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Diseguaglianza. Realtà e ideologia di merda

E’ bello vedere qualcuno difendere a spada tratta le diseguaglianze. Ed è istruttivo, altamente istruttivo, vedere quali argomenti usa. 

L’ha fatto il solito Alberto Alesina, con un editoriale sul Corriere della sera, quasi a risposta dell’enciclica papale di ieri. Naturalmente non l’ha messa esplicitamente in opposizione, ma chiunque abbia un minimo di frequentazione con la fattura dei media sa che le coincidenze non esistono. Almeno a livello di editoriali.

Per non disorientare troppo il lettore proponiano una lettura commentata, capoverso per capoverso. 

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Il merito nelle società diseguali

Alberto Alesina 

Quello della diseguaglianza, soprattutto (ma non solo) negli Stati Uniti, è tra i temi più divisivi. Al recente Festival dell’Economia di Trento gli economisti-guru della sinistra – Paul Krugman, Thomas Piketty, Joseph Stiglitz – tuonavano contro la fine del «sogno americano»: della possibilità cioè, per chi si impegna, di risalire la scala sociale. Più in generale, prevedevano una degenerazione del capitalismo verso lidi di diseguaglianza mai visti nella storia recente.

Chiariamo alcuni punti. Primo: la diseguaglianza, oggi, è tornata ai livelli dei primi decenni del secolo scorso. La differenza è che ora, sia in Europa sia negli Stati Uniti, seppur in misura diversa, esiste uno Stato sociale che protegge i meno abbienti ben più di quanto lo si facesse nella prima metà del ‘900. Ci sono una sanità e una scuola pressoché gratuite, sussidi alla disoccupazione in molti Paesi assai generosi, pensioni spesso molto superiori ai contributi versati e via dicendo. I guru di cui sopra ci dicono che perfino negli Usa chi nasce povero resta povero: ma i dati raccolti dal mio collega Raj Chetty dimostrano che la mobilità sociale è alta in alcune città, come Seattle, ed è bassa in altre. Insomma: il «sogno americano» esiste in parte degli Stati Uniti, non dovunque. Gli europei sono ancora più pessimisti sulla mobilità sociale nei loro Paesi, anche se spesso è più alta che nella media Usa.

Contropiano. Mr. Alesina comincia subito male. Ammette, e non potrebbe essere diversamente, che le diseguaglianze sono tornate enormi, come lo erano cento anni fa. Nonostante l’esistenza di uno “stato sociale” che un secolo fa non esisteva. Uno studioso serio, non un volgare ideologo, a questo punto sarebbe obbligato a chiedersi la ragione di questa evidente contraddizione. Sottolineiamo che lo stesso Alesina, contrapponendo diseguaglianze e stato sociale, riconosce che il secondo era nato (anche) per ridurle, quindi…

Qui sarebbe stato necessario un breve escursus sul “secolo breve”, le rivoluzioni operaie e la paura dei padroni del mondo di perdere il bastone del comando, la crisi degli anni’30 e le risposte keynesiane in doppia versione (democratico.liberale negli Usa, nazista in Germania), la svolta della seconda guerra mondiale e la costruzione dello “stato sociale” per garantirsi un consenso popolare (e un mercato interno solvibile per merci producibili in maggior quantità) e allontanare le sirene del “socialismo reale”; quindi la “guerra fredda” e la “corsa agli armamenti”, la crisi del modello sovietico, la revanche del liberismo (Thatcher e Reagan), la demolizione dello “stato sociale” in corso initerrottamente da 35 anni. Un riassunto che è già una spiegazione: le diseguaglianze hanno ripreso a crescere nel momento in cui non c’è stato più il bisogno politico di avere una rete di protezione solida per le classi sociali “non imprenditoriali”.

