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Lo sgombero del Leoncavallo, un segnale politico

I commenti, le riflessioni, le informazioni supplementari, in casi come questo, esplodono in numero e profondità. Abbiamo scelto alcuni di quelli che si sono giunti o viaggiano sui social per cercare di ricostruire sia la complessità della storia del centro sociale Leoncavallo – non è certo il momento di stare a rimarcare “le differenze tra i compagni Leonka e noi” – perché ci sono sembrati utili a inquadrare alcuni degli aspetti più significativi.

E’ solare che lo sgombero sia soprattutto un segnale politico, che prende di mira un “simbolo” della galassia antagonista (o ex), al di fuori di qualsiasi possibilità di invocare ragioni di “necessità e urgenza” o “di sicurezza” – il Leoncavallo, in questi giorni di fine agosto, era semplicemente vuoto.

Un’operazione di “distrazione di massa”, propagandistica, in un momento complicato per un governo che deve districarsi tra riarmo di guerra, tagli sociali, trattative di pace comunque sgradite e difficilmente gestibili, in cui palesemente non conta un tubo. 

E’ solare anche che “l’operazione” è direttamente un assist benevolo per quella speculazione edilizia strettamente milanese che trasforma capannoni abbandonati in grattacieli senza alcuna autorizzazione pubblica, in base a una semplice “Scia” (un’autocertificazione, in pratica). E proprio mentre la magistratura ne va rivelando meccanismi e protagonisti (molti del Pd, oltre ai palazzinari e agli archistar, perché il “modello Milano” accomuna tutta la politica presente in Parlamento).

Va infine sottolineata la “faccia di tolla” con cui si ascrive questa miseranda esibizione di forza contro il nulla a una immaginaria “legalità da ripristinare”. Sarebbe poco credibile qualsiasi fosse il governo che pretende di barricarsi dietro una simile retorica. ma se a farlo è un governo che comprende…

beh, non ci sono parole adeguate…

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Solidali con il Leocavallo, sgomberato in una continua ondata di repressione

Dopo le perquisizioni contro il Movimento per l’Abitare di Roma, lo sgombero dell’occupazione abitativa di Ci Siamo a Milano, sempre a Milano è arrivato stamattina lo sgombero del Leoncavallo. È solo un’ulteriore tappa di un piano repressivo che coinvolge il paese a tutto tondo.

Nella democratura che è ormai l’Italia, ogni forma di dissenso verso le politiche antisociali, repressive e di guerra portate avanti dal governo e condivise dall’opposizione viene colpita con durezza.

Ne fanno le spese gli spazi sociali e di solidarietà, chi si batte per il diritto alla casa, le organizzazioni sindacali conflittuali e quelle studentesche, fino ai movimenti politici indipendenti come il nostro che hanno subito per mesi infiltrazioni di polizia.

Contro queste derive, l’unica strada praticabile è quella di rilanciare l’opposizione sociale e politica indipendente nel paese!

Marta Collot, portavoce nazionale di Potere al Popolo

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Lo sgombero del Leoncavallo, avvenuto all’alba del 20 agosto 2025, non è soltanto la chiusura fisica di un luogo. È l’epilogo provvisorio di un ciclo di lotte, di contraddizioni e di resistenze che hanno attraversato Milano per oltre cinquant’anni.

È il segno tangibile di una trasformazione storica: quella della città da terreno di conflitto sociale a laboratorio di pacificazione neoliberale, dove la rendita immobiliare, l’ordine securitario e la valorizzazione del capitale si intrecciano in modo inscindibile.

Il Leoncavallo non era solo un centro sociale. Era una memoria incarnata. Era la materializzazione di un’altra idea di città: una città non piegata al profitto, non subordinata alla logica della valorizzazione mercantile dello spazio.

Per questo la sua esistenza era, fin dall’inizio, intollerabile per le classi dominanti. Non era una concessione da tollerare, non era un residuo pittoresco del passato: era una ferita aperta nella cartografia della città-merce.

