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Il primo condannato a morte su ZOOM

Finalmente la notizia è arrivata – ed è in prima pagina mondiale. A Singapore è stata emessa la prima sentenza di morte tramite Zoom. Peter Fernando, difensore del condannato, ha dichiarato che venerdì scorso la Corte suprema, proprio tramite la piattaforma di video conferenza, ha comminato al suo cliente la massima punizione.

Non è la prima volta che una sentenza viene pronunciata o annullata in tele-conferenza. Abbiamo visto fino alla nausea la riproduzione della scena in cui l’avvocato chiama il governatore per bloccare la sentenza, mentre il condannato giace sulla lettino o è costretto sulla sedia elettrica.

Non ci sarebbe granché da stupirsi, se non fosse che Zoom lo usiamo tutti i giorni, insieme ai nostri figli, per seguire la maestra delle elementari che ci istruisce sull’uso dell’accento o dell’apostrofo.

Rimane lo scandalo per un evento che appare davvero irrituale. Come se nella condanna tele-trasmessa ci fosse un sovrappiù di accanimento verso il corpo stesso del condannato a morte. Come se una sentenza comunicata dal vivo fosse meno oltraggiosa di una morte annunciata live.

Non c’è dubbio che c’è una differenza tra una condanna in presenza e una condanna in streaming. Ma nessuno dice di che differenza si tratti, come se la cosa fosse ovvia.

Un giorno ho provato a dire a una mia amica che essere lasciati con un SMS (c’erano ancora gli SMS) è meglio che essere lasciati direttamente, perché l’SMS è come una lapide, si ha qualcosa su cui piangere e fare il lutto. Mentre una dichiarazione di morte dell’amore, pronunciata in presenza, lascia sempre il dubbio di non avere ascoltato bene, di avere capito male, e dunque lascia la possibilità di ritornare all’attacco, eccetera.

Non c’è bisogno di confessare che con queste elucubrazioni ho perso un’anima, e forse qualcosa di più.

Questa differenza non è cosa di lana caprina. Un’altra amica – ma forse chiamarla amica è un po’ eccessivo – un contatto, forse con l’intenzione di portare un po’ di luce su questa differenza, scrive su Facebook che i bar non sono luoghi che fanno caffè o spriz take away nel bicchiere di plastica. Se è così uno il caffè se lo fa a casa, e risparmia. Il bar, dice, è un luogo di socialità e relazione.

Più che una delucidazione mi pare la difesa di un luogo comune, una difesa debole, per giunta.

Ammesso e non concesso che per relazione volesse intendere una sorta di corpo a corpo, un toccarsi, limonarsi, leccarsi o strofinarsi, cose che, è evidente, non possono farsi con una tele-fonata o una tele-visione, resta ancora da dimostrare, e la cosa non è scontata, che questi incontri lubrichi e salivosi possano tenersi in assenza di un qualunque tipo di tele-comunicazione.

Non sto qui a dilungarmi, basterebbero le esperienze di tutti i giorni a mostrare come, per perfezionare un incontro in presenza, sono necessari un certo numero di WhatsApp, di viaggi in bicicletta e in pullman, persino a piedi, tutti mezzi, questi (compreso i piedi), di tele-trasporto.

Da quando Gutenberg ha migliorato il più potente mezzo di tele-trasporto mai apparso sulla Terra – la scrittura – le possibilità di incontrarsi, limonarsi e tutto il resto, non sono diminuite, anzi, sono cresciute in modo esponenziale, tanto da favorire una copula convulsiva che ha portato la popolazione mondiale da poche centinaia di milioni di persone a 7 miliardi e oltre (favorita da un certo sviluppo delle forze produttive…). E pensare che Platone, che nel Fedro aveva già capito la potenza moltiplicativa della scrittura, la paragonava ad una tecnica malvagia.

È questo valore di presenza (di presenza a sé e di presente in senso temporale) che Hegel, Freud, Heidegger, Saussure, eccetera, hanno contribuito a smontare, mostrando come anche l’incontro più intimo, l’incontro con se stessi nel sogno, è una tele-fonata, anzi, una tele-visione.

E che nel sonno a parlarci è un altro, un altro che ci parla per mezzo di segni, dunque di strumenti, che si possono interpretare e intendere dopo un’accurata analisi.

E che questi segni acquistano significato solo nella struttura di rimandi in cui una presenza (il segno) sta per una cosa assente.

E che dunque non c’è presenza che non sia contemporaneamente assenza. O, per dirla con Hegel (o Spinoza), che ogni presenza è negazione.

Andiamo al bar non per il caffè. Il caffè è una scusa. Rimanda alla possibilità di incontrare qualcuno, una persona, una ragazza o un ragazzo con cui parlare o fare cose – più fare cose che parlare. Sia chiaro, però, l’intenzione non è di scaricare la tensione, di consegnarlo a qualcuna, anzi, a qualcosa, e finirla lì.

La cosa, il corpo dell’altro, non è il vero obiettivo, anzi, sì – però non soltanto. È proprio per toglierci da questo imbarazzo che l’atto vero e proprio è preceduto quasi sempre da convenevoli, ritenuti perlopiù inutili. Ma necessari per far capire all’altro che non siamo lì per il suo corpo, che non siamo venuti alla svelta per commettere il mero fattaccio, e che il fine di tutta la commedia non è il corpo nudo e crudo di chi ci sta di fronte in bella presenza – o forse si.

Non si vuole che l’altro pensi che il suo corpo non ha una forza di attrazione sua propria, ma pensi che l’attrazione fisica allude a un sentimento e a un desiderio, seppur effimeri, ma che non si esauriscono nella copula, e rimandano a qualcos’altro, tipo il rispetto, l’amore, la passione, o cose di questo genere.

Anche quando questo temporeggiamento è ridotto all’osso, e si rinvia a dopo ogni discussione e commento, si spera che l’altro capisca che la foga fa segno a una mala educazione, che rispetta l’altro nella sua immediatezza fisica, più di quando non faccia chi ciancia e pazienta e poi si smoscia.

È facile incartarsi in queste situazioni, e dire di più o di meno di quello che andrebbe detto.

Mi fermo qui, perché la struttura di rimandi è circolare, come aveva capito bene Nietzsche, che ora aggiungo all’elenco per chiudere il cerchio.

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