Scrive Jacques Derrida, nella prefazione a “Il teatro e il suo doppio” di Antonin Artaud: «La scena è teologica finché resta dominata dalla parola, dal disegno di un logos primo che non appartiene al luogo teatrale e lo dirige a distanza. La scena è teologica finché la sua struttura comporta, secondo la tradizione di sempre, i seguenti elementi: un autore-creatore che, assente e da lontano, armato di un testo sorveglia, raccoglie e determina il tempo o il senso della rappresentazione, lasciando che questa lo rappresenti in quello che viene definito il contenuto dei suoi pensieri, delle sue intenzioni, delle sue idee. Lo rappresenti per mezzo dei rappresentanti, registi e attori, interpreti asserviti che rappresentano dei personaggi i quali, in primo luogo con quello che dicono, rappresentano, più o meno direttamente, il pensiero del “creatore”. Schiavi che interpretano, eseguono fedelmente i disegni provvidenziali del “padrone”».
Lo stesso Artaud, poi, nel capitolo intitolato “Il teatro della crudeltà”, di quello stesso libro capitale, che tanto ha ispirato tutte le avanguardie del ‘900, diceva, nei paragrafi dedicati alla Regia e al Linguaggio della scena: «Intorno alla regia, intesa non come semplice specchio di rifrazione di un testo sulla scena, ma come punto di partenza di qualsiasi creazione teatrale, si costituirà il linguaggio tipico del teatro. Solo nell’impiego e nel trattamento di questo linguaggio scomparirà l’antico dualismo tra autore e regista, sostituiti da una sorta di Creatore unico, cui spetterà la doppia responsabilità dello spettacolo e dell’azione. Non si tratta di sopprimere la parola articolata, ma di dare alle parole all’incirca l’importanza che hanno nei sogni. Per il resto, bisognerà trovare modi nuovi di registrare questo linguaggio, sia che ci si accosti ai modi della trascrizione musicale, sia che si ricorra a una sorta di linguaggio cifrato».
Or bene, com’è noto, sulla traccia segnata da Artaud, nel corso del XX secolo si è dato vita alle sperimentazioni più estreme: dal Living a Peter Brook; dagli studi sulla sensorialità e la sessualità come segno oscuro, alla incontenibile supremazia del corpo come insieme sinfonico; dalla frammentazione del gesto alle sincopate modulazioni della gola; dal teatro come “jam session” jazz di Leo de Beradinis fino a quelle esperienze di smembramento fonematico del testo, puro significante, portate avanti da quel grande neo demiurgo teatrale che fu Carmelo Bene. In tutte queste esperienze, la drammaturgia scritta, com’è comprensibile, si riduce ad una sorta di pre/testo laddove il testo vero diventa quello che si scrive sulla scena: la scrittura scenica, appunto. Si tratta di percorsi di ricerca che, logicamente, hanno avuto una loro contestualizzazione storica, politica, sociale, e non ultima teatrale -in senso di poetica- capaci di rispondere ad istanze non solo di semplice provenienza artistica ma anche e, forse soprattutto, di carattere politico e filosofico-conoscitivo, come elemento di approfondimento e di indagine antropologico-culturale, diacronico e sincronico. Insomma, il Teatro –come altri linguaggi, s’intende- si è fatto interprete, durante tutto il secolo breve -anche alla luce delle più nuove tendenze di pensiero, che andavano dalla filosofia alla poesia, dalla scienza all’economia- di un più vasto sentimento di rottura con quella morale, quell’estetica, quella concezione ammuffita, borghese, della vita e dell’arte, che tutto rendeva uniforme, piatto e, soprattutto, lontano da quel pubblico popolare, che non appartenesse alla classe intellettuale e colta.
Non sono mancati, com’è ovvio, estremismi e radicalismi, quasi dottrinari o spinti fino al punto di configurarsi come mere e astruse speculazioni intellettualistiche, tanto che, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, si è assistito, sulle scene, ad una progressiva reazione, quasi una restaurazione delle “forme classiche”, accompagnata da un prepotente ritorno al cosiddetto “Teatro di parola”, con il dominio assoluto del testo drammaturgico –di quel Verbo che Artaud pretendeva quasi di espellere- ed una graduale ma inesorabile restrizione degli spazi di sperimentazione di nuovi linguaggi, anche in virtù di leggi e decreti che, normando malamente l’attività teatrale, almeno in Italia, ne condizionano scelte e percorsi artistici.
