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Anche Greenpeace ha il “vizietto”? In fumo quasi 4 milioni di euro

E’ una inchiesta decisamente clamorosa quella realizzata dal settimanale tedesco Der Spiegel che ha infranto l’autorevolezza di Greenpeace, rivelando come la più famosa associazione ecologista del mondo abbia pagato il conto – “sui mercati” – di una fallimentare operazione finanziaria e dunque speculativa: una scommessa contro l’euro.
Di fronte agli articoli del settimanale, la stessa Greenpeace ha dovuto ammettere la perdita (a conti fatti di circa 3,8 milioni di euro). Il suo portavoce Mike Townsley , in un comunicato, ha chiesto scusa “a tutti coloro ( e si tratta di circa 3 milioni di sostenitori nel mondo, ndr) che ci appoggiano con le donazioni, per il grave errore commesso dal dipartimento finanziario di Greenpeace Internacional, con sede ad Amsterdam”.
Townsley ha cercato di limitare i danni spiegando che si si è trattato di un’iniziativa personale di un suo dipendente che, a suo dire, sarebbe già stato licenziato, anche se “Nulla, al momento, lascia pensare che abbia agito per un tornaconto personale, ma secondo un grave errore di valutazione”, ha specificato ancora il portavoce.

Al momento sul sito internazionale e su quello italiano di Greenpeace non c’è traccia né replica su questa vicenda. In quello ufficiale (Greenpeace.org) è segnalato come fare donazioni all’organizzazione: “Greenpeace Fund, Inc. è registrato con l’Internal Revenue Service come (c) (3) entità 501 e promuove la missione di Greenpeace attraverso l’educazione pubblica e le sovvenzioni ad altre organizzazioni ambientaliste. Contributi a Greenpeace Fund, Inc. sono deducibili dalle tasse. Greenpeace Fund, Inc.”
La preoccupazione dei vertici di Greenpeace è sia d’immagine che finanziaria: i quasi 4 milioni di euro perduti sono una cifra rilevante anche per una Ong, con un budget annuo che sfiora i 300 milioni. Ovvio che il coinvolgimento nelle speculazioni finanziarie faccia sorgere qualche legittima domanda nei suoi 3 milioni di donatori sparsi nel mondo.
Anche perché proprio sulla questione delle risorse finanziarie – scrive il sempre ben informato quotidiano online Lettera 43 –  si sono sommate nel corso degli anni una serie di accuse. Lo stesso Der Spiegel nel 1991 aveva rivelato che in Germania operava una fitta rete di società ombra controllate al 100% da Greenpeace, ma che non apparivano in bilancio, così da permettere all’organizzazione di mantenere il suo status di organizzazione senza scopo di lucro e accedere alle esenzioni fiscali. Non solo. Altre rivelazioni, non meno clamorose, erano emerse in un documentario della tivù danese nel 1993, nel quale si affermava l’esistenza di una serie di conti bancari segreti su cui transitavano decine di milioni di dollari provenienti dalle donazioni per specifiche campagne e che erano accessibili soltanto ai leader di Greenpeace.

Le conclusioni a cui giungeva il servizio della tv danese erano decisamente strumentali (il finanziamento agli “eco-terroristi!!!”) ma la impermeabilità tra le grandi Ong e gli ambienti dei mercati e della speculazione finanziaria è tutt’altro che cristallina, anzi l’opacità molto spesso sembra prevalere. Molte Ong ormai sono anche marchio, marketing, merchandising, gadget, che facilitano il famigerato “fund rising” (raccolta di donazioni) e talvolta sponsorizzano le attività economiche di altri soggetti più commerciali. La partecipazione volenterosa e motivata delle persone alle attività delle Ong funge spesso da garanzia pubblica per attività con un sapore assai più privatistico e talvolta ancora più inquietante sul piano del depotenziamento dei conflitti sociali, soprattutto nei rogues states (gli stati-canaglia, Ndr) finiti nella lista nera di Washington o di Londra o di Parigi.

In fondo cosa c’è di meglio del business della motivazione etica? Soros ci ha costruito sopra un impero finanziario, una immagine pubblica e una funzione politica, destabilizzante ovviamente.

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