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I can’t breathe: il sadico principio di piacere neoliberista

Sono due giorni, oramai, che su tutti i social media circola il video dell’ennesimo, crudele, insensato, disumano omicidio commesso dalla polizia Usa ai danni di un uomo di colore.

Non una novità, la brutalità delle forze dell’ordine americane, sui cosiddetti “nigger”. Vittime, da sempre, dell’apartheid culturale e razziale, prima ancora che sociale, che attanaglia gli Stati Uniti.

Come Alton Sterling e Philando Castile, i due giovani afroamericani uccisi in meno di 48 ore da agenti di polizia in Louisiana e Minnesota, nel 2016.

Come Travyon Martin, ucciso in Florida nel 2012. Come Michael Brown, ucciso a St. Louis, nel 2014. Come Laquan Mcdonald, assassinato a Chicago, sempre nel 2014.

O ancora, Tamir Rice, a Cliveland. E Freddie Gray, nel 2015, massacrato di botte a Baltimora.

Tuttavia, stavolta non si tratta di colpi di pistola o di un cruento pestaggio. Stavolta la scena contiene qualcosa di assolutamente inspiegabile, nella sua feroce pacatezza. Qualcosa di orrendamente “normale”, eppure innaturale.

Orbene, il video degli sbirri del dipartimento di Minneapolis che, con l’indifferenza e l’inerzia tipica della macchina umana”, uccidono un afroamericano soffocandolo sul selciato, tenendogli – “semplicemente” e con disinvoltura – un ginocchio premuto sul collo, e la bocca a baciare la terra, è emotivamente paralizzante, nel suo ridondante realismo in assenza di naturalezza.

Una paralisi emotiva, però, che prorompe immediatamente dopo nel cervello sotto forma di odio e di gelida rabbia.

Un furore iconoclastico che ci acceca e ci attraversa, conducendo con sé non solo il desiderio di cancellare gli sbirri, ma forse anche, per quegli inspiegabili paradossi che si alimentano nel parossismo dell’ira, l’intero genere umano.

Tanta è l’insensatezza disumanizzante dell’atto che ci getta, infine, in un’ angoscia che rischia di trasformarsi in una raggelante apatia. Quasi a volersi proteggere da quell’umano, “normale”, sadismo.

Capace di annichilirci, se non fosse che la cocciuta resistenza nel voler sentire dentro sé stessi qualunque ingiustizia, commessa in qualunque parte del mondo, come inaccettabile e da riscattare, non ci facesse ancora nutrire i residui brandelli di quel bisogno di lottare, indispensabile per cambiare questo porco, maledetto mondo.

I bestiali e infami protagonisti in divisa di quella scena assurda, incarnano dunque null’altro che l’ingranaggio di una catena produttiva e di un concetto di governance, che concepisce sé stesso come un Leviatano inaccessibile, indefettibile e non giudicabile.

Rappresentano l’Ipostasi di un principio di autorità, al tempo stesso trascendente e terreno, come la Legge di “Nella colonia penale” di Kafka.

Terrorizzante, per l’arbitrarietà cui siamo tutti soggetti, di fronte al Potere e allo Stato, quando queste entità metafisico/giuridiche finiscono per scollegarsi dalla realtà e dalla collettività. Andando a ridefinirsi in un’ astrazione ideologica talmente autoreferenziale, da sfociare in un narcisismo istituzionale autistico, quasi divino nella sua solitudine, per il quale l’altro – in questo caso il cittadino o il suddito che dir si voglia – diventa esclusivo parametro della capacità di comando o di possesso delle esistenze e dei corpi, su cui si esercita l autorità.

È sempre accaduto nella storia dell’umanità. Non a caso, l’assunto marxiano-engelsiano, per la realizzazione di una società senza classi, è il superamento dello Stato.

E lo stesso Lenin parlava di estinzione progressiva della sovrastruttura statale, da ritenersi simbolo dell’oppressione di classe.

Dunque, nella nostra epoca, dominata dal Capitale, dal neoliberismo e dall’imperialismo, i cui fondamenti legali, culturali ed ideologici sono la proprietà privata, il patriarcato e la superiorità di razza e di censo, quell’astrazione ideologica è incarnata dal Mercato, dal Profitto e dai meccanismi governamentali-statuali che, con le loro leggi assolute e contestuali, rendono l’individuo, e il concetto stesso di persona, un mero coeffeciente nella catena del valore interna al Capitale.