Or dunque, queste considerazioni sono affiorate alla mente durante e dopo la visione del “Natale in casa Cupiello” di Eduardo, portato in scena, al Teatro San Ferdinando di Napoli, dal regista Antonio Latella e prodotto dal Teatro di Roma. E sono affiorate, queste considerazioni, perché il regista originario di Castellammare di Stabia, neo direttore della Biennale teatro, è senz’altro uno dei più interessanti e colti sperimentatori e ricercatori di linguaggi “altri” della scena nostrana. Le sue regie, non di rado controverse, spaccano pubblico e critica, dando luogo a dibattiti, confronti, discussioni sui social, nei foyer o fuori dai teatri. Questo è senz’altro un merito, ascrivibile a Latella, in un momento non certo facile della vita teatrale, in generale e soprattutto italiana; ma apre subito una domanda: Latella, certamente consapevole dell’effetto prodotto dai suoi lavori, quanto forza quelle legittime provocazioni, al solo fine di produrre dibattito, di creare consenso/dissenso e di attirare pubblico? Quanto, invece, c’è, nei suoi spettacoli, di autentico, di necessario per l’artista e la sua arte? Mi spiego. Latella s’inserisce, a pieno titolo, in quel solco tracciato da Artaud, di cui si parlava all’inizio, e che conferisce al regista il ruolo di un secondo creatore- affianco dell’autore del testo scritto- concepibile come drammaturgo sulla scena e che, per questo, dà vita a quello che Marco De Marinis, in “Semiotica del teatro”, definisce Testo Spettacolare.
La scrittura scenica di Latella – che risente, inevitabilmente, anche della lezione di Luca Ronconi, con cui ha lavorato – saccheggia codici, segni, forme, sottocodici, strutture, testi parziali appartenenti tanto alla più classica “Tradizione”, quanto a quelle “Avanguardie teatrali”, cui si accennava sopra. L’intenso lavoro intertestuale, che sottende ai testi spettacolari di Latella allude al complesso e variegato gioco di prestiti, citazioni, rimandi espliciti ed impliciti, dialoghi, interscambi, che sostanzia i rapporti fra testi parziali della stessa cultura o, se si vuole, di culture diverse. Un testo spettacolare evidenziato, per tornare a De Marinis «nella sua natura di miscuglio di vecchio e nuovo, di “già detto” e “non ancora detto”» e che dà vita ad una Struttura Testuale di codici preesistenti e di codici singolari.
Quanto però, di questo saccheggio e di questo gioco, sia necessario al contesto degli spettacoli, quanto sia autentico, quanto serva a comunicare – o a non comunicare: aspirazione legittima di un’artista – o, di contro, quanto si attesti sul versante dell’autocompiacimento intellettuale o del manierismo, questa è la domanda fondamentale che, sovente, s’ impone di fronte agli spettacoli diretti da Antonio Latella. E allora, sgombro subito il campo da eventuali equivoci, dicendo che questi dubbi mi assillano non poco alla vista dei lavori latelliani. Trovo le regie del neo direttore della Biennale, spesso, auto compiaciute, un puro esercizio di stile, proprio nel senso voluto da Queneau: continue variazioni su un tema unico, che presenta strutture linguistiche simili in un’artificiosa rielaborazione formale; regie che, purtroppo, come nel caso di “Natale in casa Cupiello”, restituiscono, non di rado, l’impressione di un’ ispirazione artefatta, costruita a tavolino e preconfezionata; regie non rispondenti, apparentemente, ad un certo, effettivo bisogno di parlare -o non parlare!- attraverso l'arte scenica; regie che si presentano come un bulimico accumularsi di segni, da destinare alle interpretazioni di raffinati semiotici del teatro. Insomma, un’estetica, mi si passi il termine, radical-chic.