Ogni murales, ogni concerto, ogni assemblea era la dimostrazione vivente che lo spazio urbano poteva essere sottratto al feticcio della proprietà privata. Ed è questo che la borghesia odia e teme: non l’atto episodico di protesta, ma l’esistenza materiale di un contro-esempio.

Non è un caso che lo sgombero sia avvenuto in un contesto in cui la città è attraversata da scandali legati alle giunte, agli appalti, ai giochi sporchi dei palazzinari protetti da Palazzo Marino. Mentre la rendita immobiliare continua a dettare legge, mentre la città si consegna alle speculazioni, ai grandi eventi e alla trasformazione in vetrina turistica, si decide di abbattere ciò che resta di un’esperienza di autogestione collettiva.

Qui il nesso è cristallino: lo Stato difende con ogni mezzo la proprietà, la rendita e il capitale; al contempo reprime, criminalizza e cancella ciò che non si lascia mercificare.

Il paradosso tragico è stato reso evidente anche dalla vicenda di Marina Boer, storica militante legata al Leoncavallo, costretta a rispondere in tribunale a una richiesta economica assurda: centinaia di migliaia di euro che nessuna singola persona, meno che mai una donna di quasi ottant’anni, avrebbe mai potuto pagare.

La sua colpa? Aver rappresentato, per anni, un punto di riferimento organizzativo di uno spazio che non riconosceva la sacralità della proprietà privata. Lo Stato borghese, incapace di intaccare i profitti di chi devasta i quartieri con speculazioni edilizie e corruzione, non ha esitato a perseguitare una militante anziana per “danni” presunti.

Qui la funzione di classe è evidente: lo Stato difende la proprietà e punisce chi l’ha messa in discussione. Lo fa non solo con la forza fisica della polizia, ma anche con la violenza fredda dei tribunali, del debito, delle richieste economiche che schiacciano individui isolati.

È la repressione nella sua forma più brutale e più ipocrita: quella che trasforma un militante in debitore insolvente, che non punisce la corruzione dei palazzi ma la passione politica di chi ha vissuto per costruire spazi di socialità dal basso.

Trent’anni fa, uno sgombero del genere avrebbe incendiato la città. Negli anni ’90, ogni tentativo di cancellare il Leoncavallo produceva mobilitazioni di massa, cortei, scontri, barricate, centinaia di persone pronte a difendere fisicamente lo spazio. Non era romanticismo: era la forza di una composizione sociale viva, capace di trasformare la repressione in detonatore.

Non dimentichiamo il 1989, quando lo sgombero portò a giornate intere di scontri; o il 1994, quando la pressione dal basso fu tale da costringere le istituzioni a retrocedere, e la polizia si trovò letteralmente costretta a lasciare la strada di fronte a un movimento che non aveva paura. Allora, la contraddizione era visibile, palpabile: c’era un proletariato urbano che riconosceva nel Leoncavallo una casa politica, un simbolo, una difesa materiale delle proprie condizioni di vita.

Oggi, invece, l’alba dello sgombero non ha generato alcuna sollevazione. Nessun corteo selvaggio, nessuna massa pronta a riconquistare lo spazio. Solo poche decine di militanti, isolati, circondati da un apparato repressivo che ha agito chirurgicamente, senza concedere il tempo di reagire.

La differenza non sta nell’assenza della contraddizione: il proletariato urbano esiste ancora, la precarietà, la disoccupazione, gli affitti insostenibili gridano la stessa violenza sociale di allora. Ma quella violenza non si traduce più in conflitto aperto.

Le condizioni materiali ci sarebbero tutte, eppure la rabbia non diventa organizzazione. Perché?

