alla Cina, la quale aveva superato gli Usa come primo partner commerciale tedesco.

La reazione della Gran Bretagna

Si torna alle radici profonde della Brexit: il premier David Cameron aveva ragione quando si opponeva alle prepotenze della Germania, visto che mentre la City aveva assorbito senza fare un lamento le enormi perdite sui prestiti erogati all’Irlanda, la Germania aveva fatto fuoco e fiamme per sostenere il proprio sistema bancario dopo il default di quello spagnolo e della Grecia intera.

Mancando l’unanimità dell’Unione per via dell’opposizione di Londra, Berlino impose comunque la sottoscrizione di Trattati paralleli per irrigidire le regole di bilancio col Fiscal Compact e per istituire l’Esm, il Fondo Salva-Stati che in realtà serve tuttora a proteggere l’euro dal collasso e dunque a blindare la cassaforte di Berlino.

Davvero troppo per Londra, che si è vendicata di questi soprusi puntando tutto sulla Polonia come antemurale storicamente ostile alla Russia e usando il cuneo dell’Ucraina per dichiararla nemico esistenziale dell’Europa. Tutto per perseguire l’obiettivo di sempre: azzoppare la Germania. Un esito, quest’ultimo, che stavolta non dispiace neppure a Trump: più che tardivo, il riallineamento strategico-militare e fiscale del cancelliere in pectore Friedrich Merz è dunque del tutto inutile, visto che all’asse franco-tedesco è subentrata una nuova entente cordiale, levatrice del nuovo ombrello nucleare che proteggerà l’Europa.

Sta tutta qui la solitudine in cui si trovano le leadership europee: incapaci in più di trent’anni di creare uno strumento di sicurezza collettivo nei confronti della Russia, si sono cullate nella bambagia della Nato e si sono fatte dominare dagli interessi della Germania, unico Paese che si è fatto straricco con l’euro a discapito di tutti gli altri.

Questa Storia non si cancella. E soprattutto non se ne inventa una nuova da un giorno all’altro.

* da Milano Finanza

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