In Latella – almeno questo è il mio giudizio – mi sembra prevalere, a volte, un certo “postmodernismo” rielaborato in una chiave puramente formalizzante, manieristica, di sovraesposizione della poesia; il tutto, volto a dimostrare la sua indiscutibile ed indiscussa bravura registica, la sua capacità di spiazzare, più che di "comunicare e parlare" con e di quella realtà tanto complessa che ci circonda. Sarò rigorosamente marxista, finanche adorniano (Theodor Adorno ndr.) nella mia valutazione estetica delle cose artistiche, ma il Teatro – per parafrasare Visconti che parlava del suo cinema, in contrapposizione con quello di Fellini – deve servire a dirci qualcosa sulla politica, la società, il mondo che stiamo vivendo, mettendolo in discussione per l’appunto “politicamente”. Sia anche attraverso l'incomunicabilità.
Ma, in quest’ultimo caso, per fare solo un esempio, devo avvertire che quel segno, quella incomunicabilità, quella matrice filosofica, sia autentica, necessaria per l'artista. Altrimenti, appunto, rischia di trasformarsi, esclusivamente, in un cavilloso esercizio a puri fini estetici ed in una solipsistica masturbazione intellettuale per celebrare la propria bravura. Insomma, Latella mi dà l’impressione di aver ben compreso cosa desidera un certo tipo di pubblico "colto", intellettualmente raffinato, borghese e "di sinistra": il cui bisogno è marcare una differenza con le classi popolari e/o piccolo-borghesi, nonché con quella borghesia ricca e volgare, i cui modelli sono, indistintamente, di tipo televisivo e modaiolo. Quel pubblico vuole sentirsi sommergere dalla Bellezza fine a sé stessa e, allo stesso tempo, illudersi di comprendere gli arzigogoli dell'autore di riferimento. Quel pubblico cerca qualcosa di complicato da dis/velare, come un enigma, per sentirsi intelligente. E Latella fa in modo che quel pubblico si senta intelligente.
Attenzione, non sto sostenendo le ragioni di un minimalismo di stampo "sovietico", ma credo che la Forma – che, come diceva Nietzsche, è contenuto- non debba ridursi ad un mero formalismo ma debba essere messa al servizio di un pensiero forte, che ci parli, ribadisco, "Politicamente". E credo che questo, Latella, sovente lo smarrisca, lasciandosi trascinare troppo dal suo eclettismo creativo, fine a sé stesso. Uno smarrirsi che si verifica, puntualmente, anche nel suo “Natale in casa Cupiello”. Cerchiamo di capire perché.
Com’è noto, tanto la drammaturgia eduardiana, quanto la sua straripante e ossuta corporalità d’attore – composta di una partitura di gesti, mimica e silenzi – in uno con la sua maestria registica, segnano un’ eredità che pesa come un macigno sulle spalle del teatro napoletano. Le esperienze drammaturgiche del dopo Eduardo –per evocare il bel volume di Luciana Libero- sono state segnate da un faticosissimo tentativo, quasi un moto di liberazione dall’eduardismo, tematico e linguistico. Santanelli, Ruccello e Moscato hanno tratteggiato, ciascuno a proprio modo, nuove forme, nuovi linguaggi, nuove figure teatrali, nuovi scarti retorici, nuovi stilemi, nuove concezioni drammatiche.
Le avanguardie, sulla scena – se si eccettuano le alte/basse contaminazioni di Leo de Berardinis – hanno praticamente ignorato Eduardo, colpevolmente direi, lasciando il posto ad una sterminata serie di inutili e noiosissimi spettacoli mimetici – Carlo Giuffré in testa – che del Pontefice cercavano e cercano di imitare tutto, oltre a subirne la sacralità della Parola. Ebbene, con Latella, fortunatamente, questo è un rischio che non si corre. Latella, artaudianamente appunto, non si fa servo del dettato di Eduardo; non ne rappresenta pedissequamente pensieri, idee, intenzioni; non ne esegue fedelmente i disegni. Latella, com’è giusto, si fa autore, riscrivendo scenicamente il Natale di Eduardo, nel tentativo di liberarne e vivificarne concetti, sintassi, segni, allegorie, personaggi. Ma, e questo è il punto focale, ci riesce appieno? Secondo noi, questo tentativo, tranne che nel corso di un primo atto raggelato e lirico, ipnotico e musicale, cechoviano e brechtiano, didascalico e suggestivo, stilizzato e denso, finisce con l’infrangersi, nel secondo e soprattutto nel terzo atto, contro le aguzze guglie di un eclettismo di maniera e autoreferenziale.