Perché il capitale ha imparato a neutralizzare. Ha frammentato, precarizzato, individualizzato. Ha reso la vita quotidiana una corsa al reddito e alla sopravvivenza, togliendo respiro alla possibilità di lottare collettivamente. Ha colonizzato l’immaginario, presentando la precarietà come condizione naturale e ineluttabile. Ha trasformato la stessa idea di conflitto in un rischio individuale troppo alto da sostenere.

È questo il vero trionfo del neoliberismo: non la fine delle contraddizioni, ma la loro gestione preventiva, la loro neutralizzazione permanente.

In questo senso, lo sgombero del Leoncavallo è un paradigma. Non racconta solo la storia di uno spazio, ma la traiettoria della città e del suo proletariato.

Milano, che fu capitale di lotte operaie, di mobilitazioni studentesche, di resistenze urbane, è diventata la capitale della rendita e della valorizzazione turistica. La sua borghesia ha imparato che non serve più lo scontro frontale: basta il tempo, basta l’erosione lenta, basta il dispositivo securitario che isola, criminalizza, svuota.

La polizia di oggi non deve più arretrare: agisce chirurgicamente, con precisione, sapendo che dall’altra parte non troverà più le masse di trent’anni fa. Questo è il risultato di un ciclo lungo di controffensiva capitalistica, che ha disarmato la composizione di classe e trasformato la città in laboratorio di pacificazione.

Ma attenzione: lo sgombero del Leoncavallo non è un episodio isolato. È parte di una traiettoria globale. Ovunque in Europa gli spazi autogestiti vengono sgomberati, ridotti a residui ornamentali, integrati o repressi. A Berlino, i progetti storici sono stati schiacciati sotto la pressione immobiliare; a Barcellona, le giunte progressiste hanno cooptato o cancellato le esperienze di lotta urbana; ad Atene, gli spazi nati durante la crisi sono stati sgomberati sistematicamente negli ultimi anni.

È la stessa logica che attraversa l’Europa: trasformare ogni spazio in merce, ogni vuoto in rendita, ogni deviazione in anomalia da eliminare.

Che cosa resta, allora? Resta l’amarezza di un ciclo che sembra chiudersi. Resta la consapevolezza che oggi, diversamente da trent’anni fa, lo sgombero non ha generato scintille. Resta la lezione amara che il capitale non vince perché elimina le contraddizioni, ma perché le neutralizza, le addomestica, le trasforma in impotenza sociale.

Il proletariato urbano esiste ancora, ma è frammentato, ricattato, disperso. La gioventù precaria non trova più luoghi stabili in cui organizzarsi. La memoria delle lotte viene continuamente riscritta, marginalizzata, ridotta a “storia passata”.

Eppure, proprio in questa amarezza c’è un lascito. Lo sgombero del Leoncavallo segna la fine di un ciclo, ma mostra anche l’incompletezza della pacificazione. Perché la contraddizione resta. Perché la precarietà, gli affitti impossibili, la gentrificazione non smettono di produrre rabbia sociale.

Oggi non si traduce in conflitto, ma nulla garantisce che sarà così per sempre. Il capitale crede di aver chiuso una pagina: in realtà, ha solo spostato la linea del fronte. L’assenza di mobilitazione non è un destino eterno, è una fase. La storia insegna che ciò che appare pacificato può tornare a esplodere.

E se il Leoncavallo non tornerà, se i suoi cancelli resteranno chiusi, resta comunque la memoria di un’esperienza che ha segnato generazioni e che dimostra una verità ineludibile: lo spazio urbano non è neutro, è terreno di scontro di classe.

Lo sgombero del Leoncavallo sembra un epilogo. Ma ogni epilogo porta con sé la possibilità di una nuova apertura. Non sappiamo se torneranno occupazioni, non sappiamo se nuovi spazi nasceranno. Ma sappiamo che la contraddizione resta intatta, che la città neoliberale non potrà cancellare per sempre il ricordo – e la possibilità – di una Milano diversa, non piegata al mercato.

