La crisi è del capitale. La guerra anche!
No ai licenziamenti. No alle basi.
Giovedì 25 aprile si è tenuta a Vicenza l’assemblea regionale “Dalla crisi alla guerra” convocata in preparazione della giornata di lotta del 4 maggio contro la nuova base dell’esercito Usa “Dal Molin – Dal Din”, con l’obiettivo di un allargamento degli orizzonti della questione della nuova base e di una sua collocazione negli scenari di guerra in cui sta precipitando la crisi capitalistica.
La giornata di lotta del 4 maggio è stata convocata in risposta alla decisione del comando di UsArmy di inaugurare pubblicamente le nuova base invitando i cittadini a visitarla.
Successivamente il Prefetto di Vicenza pur di evitare la manifestazione ha preferito chiedere ai nordamericani di sospendere l’inaugurazione.
L’inaugurazione è stata rinviata, ma non la giornata di lotta.
All’assemblea hanno partecipato una trentina di compagne e compagni in rappresentanza di numerose organizzazioni. Oltre a quelle che hanno convocato l’iniziativa e cioè USB Vicenza, Rete Disarmiamoli VI, Sinistra Critica del Veneto e Rete dei Comunisti di Padova, hanno partecipato alla discussione il Centro di Iniziativa Comunista Internazionalista di Marghera, il Partito Comunista dei Lavoratori, il Partito di Alternativa Comunista, la Baracca Occupata di Padova e singoli militanti del movimento contro il Dal Molin.
Dopo una discussione che ha toccato da una parte la crisi sistemica e la tendenza alla guerra che ne consegue e dall’altra il bilancio dell’esperienza “No Dal Molin”, si è deciso di partecipare alla manifestazione del 4 maggio con uno spezzone unitario aperto da uno striscione che riporterà la scritta “La crisi è del capitale. La guerra anche! No ai licenziamenti. No alle basi”.
L’appuntamento è alle ore 10.00 del 4 maggio presso la stazione ferroviaria di Vicenza (lato viale Dalmazia).
DALLA CRISI ALLA GUERRA? ROMPERE L’UNIONE EUROPEA
L’intervento della Rete dei Comunisti all’assemblea del 25 Aprile
Vale sempre la pena in queste occasioni di spendere un paio di minuti per ricordare il meccanismo che determina la crisi di questo sistema produttivo basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul diritto al profitto che ne consegue.
Per quanto di anno in anno possa aumentare la produttività del sistema, l’accumulazione dei mezzi di produzione (dei macchinari, dei capannoni e via dicendo) cresce ad un ritmo sempre più veloce e ad un certo punto la sua velocità di crescita arriva a superare quella del valore aggiunto creato nel ciclo produttivo, che grosso modo equivale al PIL.
Anche se la massa dei profitti continua a crescere, il suo rapporto con il totale del capitale investito tende a diminuire, cioè tende a diminuire il tasso di profitto e diventa sempre meno conveniente reinvestire i profitti nella produzione.
E’ a questo punto che l’interesse del capitalista e quello della società nel suo complesso divergono.
Si potrebbe lavorare di meno, lavorare meglio, lavorare con meno fatica.
Ma il capitalista non è più disposto a “rischiare” i propri capitali nella produzione, non è più disposto a rinnovare i macchinari, a introdurre nuove tecnologie.
Quindi prende i propri capitali e li investe in speculazioni di borsa oppure li utilizza per costruirsi una rendita.
Con l’unico risultato di dar vita a quelle bolle speculative che, esplodendo, mettono a nudo tutte le contraddizioni di questo modo di produzione, almeno per chi guarda la realtà senza le lenti dell’ideologia economica borghese, liberista o keynesiana che sia.
Per dirla con Marx: «Le forze produttive a disposizione della società sono divenute troppo potenti per i rapporti borghesi di proprietà e mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta».
Chiaramente prima e durante la crisi vengono messe in atto tutte le controtendenze possibili.
In primo luogo l’intensificazione dello sfruttamento, cioè l’allungamento degli orari e la riduzione dei salari diretti, il taglio dei salari differiti cioè le pensioni, l’eliminazione dei salari indiretti, cioè i servizi sociali.
Se si considera che la tendenza alla caduta del saggio di profitto in Italia è ricominciata a metà degli anni ’90 si capisce il senso di quella lotta di classe dall’alto che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni della storia italiana.
La seconda controtendenza è l’estensione dello sfruttamento attraverso la conquista di nuovi mercati e di nuova forza lavoro. Anche questo si è visto chiaramente nell’ultimo ventennio con la globalizzazione, la delocalizzazione, e quella tratta degli schiavi che è stata la migrazione.
La terza controtendenza, quella definitiva, è la distruzione coatta di una parte delle forze produttive, con lo scatenamento della crisi vera e propria che riducendo la massa del capitale investito permette il rialzo del tasso di profitto.
La crisi non è la fine del capitalismo né il suo crollo, come viene spesso e giustamente sottolineato, ma è altrettanto importante ricordare che la crisi invece può essere la fine di un capitalismo specifico.
La fine cioè di un sistema economico, sociale e politico dominato da una specifica oligarchia imperialista.
L’imperialismo inglese ha dominato il mondo per quasi due secoli, ma la grande depressione di fine ‘800 e la grande crisi degli anni 30 del XX° secolo hanno mostrato la necessità di un suo superamento.