Lo spettacolo si apre con una immensa e palpitante stella cometa – belle le invenzioni scenografiche di Simone Mannino e Simona D’Amico, il cui charme visivo è esaltato dalle luci curate da Simone De Angelis – che, calata dall’alto, chiude lo spazio scenico costringendo, quasi spingendo in ribalta, gli attori che, schierati, anche in ordine di importanza dei personaggi interpretati, re/citano il testo eduardiano, comprendendo le didascalie e finanche gli accenti: acuti, gravi, circonflessi. Superati i primi cinque minuti, durante i quali si viene assaliti da un certo disorientamento, si entra in una sorta di s/concerto sinfonico e sincopato, eseguito su una partitura per voci soliste – modulate sui sentimenti dei personaggi – e per gesti appena accennati, sbozzati come quelli di una supermarionetta che risponde agli ordini di un intimo Creatore, che ne plasma il carattere disarticolandone la psicologia: è il personaggio/gabbia, da cui non si esce.
Al centro di questo coro, sospeso tra il baratro del terrificante immobilismo presepiale e l’abisso grottesco della rappresentazione vitale, c’è Luca Cupiello (un intenso Francesco Manetti) demiurgo-orchestratore, cui spetta il compito di segnare il Kronos bloccato di battute e personaggi, attraverso il simbolico gesto della trascrizione della Parola nell’aria. L’immagine allegorica che si schiude davanti ai nostri occhi -e alle nostre possibilità interpretative- è di grande impatto e potenza filosofica. Dall’Essere non si esce. Dal Tempo non si fugge. Dal Linguaggio non si evade. Dunque, Latella, in questo primo atto, sembra voler dichiarare l’impossibilità ontologica di liberarsi del fardello testuale di Eduardo, di quella sua drammaturgia che è forma perfetta, invalicabile, non trasgredibile: come un Presepe. Un Presepe che contiene la vita ma la costringe nel recinto metafisico di un’immagine da sogno, che si sgretola al primo contatto con il reale. Il sogno di Eduardo era il sogno piccolo-borghese di una famiglia, di una serenità di rapporti umani che erano e sono inconciliabili con le trame crudeli della vita.
Eduardo lo sapeva e per questo costruiva, ogni sera, nella finzione dell’azione teatrale e attraverso l’ordine prestabilito delle sue parole, quel Presepe che, sbriciolandosi, lo conduceva alla morte. Latella qui, in una sorta di risonanza metonimica, è, ad uno, Luca Cupiello, il demiurgo, ed Eduardo, il creatore supremo. Un creatore che plasma un Presepe teatrale nato abortito, come l’esistenza stessa, che è, heideggerianamente, un essere per la morte. Latella, insomma, denuncia, in questo primo atto, l’irrappresentabilità di Eduardo, ma non solo. Denuncia anche tutto quel filone mimetico di rappresentazioni, appunto, che hanno museificato Eduardo, chiudendolo in quella fissità che lui, solo artificiosamente, aveva creato, ma della quale, paradossalmente, proprio con il Natale, si libera. Il Teatro -sembra volerci dire il regista stabiese- continuando a proporre scialbe riproduzioni dell’originale, si trasforma esso stesso in un inane Presepe. La sfida, invece, dev’ essere la vita, in quanto ha di tragico e grottesco, fino alla morte. Una Morte, certo, ma capace di lasciare un segno ed un’eredità. Il che è possibile solo attraverso un gesto Rivoluzionario. E per come la vedo io, quel gesto rivoluzionario, Latella lo compie tutto nel primo atto, dove quella irrapprsentabilità, di cui si parlava prima, si traduce in un mettere sulla scena e dire semplicemente, ma poeticamente e prepotentemente, la Parola di Eduardo, densa di significato.
