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La transizione ecologica italiana è una chimera

Non abbiamo un piano aggiornato per l’energia e il clima (Pniec), di conseguenza non abbiamo un target specifico di riduzione delle emissioni, quindi non ce l’hanno nemmeno le Regioni. Non abbiamo una legge sul clima, non abbiamo un piano di tagli ai sussidi alle energie fossili. Da un paio d’anni le aste per assegnare nuova potenza alle fonti rinnovabili vanno pressoché deserte, mentre le semplificazioni proposte per gli iter autorizzativi non semplificano. Così l’Italia si presenta alla COP 26 di Glasgow, di cui ha la co-presidenza con il Regno Unito: decisamente con il fiato corto.

L’OBIETTIVO NAZIONALE di riduzione delle emissioni (Ndc) è a tutti gli effetti allineato a quello europeo (-55% di CO2 entro il 2030, rispetto al 1990), dal momento che al tavolo delle trattative l’Ue si presenta con un negoziatore unico per gli Stati membri.

DI TARGET CHE SI SONO rivelati insufficienti è lastricata la strada della diplomazia climatica: secondo la comunità scientifica, l’Ue dovrebbe porsi come obiettivo -65% entro il 2030 (i Verdi europei hanno votato contro il provvedimento Fit for 55%). Se prendiamo in considerazione anche i principi di equità e di responsabilità comuni ma differenziate un paese industrializzato come l’Italia dovrebbe tagliare le emissioni del 92%, secondo i calcoli di Climate Analytics contenuti in una ricerca della campagna Giudizio Universale che ha fatto causa allo stato italiano per inadempienze climatiche.

Per l’obiettivo minimo, quello europeo, una Transizione ecologica è ancora possibile purché l’Italia si dia una tabella di marcia molto rigorosa nei settori a più alte emissioni.

ENERGIA. LE FONTI DI ENERGIA RINNOVABILE, fotovoltaico ed eolico in particolare, da 7 anni sono in stallo, con tassi di crescita inferiori a 1 GW di nuova capacità installata all’anno. Per raggiungere l’obiettivo europeo servirebbe installare da qui al 2030 circa 70 GW di potenza, quindi 7/8 GW all’anno di nuova capacità. Poiché, come sottolinea Paolo Rocco Viscontini, presidente di Italia Solare, «i sistemi energetici sono dei pachidermi, serve una visione a lungo termine per un loro adeguamento in vista degli obiettivi di decarbonizzazione. Il settore non può inseguire ogni anno i singoli provvedimenti di una legge di bilancio, ma serve un respiro più ampio, di almeno 4/5 anni di programmazione».
Inoltre, «non si può parlare di taglio delle emissioni continuando a parlare di gas – continua Viscontini – è vero che ne avremo bisogno ancora per alcuni anni, ma così si perde di vista la vera soluzione, che è l’aumento delle rinnovabili che, per altro, hanno un prezzo fisso e sono svincolate da chi apre e chiude a piacere i rubinetti di gas e petrolio». Per favorire la penetrazione delle fonti rinnovabili è giunto il momento, secondo Italia Solare, di incentivare i sistemi di accumulo, cioè le batterie che rendono le fonti rinnovabili programmabili, invece di incentivare centrali a gas di nuova costruzione. Il riferimento è al Capacity Market, contro il quale Italia Solare ha fatto ricorso (il procedimento è attesa di un pronunciamento da parte di una Corte europea, visto che altri meccanismi simili sono stati impugnati in altri paesi europei). «Non diciamo che non sia necessario, ma costerebbe molto meno se una parte di questi incentivi venissero destinati a pompaggi idroelettrici ed accumuli elettrochimici, invece che al gas», chiosa Viscontini.