Questa è la lezione amara, ma necessaria, che il 20 agosto 2025 consegna alla storia.

Chiara Pannullo

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Milano, 21 agosto 2025. All’alba blindati e caschi blu hanno circondato via Watteau. Quartiere militarizzato, strade chiuse, manganelli in pugno. Così è stato eseguito lo sgombero del Leoncavallo: tre settimane prima rispetto alla data prevista. Un colpo di mano, deciso dal governo in piena estate, per cancellare cinquant’anni di storia.

Il Leoncavallo nasce nel 1975, in una Milano spaccata: da una parte palazzi che si alzano come fortezze di cemento; dall’altra i quartieri# schiacciati dalla crisi, dove l’eroina comincia a dilagare come una condanna silenziosa.

La città è vetrina per pochi e discarica per molti. È in questo vuoto che nasce l’occupazione di via Leoncavallo 22. Non un circolo ricreativo, ma un laboratorio: asilo nido, doposcuola, consultorio, mensa popolare, scuola popolare, radio libera.

Il Leoncavallo è la risposta collettiva a una città ostile. È l’atto con cui un gruppo di militanti dice: “non chiediamo, costruiamo”.

Milano nel ’75 è la metropoli del comando capitalistico, ma anche la città dei movimenti operai e studenteschi. Il Leoncavallo si inserisce in questa scia: uno spazio in cui chi era invisibile diventa visibile, chi era muto prende parola, chi era isolato trova comunità. La città non appartiene ai palazzinari né ai politici, ma a chi la vive, la attraversa, la abita.

La città corre a due velocità. In superficie, la capitale della finanza, della moda, delle fiere: un laboratorio di modernità che piace ai giornali e ai padroni. Sotto, nei quartieri popolari, la crisi morde. Le grandi fabbriche iniziano a chiudere, a frammentarsi. I più giovani crescono in un vuoto che non offre nulla se non lavoro precario o espulsione.

La speculazione edilizia divora interi pezzi di città. Magazzini, fabbriche, spazi industriali dismessi vengono lasciati a marcire: scheletri vuoti, in attesa di rivalutazioni immobiliari. Sono “buchi neri”.

L’eroina comincia a scorrere nelle vene della città. Non è un incidente: è un progetto. Serve a disinnescare una generazione che non accetta di piegarsi. Nei cortili popolari, nei bar di quartiere, l’eroina arriva puntuale come una condanna. È dentro questa geografia ostile che nasce l’idea di occupare il Leoncavallo.

Dentro quelle mura inizia a crescere una Milano sotterranea, che non accetta di essere ridotta a manodopera, cliente o tossico. Se la città è profitto, il Leoncavallo è gratuità. Se la città è solitudine, il Leoncavallo è comunità.

Il 18 marzo 1978 il sangue di Fausto e Iaio, uccisi dai fascisti mentre indagavano sul traffico di eroina, marchia la storia del centro. Le Mamme del Leoncavallo diventano simbolo di resistenza civile. Negli anni ’80 il centro si fa laboratorio contro il nucleare, contro la droga, contro la repressione.

Sgomberato una prima volta nel 1994, il Leoncavallo rinasce più forte in via Watteau, dove in 31 anni diventa un punto di riferimento internazionale: concerti, assemblee, feste popolari, orti urbani, dibattiti, solidarietà attiva. Una città altra, viva, libera.

Oggi lo Stato parla di “ripristino della legalità”. In realtà ha cancellato un pezzo di immaginario collettivo. Non era paura di muri occupati: era paura di ciò che dentro quei muri si è costruito. Autogestione, solidarietà, libertà concreta.

Il ministro dell’Interno brinda alla “fine di un’anomalia”. Ma la vera anomalia, per decenni, è stata che Milano, dietro le facciate di vetro e cemento, continuasse a respirare un respiro ostinato, un cuore che batteva per conto proprio, di chi non riconosce legge se non quella della solidarietà e della libertà.