Tutto questo mi ha fatto pensare ad un primo vagito di liberazione. Ad una meravigliosa, illuminante epifania. Avrebbe dovuto osare fino in fondo, il regista, e proseguire in quella direzione. Sia chiaro, ci rendiamo conto che uno spettacolo -della durata di circa tre ore- tutto impostato su quella impossibilità rappresentativa, sarebbe potuto risultare ostico da digerire. Avrebbe però ottenuto, almeno a mio modestissimo avviso –ovviamente, attraverso un accurato lavoro di riadattamento drammaturgico, che la brava Linda Dalisi avrebbe certamente saputo operare- un effetto dirompente. Invece, Latella si lascia sedurre dal suo estro registico e dalla possibilità di una ordinaria rappresentazione, smarrendo, dal secondo atto in poi, tutto quell’incandescente nucleo concettuale e allegorico, tutto quel rigore poetico e politico, tutta quella possibilità di “denuncia”, per lasciare il posto ad una visionarietà, senz’altro di grande impatto simbolico ma le cui immagini sembrano essere l’effetto di una semplice canna di buon hashish, non certo la proiezione psichedelica di un trip/incubo all’LSD, cosa che ci si aspetterebbe da un regista della sua caratura intellettuale e tecnica. Latella, insomma, mette in scena tre spettacoli in uno. In tal modo, tra l’altro, finisce per risentirne anche quella raggelante, s/concertante prova attoriale, fornita dagli interpreti, comunque eccellenti anche nei due segmenti spettacolari successivi a quel primo atto.
Su tutti, però, vanno doverosamente ricordati il già citato Francesco Manetti – un Luca Cupiello prima nervoso direttore d’orchestra, poi fragile uomo, infine, tenero agnello sacrificale in una mangiatoia, “Pater Familias” colpevole della sua kafkiana assenza/presenza, simbolica vittima edipico-lacaniana della sua stessa Parola/Legge; Monica Piseddu –una Concetta che è Madre – troppo semplice il paragone brechtiano- dolorosa, implosa, cosciente del suo ruolo di fulcro della casa/prigione/tomba, sofferente ai piedi di un bambinello cristico, ucciso sull’umana croce simbolica della pace illusoria o dal ressentiment filiale; Valentina Acca -una Ninuccia che è donna trasgressiva ma non ancora emancipata dal ruolo di “femmina”, contesa dal dominante e ridicolo modello maschile, e sospesa, quindi, tra l’amore sincero e il patto di fedeltà matrimoniale; Francesco Villano –un Nicolino che l’attore modella, in cadenze grottesche, sull’archetipico carattere da sceneggiata dell’”uomo positivo”; e, una spanna più su, uno strepitoso Lino Musella, nel cui Tommasino risuonano per postura, mimica facciale e felicissima impostazione timbrica, le corde di un “figlio di famiglia” ipocondriaco, stanco, risentito, in una parola puerile –come Bataille definiva il Kafka di “Lettera al Padre”- e quindi incapace di accogliere su di sé il peso della gravosa eredità paterna. Interpreti capaci, in quel primo atto ancorché apparentemente statico, di catturare, incantare, ipnotizzare, divertire, inquietare, all’interno di un pentagramma di voci e gesti che, nella potenza dell’Atto dicono più di quanto non facciano nel caotico movimento dell’Azione, che caratterizza il secondo segmento dello spettacolo, o in un terzo segmento calligrafico e virtuosistico.
Nel secondo atto, infatti, malgrado non manchi il fascino dolente, grottesco e cupo di alcuni segni – la carretta, che è casa e carro funebre, tirata da Concetta; il gioco dissacrante sui cliché della sceneggiata; uno struggente finale, quasi de berardinesiano – per tutta la sua durata, Latella mette in campo una sorta di movimento ansioso, ipercinetico, chiassoso – le musiche di Franco Visioli, sebben interessanti, contribuiscono ad acuire questa sensazione – che rimanda ai modelli avanguardistici degli anni ’70, come quelli, ad esempio, del cosiddetto teatro immagine. Latella cita, chiaramente rielaborandoli nella costruzione di una propria sintassi, segni e stilemi, anche personali –vedi l’ennesimo utilizzo metaforico di quelle figure di animali già utilizzate altrove (“C’è del pianto in queste lacrime, “Ti regalo la mia morte, Veronika” ecc.) che qui, didascalicamente, rimandano chiaramente agli animali del Presepe ma anche alla bestialità umana- ma non riesce a restituire l’angosciosa e grottesca sensazione di smembramento e dissolvenza –presente nel testo eduardiano- delle relazioni umane, su cui dovrebbe fondarsi non solo quell’architettura di cartapesta che è il micro cosmo familiare piccolo-borghese ma, nell’ingenua visione, antistorica e metafisica di Luca, anche l’intero mondo.