QUANTO ALLE LUNGAGGINI burocratiche che bloccano gli iter autorizzativi, il presidente di Anev (Associazione nazionale energia del vento), Simone Togni, non usa mezzi termini: «Il problema non è burocratico, ma politico. Ci dicano una volta per tutti se l’eolico si può sviluppare in Italia oppure no. Non è possibile che, di tutti i progetti presentati dal 2017 ad oggi, nessuno abbia avuto parere positivo dalle Soprintendenze. È chiaro che c’è un’azienda di stato che basa i suoi interessi sul fossile per la quale va pensata al più presto una riconversione».

DAGLI UFFICI DI ELETTRICITÀ FUTURA (Confindustria) è partita nei giorni scorsi una lettera indirizzata a Mario Draghi nella quale si invita il governo a fare di più e più in fretta sul fronte della transizione: si chiede un Pniec aggiornato e la ripartizione dei target tra le Regioni. «È a livello regionale che si realizzerà la transizione energetica – dice il presidente di Elettricità Futura, Agostino Re Rebaudengo – è tempo che le regioni decidano come ripartirsi i 70 GW da installare, che equivalgono a 100 miliardi di investimenti e 90mila posti di lavoro. Non è pensabile installarli tutti nelle 2/3 regioni del Sud dove c’è più sole e più vento, il rischio di un intasamento è reale. Bisogna pensarci per tempo e immaginare aste differenziate per zone, affinché anche al Nord sia conveniente realizzare una parte degli impianti».

EDILIZIA. IL SUPERBONUS 110% rinnovato solo fino al 2023 ha deluso le aspettative del settore che per alcuni anni si vede sovraccaricato di lavoro per poi frenare di colpo. Nell’edilizia i consumi di energia sono aumentati del 23% dal 1990, mentre le emissioni sono diminuite della stessa quota grazie al passaggio dal gasolio al gas nelle caldaie e all’aumento delle rinnovabili nel mix elettrico nazionale. Siccome il 62% delle emissioni dell’edilizia viene dal riscaldamento, il provvedimento da prendere al più presto è quello di fissare una data per la fine dell’installazione delle caldaie a gas. Parallelamente, l’aumento delle coperture con pannelli fotovoltaici accoppiati con batterie e l’avvio delle comunità energetiche potrebbe dare un impulso decisivo all’auspicato cambio di passo.

TRASPORTI. IL SETTORE DOVE le emissioni continuano ad aumentare (+29% dal 1990) anziché diminuire. Secondo Legambiente, che sabato scorso è scesa in piazza a Roma per sensibilizzare la classe politica in vista di COP 26, gli attuali target al 2030 non sono in grado di garantire la necessaria inversione di rotta. Come per le caldaie, serve una data certa per la fine della vendita delle auto con motore endotermico, già fissata al 2035 in Ue, ma che andrebbe anticipata di alcuni anni. Secondo la coalizione Italy for Climate, per ridurre del 30% le emissioni dai trasporti è necessario arrivare a 5 milioni di auto elettriche al 2030, ma anche ridurre il numero di auto in circolazione grazie ai sistemi di mobilità condivisa e all’aumento dell’offerta del trasporto pubblico. Per il trasporto pesante, invece, è necessario introdurre l’idrogeno: una ricerca di Transport & Environment ha di recente messo in luce che un camion alimentato a Gnl (gas naturale liquefatto) emette più gas climalteranti rispetto ad un mezzo equivalente alimentato a diesel, quindi è urgente eliminare le stazioni di rifornimento a gas e gli incentivi per l’acquisto dei camion a Gnl.