Anche la semplice “mobilità sociale” – la possibilità per i figli di lavoratori dipendenti di arrivare a uno status più elevato (professionisti, docenti, ecc) – si è drasticamente ridotta. Ma per Alesina è solo un fatto “locale”, da qualche parte sì, in altre no. La realtà quotidiana che abbiamo tutti davanti – basterebbe chiedere al Censis di De Rita – è invece molto omogenea: sono in pochissimi a poter “prendere l’ascensore” verso l’alto, mentre sono in moltissimi, da alcuni anni a questa parte, a scendere. Una volta l’avremmo chiamata “proletarizzazione dei ceti medi”, oggi la si chiama “crisi del ceto medio”, ma la dinamica è indifferente ai nomi.

Secondo: la diseguaglianza crea incentivi. Vorremmo forse, in nome della totale uguaglianza, eliminare i premi monetari a uno scienziato che fa un’importante scoperta? O quelli a un imprenditore che innova (ricordate Steve Jobs e Bill Gates che ci hanno cambiato la vita), o a un lavoratore che si impegna più dei suoi colleghi? Quando lo facciamo riduciamo la crescita, preferendo – pur di eliminare le disparità – impoverire la media delle persone. Alcune società farmaceutiche hanno fatto profitti enormi. Preferiremmo forse averle tassate così tanto da aver ridotto ricerca e sviluppo, tornando a qualità e lunghezza della vita garantite dai medicinali degli Anni 50?

C. Diciamolo subito: nemmeno nel socialismo più dogmatico si è mai teorizzato o praticato l’assoluta eguaglianza dei redditi. L’eguaglianza consiste in una soglia di reddito che consenta di vivere dignitosamente a tutti. Mentre tutti coloro che offrono un “di più” ottengono anche qualcosa in più. Non certo, però,nell’ordine del 1.000 a 1 che vediamo oggi nelle retribuzioni di un manager (chessò, Marchionne) rispetto a quello dei suoi dipendenti. Fare l’esempio dello scienziato è particolarmente vergognoso perché questo tipo di funzioni sono sempre state riconosciute – e premiate – sotto qualsiasi tipo di modo di produzione o regime politico. Ma particolarmente vergognoso è soprattutto l’esempio dell'”imprenditore” e/o del manager. Per un motivo semplice: nessuno “lo premia”, fa tutto da solo, impadronendosi di una quota di profitto che lui stesso determina (a volte persino se la sua impresa sta andando in malora, come vediamo quotidianamente sia nella finanza che in altri tipi di attività). Come fa un docente di economia a trattare senza vergogna come equivalenti il salario concesso a un lavoratore qualsiasi, senza potere contrattuale proprio, e un amministratore delegato che può attribuirsi retribuzione, benefit, stock options? Come fa mentre scrive dalle colonne di un quotidiano che predica la “modernità” del lavoro non retribuito, come si sperimenta all’Expo?

Insomma: non è la diseguaglianza che crea gli “incentivi”, ma la collocazione dentro il modello produttivo a creare le diseguaglianze.

Terzo, l’ineguaglianza è accettabile se vi è mobilità sociale, ovvero se la scala sociale è percorribile verso l’alto (e il basso) in funzione delle proprie abilità e del proprio impegno. Dobbiamo offrire a tutti i bambini uguali opportunità di successo; dobbiamo combattere con vigore corruzione ed evasione fiscale, che rendono ricchi i più furbi e i più disonesti, non i più bravi. Meritocrazia e competizione nel mercato garantiscono giustizia e mobilità sociale.

Con una scuola che non premia il merito, di insegnanti e allievi, favoriamo i ricchi: i figli di famiglie benestanti, infatti, possono compensare a casa una scuola che insegna poco, quelli di famiglie povere no. Quando proteggiamo imprese inefficienti, imprenditori senza idee ma con contatti «giusti» nei ministeri, lavoratori pigri riduciamo la mobilità sociale: allora sì che la diseguaglianza che rimane è ingiusta.