Ci sono volute due guerre mondiali per stabilire chi avrebbe ereditato il suo ruolo. Cioè se il mondo capitalista avrebbe avuto al suo centro l’oligarchia imperialista tedesca o quella nordamericana.
L’imperialismo americano ha ereditato il mondo ma dopo neppure trent’anni è iniziata la sua crisi.
Dopo il ventennio della ricostruzione e del boom economico per l’ennesima volta negli anni ’70 l’accumulazione del capitale fisso ha cominciato a crescere più velocemente del valore aggiunto.
Qui c’è una differenza importante con la crisi dell’imperialismo inglese, perché gli USA cercano di rispondere alla crisi con una concertazione politica con gli altri paesi “occidentali”, cioè con l’Europa e il Giappone.
Questa nuova strategia è elaborata in buona parte da un ristretto gruppo di esponenti delle oligarchie imperialiste nordamericane, europee e giapponesi: la Commissione Trilaterale che nasce nel 1973.
Per l’Italia ne fanno parte oggi Mario Monti, Carlo Pesenti (Italcementi), Luigi Ramponi (PdL, ex Comandante della Guardia di Finanza ed ex direttore del SISMI), Maurizio Sella (Banca Sella), Marco Tronchetti Provera (presidente della Pirelli e vicepresidente di Mediobanca) e… Enrico Letta, il futuro presidente del Consiglio.
Napolitano non ne fa parte, è solo un loro servo.
Grazie alla Commissione Trilaterale e ai vertici dei grandi della terra (un’altra invenzione di quegli anni) questo assetto imperialista a dominanza USA ma articolato sui tre poli imperialisti riesce a gestire il crollo del socialismo reale, la globalizzazione e le nuove guerre di spartizione del mondo.
Ma con la crisi esplosa nel 2007 anche questo capitalismo arriva alla sua fine.
Uno dei tanti sintomi di questa fine è la progressiva autonomizzazione del polo imperialista europeo dalla tutela USA come si è visto durante la guerra in Libia e quella in Mali ma come dimostra anche la guerra monetaria per imporre l’euro al posto del dollaro come moneta globale.
Questa crisi è infinitamente più grave di quella degli anni ’70 e non è detto che ci sia oggi la stessa possibilità che c’era allora di trovare una via di uscita attraverso il governo comune della crisi da parte dei diversi gruppi imperialisti.
La lotta per la sopravvivenza nella crisi si sta traducendo nello scontro di tutti contro tutti.
Nello scontro tra i diversi poli imperialisti di cui esaspera la concorrenza, incentivando le guerre economiche per la conquista dei mercati e le avventure militari per il controllo delle aree di influenza.
Ma anche nello scontro tra i diversi gruppi borghesi: capitale finanziario contro capitale industriale, industria multinazionale contro industria locale, grande industria contro piccola industria…. ma anche borghesia nazionale contro borghesia europea… e infine borghesia italiana contro borghesia tedesca contro borghesia francese.
Non si può più escludere a priori la possibilità che tutto questo si traduca in una nuova barbarie planetaria.
La crisi ha messo a nudo i rapporti sociali dominanti e sta demistificando la liturgia della democrazia borghese. Governi a parlamenti possono essere messi in mora da chi ha dato loro il potere che non è il “popolo sovrano” ma il comitato d’affari della borghesia.
Se la politica si dimostra incapace, se i parlamenti non decidono, arrivano i governatori designati. Come Lucas Papedemos in Grecia, Mario Monti e Enrico Letta in Italia, tutti e tre membri della Commissione Trilaterale.
Ma questa discesa in campo in prima persona dei massimi rappresentanti delle oligarchie imperialiste rende ancora più evidente che l’unica prospettiva possibile di fronte alla barbarie in cui ci stanno precipitando è quella di rompere la catena imperialista che per noi che qui viviamo vuol dire rompere l’Unione Europea.
Questa Unione Europea non rappresenta il superamento dei nazionalismi e delle divisioni tra gli stati, ma la loro funzionalizzazione e subordinazione agli interessi del grande capitale in un involucro politico privo di qualsiasi meccanismo democratico.
L’Unione Europea è il riflesso sul piano politico della putrefazione di questo sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Dalla UE e dell’euro si può uscire da destra e dall’alto rivendicando la nazionalità, il ritorno allo status quo, il diritto delle borghesie nazionali ad arricchirsi sulla pelle dei propri lavoratori.
Noi invece dobbiamo uscirne da sinistra e dal basso unendo chi sta sotto, le periferie interne ed esterne alla UE, chi crea ricchezza con la propria fatica contro il centro della finanza e delle multinazionali.
Consapevoli che non è un percorso che si possa compiere in un giorno, ma il risultato di un processo in cui si dovranno far schierare differentemente molti di quei gruppi sociali che oggi si illudono di poter ricavare un qualche utile dalla politica di potenza della UE.
Un processo che si costruisce attraverso la nazionalizzazione delle banche e delle industrie strategiche, attraverso l’esproprio e l’autogestione operaia delle fabbriche in crisi, attraverso la ripubblicizzazione dei servizi sociali, attraverso il rifiuto del ricatto del debito pubblico, ma anche attraverso la sperimentazione di forme di cooperazione economica internazionale che non siano basate sulla speculazione e sul profitto, come stanno sperimentando in questi anni molti paesi dell’America latina.
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