* da ilmanifesto.it

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1 Commento


  • Andrea Bo

    Un momento.
    Il Manifesto la fa (molto) facile. E anche un po’ approssimativa.
    Ma intanto fa da cassa di risonanza alle associazioni confindustriali del settore.
    E “dimentica” molte cose. Molte altre, inopportunamente, le dà per scontate.
    Cominciamo col dire che l’incremento della POTENZA installata NON è garanzia dell’aumento di produzione di ENERGIA. Se si installa una centrale eolica da un miliardo di TeraWatt dove non c’è vento non si produrrà un solo WattOra di energia elettrica. Un campo fotovoltaico di POTENZA siderale non produce nessuna ENERGIA quando è al buio.
    E non abbiamo bisogno di potenza installata, ma di energia prodotta. Ma la Passeri riporta solo dati (o auspici…) di potenza. Quindi parliamo di quasi niente.
    Fatte ovviamente salve le esigenze ambientali, occorrono fonti di energia efficienti, cioè produttive. Investire in fonti poco efficienti conviene solo a chi ci specula e si fa coprire i disavanzi dall’utenza.
    Le aste non “assegnano nuova potenza”: aggiudicano l’acquisto di energia elettrica da parte del GSE (l’agenzia governativa – Gestore dei Servizi Elettrici -) da chi ne può fornire a minor costo. Purtroppo la legge Bersani, nel 1999, ha messo in mano ai privati la produzione di energia elettrica, sottraendo alla collettività e affidando al capitale una leva strategica di valenza politica fondamentale quasi quanto quella dell’acqua (se non altrettanto).
    La tesi secondo cui “la vera soluzione è l’aumento delle rinnovabili che, per altro, hanno un prezzo fisso e sono svincolate da chi apre e chiude a piacere i rubinetti di gas e petrolio” va rivista alla luce di qualche consapevolezza in più.
    Togliamoci prima di tutto dalla testa che chi investe in fonti fossili eviti di farlo nelle “rinnovabili”, a parte pesci piccoli come Viscontini che guadagnano prevalentemente dal fotovoltaico, e funzionano quindi come l’oste a chiedergli se ha il vino buono. L’immagine socialmente… gradevole delle rinnovabili va COMUNQUE a favore dell’investitore energetico. Solare ed eolico sono infatti fonti INTERMITTENTI e NON PROGRAMMABILI, ma godono della priorità di dispacciamento: le centrali eoliche e fotovoltaiche hanno cioè priorità, in ogni momento, a vedersi acquistate le relative produzioni, e la loro immissione in rete. E’ però ormai certo che il problema dell’accumulo di energia elettrica non si risolverà, a media scadenza, né con le batterie (mancano i metalli necessari), né con i pompaggi (non bastano i bacini idroelettrici), né con l’idrogeno (le rese sono bassissime), né con l’elettrochimica (occorrerebbero impianti immani). I “buchi” di produttività eolica e fotovoltaica sono coperti dalle centrali programmabili (in Italia principalmente a turbogas), che però pretendono di vedere remunerata la loro disponibilità a “stare in panchina”: uno dei tanti “sussidi al fossile” (pagati dallo stato) è proprio per questa funzione ancillare, a oggi purtroppo necessaria. Quindi il produttore di elettricità guadagna due volte. In Olanda, che pure è in un’area molto più ventosa dell’Italia, in quanto prossima all’interfaccia Oceano-Continente (come Francia, Spagna e Portogallo), si è giunti a una potenza installata doppia rispetto al picco della domanda potenziale, e la collettività paga produzione, oneri ancillari, incentivi alle rinnovabili, e tutto quanto. Francamente ignoro se gli olandesi paghino al produttore eolico, come accade in Italia e in Spagna, anche le produzioni INESISTENTI perché NON immesse in rete a causa dei momentanei picchi di ventosità che saturerebbero la rete di distribuzione.
    Non fa notizia che il presidente dell’Associazione Nazionale Energia del Vento auspichi un incremento della produzione eolica italiana. Ma ora che i siti più ventosi italiani (sardi, siciliani e del meridione) sono stati sfruttati, il vento copre, ordinariamente, circa il 5-6% del fabbisogno elettrico italiano, e circa il 2% del fabbisogno energetico totale. Briciole. Chi chiede “aste differenziate per zone, affinché anche al Nord sia conveniente realizzare una parte degli impianti” presuppone (ma non lo dice) che le casse pubbliche (o, peggio, quelle dell’utenza elettrica, senza progressività di imposizione) si facciano carico del deficit di produttività: cioè paghino di più il funzionamento di impianti meno produttivi.
    Al solito, quindi, il capitale preda, mentre il cittadino, anche se proletario, paga.

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