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La grande bellezza. Due recensioni

Ancora due recensioni, diverse tra loro, sul film “La grande bellezza”. Come i nostri lettori avranno capito, noi non “diamo la linea” sul cinema. In questo caso più che in altri. Notiamo che in molti ne vogliono parlare, scrivere, dicendo alcune cose sagge e altre più scontate. Ma se in tanti sono rimasti così colpiti da questo film, al punto di volercisi misurare con la scrittura, è segno certo che l’obiettivo è stato raggiunto: non lasciare indifferenti.

Ci sembra sia anche il miglior complimento che si possa fare al regista. Questo è cinema. Se poi il film piace o no, se molto o abbastanza, per un motivo o un altro, è in fondo secondario. Non se ne esce come prima.

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“La grande e nichilistica (e capitalistica) bellezza”

di Fabrizio Marchi

La scelta di premiare un film (così come un libro) è sempre una scelta “politica”.  Si decide quale film dovrà essere sostenuto o meno sulla base di tante considerazioni appunto di ordine politico. Sostenere il cinema (e la produzione cinematografica)  di un paese piuttosto che di un altro può aiutare a dare una spinta complessiva (economica, di immagine ecc.) a quel determinato paese. A mio parere, questa considerazione ha avuto il suo peso nella decisione di individuare ne “La grande bellezza” il film da premiare.  

C’è n’è anche un’altra, a mio parere, anche se non immediatamente percepibile.   

La premessa è che sono un estimatore di Sorrentino di cui ho visto e apprezzato molto tutti i suoi film. A mio parere il più bello è proprio il primo:”L’uomo in più”..

Mi è piaciuto molto anche “La grande bellezza”, una sorta di “focus” cinico e disincantato  sulla tragicità della vita e dell’essere. “Lasciate ogni  speranza o voi che entrate (nel mondo)” – sembra dirci in buona sostanza Sorrentino – l’unica cosa che ci resta da fare è cercare di vivere questa vita in cui siamo stati gettati nostro malgrado con il massimo della leggerezza e dell’ironia possibile; di più e di meglio proprio non si può fare. Anzi, più si fa, più ci si impegna per cercare di trovare un senso alle cose e peggio si sta. Quindi tanto vale rilassarci, lasciar fluire le cose e cercare di divertirci, per quanto ci è possibile, fermo restando che quel vuoto, quel senso profondo di angoscia, n on potrà mai essere eliminato”.

Da un certo punto di vista viene da dire:”Come dargli torto?” Qualsiasi persona consapevole sa che per quanti sforzi possa produrre per cercare di costruire un orizzonte di senso, non riuscirà mai a darsi una risposta definitiva e soprattutto non riuscirà mai a scacciare una volta per tutte quel demone che si agita dentro di lui che lo rimette sistematicamente di fronte  quella domanda (di senso) a cui egli stesso cerca di dare disperatamente una risposta.

Dal punto di vista concettuale è anche e proprio per questa ragione che si è scelto di  premiare questo film. Perché nonostante le apparenze, rispetto a tutti gli altri che il regista ha realizzato, è quello decisamente più in sintonia con l’ideologia dominante. Direi anzi che è un film assolutamente innocuo se non  addirittura funzionale per il sistema sociale, politico e culturale dominante.

In tutti gli altri film, la dimensione tragica-esistenziale (presente in tutti i film di Sorrentino) era però accompagnata da una tensione alla possibilità (della trasformazione della realtà), ad un possibile orizzonte di senso (sia esso sociale o “sentimentale”) che in qualche modo conviveva con il primo aspetto, cioè con la dimensione dell’angoscia che comunque accompagna tutti gli umani consapevoli per l’intero corso della loro vita.

“La grande bellezza” è invece una resa incondizionata (e nichilistica) alla “tragicità dell’essere”. Ma abbandonarsi alla “tragicità dell’essere” significa di fatto abbandonarsi allo status quo, o meglio, alla tragicità dello status quo. E da cosa è dato oggi lo status quo? Dal sistema capitalistico assoluto la cui ideologia si fonda proprio sulla intrasformabilità della realtà e sulla necessità della sua totale e passiva accettazione. Il sistema capitalistico ha buon gioco in questa fase storica nel sostenere questa tesi perché tutti i tentativi (sostanzialmente il comunismo) messi in campo per cercare di superarlo sono falliti. “E sono falliti – ci spiegano i suoi cantori (a stipendio) perché il capitalismo non è una forma storica dell’agire umano ma una dimensione ontologica dell’essere, e per questo immodificabile, in trasformabile ed eterna. E proprio per questo anche “tragica”.  

Il capitalismo, in questo modo “naturalizzato” (“Capitalismo sive natura”, paraffrasando il grande Spinoza) non si pone il problema del superamento delle sue contraddizioni strutturali e insanabili, viceversa le accetta, le rivendica e le considera insuperabili, proprio perché considera insuperabile l’ordine sociale, e quindi naturale, delle cose. Un ordine che deve essere accettato, al quale bisogna rassegnarsi. “Accettate (lo status quo), producete (chi ancora è in grado di farlo…) e consumate (chi può…). E cercate di spassarvela quanto più potete (sempre chi può…), non state a interrogarvi più di tanto perché non serve a nulla se non a far lievitare l’angoscia, e soprattutto non provate a cambiare le cose perché è del tutto inutile.