La struttura sintattica di Latella rimastica gli stilemi dell’estetica postmoderna, alimentandosi, indiscutibilmente, di virate improvvise, di slittamenti, di squarci di immagini epifaniche, ma palesa, non di rado, disomogeneità e incongruenze, ridondanze ed eccessi. Un’iperfagia creativa che avrebbe bisogno di essere contenuta, perché il rischio, a volte, è quello di perdere il controllo, risultando stucchevoli anziché poetici. Il terzo atto è l’esempio più evidente di quanto appena detto. Latella qui si abbandona del tutto al virtuosismo e al calligrafismo, mettendo in scena un rito funebre –bella invenzione- ma in forma di Opera: per la precisione “Il Barbiere di Siviglia”, ad evocare le regie che Eduardo fece su Paisiello, prima, e Rossini, poi. Sicuramente è da apprezzare la splendida voce di Maurizio Rippa (il medico), che canta “La calunnia è un venticello” ma non molto di più. Il senso profondo di quel terzo atto viene qui soffocato dalla sua rappresentazione formale, nelle cadenze del melodramma. Un genere che, pur attestandosi sul piano del patetismo, non rivela le sottili trame crudeli che nutrono le dinamiche interpersonali ed il tranello beffardo che la vita gioca, nell’attimo stesso di abbandonarlo, a Luca Cupiello il quale, moribondo, sancirà proprio quell’adulterio di Ninuccia, per lui inconcepibile: allegoria perfetta di quell’impossibilità di controllare il mondo che, spesso, c’ inganna con la sua apparenza, e del fallimento della famiglia, come concetto piccolo-borghese. Va detto, comunque, che, come già nel secondo atto, non mancano alcune idee interessanti, che purtroppo, però, Latella sviluppa sul più semplice versante del compiacimento virtuosistico.
Ad esempio, il terzo atto si apre con la discesa dal cielo di una sorta di Angelo della morte – un Leandro Amato francamente sopra le righe – e con tutta la teoria di condomini, vestiti di nero – i costumi sono disegnati da Fabio Sonnino– che, dallo sfondo, compaiono sulla scena a mo’ di prefiche salmodianti, riunite, come avvoltoi in attesa della morte, attorno al corpo morente e disilluso di Luca Cupiello, che Latella adagia in una mangiatoia, a sottolineare che con la sua dipartita svanirà anche l’immagine chimerica del suo sogno presepiale e fanciullesco. E allora, mi chiedo, perché non celebrare una sorta di messa nera? Un rituale satanico? Francamente, mi aspettavo che Latella andasse in quella direzione e, considerato il finale eretico, deciso dal regista stabiese, credo che sarebbe stato molto più adeguato. Infatti, Latella chiude il suo spettacolo con un simbolico parricidio. Tommasino, dopo aver finalmente dichiarato il suo amore per il Presepe paterno, accettandone, di fatto, l’eredità, prende un cuscino e soffoca Luca nella mangiatoia. Ma lo fa con un gesto tenero, di patetica compassione che, di fatto, depotenzia la sua essenza tragica e simbolica. Certo, a morire è il fanciullo che è in lui, diventato adulto. Certo, ad essere ucciso è quel padre Eduardo, la cui eredità Latella accoglie nel giusto tradimento della sua Parola. Non ho potuto fare a meno di chiedermi, però, seguendo il mio ragionamento, mentre assistevo al finale, perché non mettere in scena il cerimoniale di un liberatorio, crudele, orrorifico pasto totemico, compiuto da tutto il presepe umano? Un atto di odio-amore, di espiazione e di ammissione di colpa, nei confronti di un “Padre primitivo” – per citare Lacan – del cui simbolico fardello non ci si può liberare.
«Il Teatro della crudeltà non è una rappresentazione. è la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile», scrive Derrida nella prefazione a quel “Il teatro e il suo doppio” che si citava all’inizio. Ebbene, se proprio si è deciso di rappresentarlo, Eduardo -ferma restando la mia personalissima e contestabilissima idea su un primo atto che prepotentemente, “politicamente”, creativamente ne denunciava la sua irrappresentabilità, nell’orda di banalità mimetiche che imperversano sulle scene e ne mortificano l’eredità- lo si faccia osando fino in fondo e senza voler suscitare facili consensi o dissensi. Si corra il rischio, insomma, di rappresentarne la crudele irrappresentabilità della vita di cui ci parla Eduardo nelle sue opere. Latella ha l’intelligenza, la cultura e la bravura per farlo.
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