Alfredo Facchini

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Da un paio d’anni davanti alla sede occupata del Leoncavallo in via Watteau hanno costruito una bella torre, 62 appartamenti in agili undici piani, una di quelle torri che son piaciute tanto in questi anni a Milano, di quelle con gli appartamenti «esclusivi» a 4.500-5 mila euro al metro quadro.

L’hanno chiamata con quei nomi roboanti che danno alle nuove costruzioni a Milano – questa è Theorema Building – e sorge lì, in via De Marchi, dove una volta c’erano dei vecchi fabbricati, ovviamente più bassi. Lì l’hanno costruita, proprio a due passi dal Leonka e quando c’erano ancora appartamenti liberi te li facevano vedere poi l’agente immobiliare ti diceva: «Eh qui poi, vabbè, c’è il Leoncavallo che non è il massimo, però tranquilli che tanto poi lo sgomberano».

E certo le famiglie che andavano a vedere quei begli appartamenti un po’ storcevano il naso, chissà cosa pensavano, per questo dramma d’avere il Leonka lì, a due passi. Però dai, poi guardavi il palazzo e pensavi: «Ma che bello, che bel palazzo, chissenefrega del centro sociale».

Certo, a guardare bene, ma proprio bene – cioè, a dir la verità si vede anche proprio senza un’attentissima osservazione, ma chi sono io in fondo per farvelo notare – se ti mettevi davanti al palazzo notavi che proprio a pochi metri, nel giardino condominiale, ci passava una cosa strana: un binario della ferrovia di Greco! Proprio un binario sano, uno di quelli dei treni, veri! E dicevi: «Vabbè, dai, un binario, che vuoi che sia!», perché si sa che in fondo oh, se una casa ti serve, ti serve, qualunque essa sia.

Allora poi queste famiglie facevano il giro del palazzo e scoprivano una cosa *incredibile*. E cioè che pure sul retro c’era un binario, un altro binario, sempre dello scalo di Greco che alla fine – cosa bizzarra! – è proprio lì a due passi! E che fortuna incredibile, DUE binari, uno davanti e uno dietro la casa che potevi comprare a soli 4-500 mila euro! E ti facevano anche lo sconto sisma: «84 mila euro che vengono subito detratti dal costo totale!», diceva fierissimo quell’agente immobiliare.

Dio, che fortuna. Ti compri casa in mezzo a un cortile dove avanti e dietro stanno due bei binari, e c’hai pure lo sconto. E ti hanno anche sgomberato pure il Leonka.

Che a noi gli stabili occupati per fare politica e cultura non ci piacciono, però le torri in mezzo al niente circondate dai binari coi treni che rischiano di entrarti in casa, a 4-5 mila euro al metro quadro, ci piacciono un casino.

[E questo è tutto quello che ho da dire sul Leoncavallo sgomberato da Salvini e i suoi sodali, all’insaputa del sindaco]” 

Chiara Baldi, giornalista romana trasferita a Milano

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1 Commento


  • Oigroig

    Benjamin ha mostrato che la violenza (Gewalt) crea diritto… Prima le stragi fasciste, poi Genova 2001, poi una miriade di continue violenze statali hanno piegato il diritto liberal-borghese all’auroritarismo fascistoide di oggi. Nell’ autunno del 1994 il corteo dell’Opposizione sociale, fatto da decine di migliaia di persone, inseguì la polizia che scappò e non vi furono conseguenze giuridiche, ma quell’episodio creò una libertà d’azione per i movimenti sociali (poi ristretta da Rifondazione, disobbedienti, ecc.). Sono i gesti di rottura che creano libertà, ma oggi sembrano impossibili. Vogliono convincerci che siano impossibili e che li si pagherebbe cari… Ma senza, andrà sempre peggio e poi la guerra che preparano cancellerà anche questa possibilità.

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