Non sono in grado di dire se Sorrentino sia consapevole del risvolto filosofico (forse faremmo meglio a dire ideologico…) del suo film. Per quanto mi riguarda è questo, e senza ombra di dubbio. .

“La grande bellezza” è un vero e proprio manifesto ideologico del nichilismo (capitalista) attualmente dominante nei confronti del quale Sorrentino ci invita a fare buon viso (per lui è certamente più facile…).

Con molta educazione la mia risposta è:”No grazie, con tutta la simpatia (autentica) per Jeppy Gambardella, io non mi rassegno”.

E credo che non si sarebbero rassegnati neanche Eizenstein, Pasolini, Leone o Kubrik, per rimanere in ambito cinematografico. 

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Jep Gambardella e La grande bellezza

 di Fedele Boffoli

Nel film, di Paolo Sorrentino (ambientato ai nostri giorni), premiato con l’Oscar,  “La grande bellezza”, il protagonista è Geppino Gambardella (in arte Jep – Tony Servillo), un giornalista napoletano, di successo, con al suo attivo un unico formidabile romanzo giovanile, che ha svolto la sua carriera a Roma e che al traguardo dei suoi 65 anni di vita intraprende, con se stesso e con l’ambiente romano, una drastica meditazione sul senso del “Bello”; una riflessione molto amara, di pentimento e di autocritica, scaturita dalla consapevolezza di aver svolto una vita all’inseguimento del potere e dell’effimero, vissuta nella vacuità e nel degrado di feste e circuiti altolocati romani, dove i valori spirituali della vita sembrano smarriti, ma in contraltare, gli si affianca, nell’opera cinematografica, la bellezza universale della città eterna, con i suoi intramontabili monumenti, piazze, fontane, piscine, fiume, ponti, opere d’arte ed anche il mare… accompagnati da musiche celestiali, da chiesa mistica. 

Alcuni particolari incontri e compagnie favoriscono i contorni della riflessione dell’attore principale Gambardella, come quello dell’amico autore-attore teatrale (Carlo Verdone), trasferitosi a Roma da una vita e mai realizzato professionalmente, sentimentalmente frustrato, deluso dall’ambiente romano, culturalmente degradato, a cui si è inutilmente rivolto (torna, alla fine, al suo paese di origine). Altro soggetto importante per la contemplazione del protagonista, è l’incontro, non a lieto fine (lei muore) con la ballerina di night club (Sabrina Ferilli) che fa riscoprire in Gambardella, dopo una vita arida di sentimenti, l’attitudine rinnovata, a volersi bene.

Altre vicende tragiche incrociano il protagonista come quella di una ex fidanzata giovanile morta, a distanza di molti anni, ancora innamorata di lui, ecc.

Chiave di volta, del film, è l’asceta mistica e santa “La suora”, che incontra Gambardella, che rifiuta l’intervista (“io ho sposato la povertà e la povertà non si racconta, si vive”), che indica a lui, infine, l’importanza delle “radici”… e che lui sembra accogliere, in coerenza con le sue stesse riflessioni. La meditazione di Gambardella è ormai matura, può incominciare a scrivere, dopo molti anni, il suo secondo romanzo, finalmente ispirato, nella consapevolezza che la morte e la vita, legate ad un filo, con sprazzi di bellezza, si avvicendano in un atto trasformativo, con in sottofondo un bla bla quotidiano. 

Non mancano nel film sciabolate ad un’arte contemporanea mercificata, privata dei suoi contenuti e mera cronaca di un disagio di vita collettivo; come anche si evincono contrapposizioni tra una chiesa secolare ed una mistica (il Cardinale – La Suora santa) ed anche riferimenti alla corruzione di un mondo del malaffare intrecciato con quello della politica (il Latitante, vicino di casa di Gambardella, poi arrestato). Un film, forse, di triste cronaca quotidiana e, solamente, ammiccante slogan sulla bellezza? Già Sorrentino si presta ad uno spot per la Nuova Fiat 500 (l’Arte e il denaro sono, in realtà, incompatibili… tutti i salmi finiscono in business?); o proprio, paradossalmente, parafrasando la Santa Suora, del film, chi sceglie la Bellezza la testimonia e non la racconta? Oppure una reale intuizione, magari limitata da quel bla bla di fondo, che riferisce, in conclusione, lo stesso Gambardella che, se però troppo preso in considerazione, ci impedisce di cogliere, nella vita-morte-rinascita quotidiana, perenne Bellezza, Profondità e Unità delle cose e che ci condanna ad una vita di oscillazione dualistica? Ad ognuno, di certo, le sue conclusioni; quello a cui, comunque sia, vogliamo credere e che, quest’opera di Sorrentino, e di tutto il suo staff, sia un autentico segnale innovatore ed augurale: un sasso, necessario, che, lanciato nello stagno del grigiore quotidiano, attivi, dopo lunghi e lunghi secoli, finalmente, le acque di una nuova Rinascenza.