C. La scuola pubblica, gratuita e per tutti, era in effetti l’istituzione che ha permesso – nel secondo dopoguerra – una istruzione di massa abbastanza paritaria e molti figli di lavoratori manuali” hanno avuto l’opportunità di accedere alle scule superiori e all’università. Hanno cioè avuto riconosciuto un “merito”, passato le selezioni, raggiunto professionalità anche importanti, come mai prima era potuto accadere. Non che ci fosse una parità effettiva di partenza, perché comunque i figli dei benestanti avevano numerosi vantaggi (ripetizioni, molti linri in casa, genitori istruiti e in grado di supportare nello studio, ecc) rispetto a chi magari doveva “conciliare scuola e lavoro” (specie durante gli studi universitari). 

Ma non è più così. La scuola pubblica di ogni ordine e grado è stata consapevolmente mandata in rottamazione, lesinando risorse, bloccando le assunzioni (s ci sono oltre 100.000 precari è perché non si fannno più concorsi da decenni), trasferendo quantità di finanziamenti sempre crescenti verso le scuole private (dove ovviamente l’accesso avviene per censo, non per “merito”). Peggio ancora: non c’è più la gratuità o quasi, né delle rette né, tantomeno, dei libri di testo. A livello universitario, da anni, si assiste a una riduzione progressiva del numero degli iscritti (per non parlare del livello indecente di preparazione fornito a partire dalla “riforma Berlinguer”, che ha abbassato drasticamente la qualità dello studio – il merito, appunto – con l’introduzione del sistema dei “crediti”, dell'”audience” (le cattedre vengono mantenute se c’è un certo numero di frequentanti, ma i corsi più “esigenti” in termini di impegno vengono disertati per quelli più facili che danno comunque “crediti”).

Questa “facilitazione” – accolta con suicida soddisfazione anche da alcune ideologie di movimento – ha rapidamente trasformato alcune facoltà in fabbriche di diplomi di laurea senza alcuna utilità professionale o semplicemente lavorativa. A soffrirne di più, naturalmente, sono state le facoltà umanistiche, che erano anche le uniche a poter fornire un “sapere critico”, ovvero capace – se ce n’era la capacità individuale – di interrogarsi sulle premesse teoriche di quel che si andava studiando. E quindi anche della società in cui si vive.

Si può considerare positivamente il “merito”, insomma, senza farne una clava con cui picchiare in testa altri esseri umani e appropriarsi di una quantità di ricchezza abnorme. Non esiste infatti solo il principio della “competizione”, come se fossimo ancora animali allo stato brado. Il principio della cooperazione ha fatto fare all’umanità molta più strada, mentre il primo l’ha precipitata a cadenza fissa nella guerra, a partire dalle diseguaglianze. Brutte nostalgie, insomma, mr.Alesina…

È possibile costruire un sistema perfetto, in cui solo i più meritevoli si arricchiscono? Certo che no: ci sono, ad esempio, troppi Ad, talvolta inetti, inutilmente strapagati. La perfezione negli affari umani non esiste. Ma l’alternativa non è tassare a livelli elevatissimi tutte le classi medio-alte, che già pagano più dei meno abbienti data la progressività delle aliquote (e se non lo fanno, si agisca chiudendo le scappatoie fiscali). Redistribuire a pioggia rischia di essere una soluzione peggiore del male. Servono incentivi, uguali opportunità e premio al merito e all’impegno, non l’espropriazione della ricchezza indipendentemente dalla sua origine. E per la minoranza che non riesce, nonostante l’impegno, a partecipare alla competizione, si usi lo stato sociale, nato per questo, per proteggerla.

C. La conclusione è disarmante. Il grande docente vede la tassazione come un'”espropriazione”! Roba da non passare l’esame del primo anno… o da ottenere la tessere ad honorem della Lega. E chiude chiedendo l’intervento dello “stato sociale” per gli eliminati nei turni preliminari della “competizione” facendo finta di non essere, proprio lui, uno dei maggiori teorici della demolizione dello stato sociale (vi risparmiamo l’elenco delle centinaia di articoli a favore del taglio della spesa pubblica proprio a partire dai tre grandi capitoli della spesa sociale: istruzione, sanità, pensioni)… Demagogia, astrattezza, menzogna, indifferenza. Gli ingredienti dell’ideologo sono proprio questi.  

 

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