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2 Commenti


  • gabri

    Il messaggio per me è stato questo, la grande bellezza non è nel colosseo, nei palazzi romani, nella Fornarina, nei vestiti di lusso e nella vita pigra e opulenta dei ricchi, ma dentro di noi, in quegli attimi in cui viviamo l’amore, il volersi bene, la comprensione dell”altro. Senza questa ricchezza interiore è impossibile percepire e concepire l’altra bellezza, la bellezza dell’arte, perché l’arte per essere compresa deve necessariamente passare attraverso l’animo umano. Da questo la disillusione di Jep che dice di avere cercato a Roma la grande bellezza ma di non averla trovata. Inoltre Jep in qualche modo incarna l’Italia stessa e la dissipazione del proprio talento in un impigrimento che porta inesorabilmente ad un imbarbarimento dei costumi e a un impoverimento dello spirito. Il messaggio non è tuttavia disperato, pur essendo ormai all’ingresso della terza età, pur mantenendo un occhio disincantato sul ruolo misero e soprattutto incomprensibile della vita umana, Jep ritrova una scintilla creativa che presumiamo, lo porterà ad un capolavoro letterario.


  • Enrico

    Salve Fabrizio, l’articolo è ben scritto e ricco di spunti interessanti, d’altronde anche il film lo è.
    Non sono però d’accordo con le conclusioni della sua analisi, o, forse, con i presupposti analitici che a tali conclusioni hanno condotto.
    Le definizioni di “innocuo” e “funzionale” sembrano manifestare l’esigenza di trovare in un’opera artistica una funzione di orientamento politico e morale. In effetti il film non orienta, non demonizza, non suggerisce, non condanna. Ha il pregio di essere profondo, toccante, riflessivo e, nonostante tutto, leggero, senza diventare didascalico. Se nell’affrontare i temi dell’ipocrisia sociale, della decadenza, del vuoto conformistico che nasconde il vuoto esistenziale, Sorrentino fosse stato “bacchettone”, retorico o moralista, la pellicola avrebbe perso tutta la sua credibilità e pure la sua grande sensibilità. L’arte deve, in un certo senso, disorientare più che orientare, deve stimolare la riflessione più che impacchettare conclusioni, deve esprimere concetti normalmente sepolti sotto il frastuono della banale quotidianità. A parer mio Sorrentino riesce in modo convincente a dare uno scossone alle coscienze di chi ha un minimo di dimestichezza con certi temi ed è dotato di buona sensibilità. Non è un film per tutti, non è propriamente un’opera di denuncia sociale intelligibile per la massa. Per questo non mi pongo il problema se il film possa essere innocuo o meno per il sistema socio-economico capitalistico. Per me non lo è del tutto, ma non pretendo che produca trasformazioni sociali. Semplicemente entra a far parte di quella costellazione di opere che buttano uno sguardo al di là del conformismo imperante e della chiacchiera quotidiana. Una costellazione non così affollata o, forse, non così luminosa in questi tempi (e qui sono perfettamente d’accordo con lei) dominati dal senso indotto dell’inanità di qualunque slancio verso il cambiamento.
    E si, il senso di tragedia e di impotenza è diffuso nel film, ma ha soltanto in minima parte una connotazione sociale. La dimensione fondamentale è quella esistenziale e filosofica. Sono “l’imbarazzo dello stare al mondo”, la paura, il sentimento dirompente e autentico, la disperazione a spingerci spesso verso la superficie, una superficie fatta di distrazioni, divertimenti, ipocrisie, apparenze, chiacchiere. Perché appropriarsi dell’ essenza delle cose e delle persone e fare i conti con la morte e con le nostre più profonde pulsioni comporta fatica, ricerca e sofferenza.
    Pur affrontando con uno sguardo pessimista (non nichilista) i temi della pellicola, Sorrentino lascia uno stretto varco aperto, se non sulla speranza in senso religioso, sulla possibilità di riappropriarsi dell’autenticità, quella che era stata seppellita dal protagonista, gia durante gli anni giovanili, sotto quintali di nulla, sotto distrazioni e decadente mondanità. Jep però era dotato della sensibilità, ne aveva fatto una virtù da salotto buono, intorpidita dai lussi e dai falsi sentimenti. Il risveglio finale, il nuovo progetto letteratio, il viaggio al di fuori di quella città bellissima e immobile che è Roma, la riappropriazione dei ricordi e il riscoprire la purezza di qui sentimenti giovanili mai dimenticati, sono distanti dal nichilismo assoluto che lei ha citato. Il film non è una resa incondizionata al capitalismo o al conformismo sociale. È piuttosto un amaro e affettuoso affresco della lotta che ogni essere umano dotato sensibilità si trova a combattere in bilico tra la dimensione del possibile, quella fatta di speranza ingenua o di anestetizzazione della coscienza, e la consapevolezza del baratro, dell’impossibilità di remissione, della onesta e dolorosa accettazione di sé e dei propri drammi.
    In un certo senso Jep fa quello che in pochi riescono a fare, smettere di mentire e di nascondersi a se stessi, conservando l’ironia e la leggerezza.

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