Neanche più merce, a dire il vero, ma scarti di merce. Merce avariata o fallata, finanche a causa di un’estetica non rispondente al feticismo merceologico corrente, che vuole la merce-umana quanto più caratterizzata da specifiche qualità. Tra cui “il bianco” è quasi imprescindibile.

Un’ideologia capace di disarticolare le vite della loro più intima necessità relazionale, solidaristica, affettiva. Distruggendo ogni connessione sentimentale e intersoggettiva. Espellendo l’umanità stessa dal consesso sociale in cui agiamo.

Siamo oramai oltre l’automatismo alienante del lavoro e della produzione di cui ci parlava Marx e che, con tanta efficacia, Chaplin rappresentò in “Tempi Moderni”.

Siamo all’atrocità del solipsismo bachechico, ben al di là anche dello spettacolo debordiano. Siamo alla virtualizzazione dell’esistenza, ridotta a videogioco o a profilo social.

La scena dei poliziotti di Minneapolis che, ripresi dai cellulari, uccidono un uomo di colore con la tranquilla calma di un Hannibal Lecter, con il disprezzo e la noncuranza con cui si può togliere la merda dalle strade, è emotivamente paralizzante, come si diceva all’inizio, per l’intollerabile mancanza di senso. Se non quello del godimento della morte in presa diretta.

Un ulteriore passo in avanti verso il baratro di un “principio di piacere” che è ben al di là della pulsione di morte freudiana. Giungendo a configurarsi come meccanicità di un desiderio di autorappresentazione – quasi imposto, come suggerirebbe Žižek, in una società dedita all’eccesso di godimento edonistico e onanistico, e caratterizzata dal sovvertimento degli ordini simbolici tradizionali – nell’atto che, più di ogni altro, e oggi più che mai, si esplicita come dimostrazione e volontà di potenza. L’omicidio immotivato.

Basterebbe considerare, d’altra parte, la produzione cinematografica contemporanea – e, nella fattispecie, made in Usa – per comprendere fino a che punto la colonizzazione dell’immaginario collettivo  si è spinta sul versante, non della violenza, che sarebbe cosa banale, ma dell’insignificanza della stessa esistenza. Che è ridotta a fantoccio da abbattere, nell’economia di pellicole il cui unico scopo è il trionfo degli eroi – buoni o cattivi che siano – a prezzo di ettolitri di sangue da versare e di un mondo trasformato in un enorme cimitero.

Quasi grottesco, se non ci scontrassimo con una realtà che, a volte, supera la fantasia.

I poliziotti di Minneapolis mostrano un disprezzo per la vita così palese, nel loro delirio di onnipotenza travestito da autorità – conferitagli dalla società americana intimamente violenta, classista, razzista ed alienante – da manifestare una distorsione del pensiero e dell’umanità stessa, spintasi ben più in là dell’homo homini lupus di hobbesiana memoria.

Quell’immagine è, difatti, in/immaginabile finanche per il più crudele predatore della savana, che uccide esclusivamente per fame o per autodifesa. Non certo per semplice godimento sadico.

Siamo, ancora una volta, ben oltre quanto postulato, da Deleuze e Guattari, ne “L’Anti Edipo. Capitalismo e Schizofrenia”, dove i due autori scrivevano che, nel mondo moderno in cui vige il sistema capitalistico, «l’inconscio non delira sui propri genitori, bensì sulle razze, le tribù, i continenti, la storia e la geografia, sempre un ambito sociale».

Il delirante thanatos nazista, che assume le forme dei poliziotti intenti ad uccidere il “negro”, sembra essere diventato l’episteme di questi tempi, in cui l’alito della morte pervade ogni sfera della nostra esistenza.

Ma è un delirio thanatoico che ha l’alito fetido della tecnocrazia neoliberista, fredda, asettica, efficientista. Il cui eterno presente è dominato da quella techné divenuta il vero soggetto della Storia, e nelle maglie del quale l’essere nulla del soggetto/uomo si cristallizza, relegandoci in ruoli sociali precari e intercambiabili – pluridimensionali, per invertire il concetto espresso da Marcuse – il cui scopo teleologico è sintetizzabile in una sorta di precetto economico: nasci, produci (anche durante il tempo libero), consuma, muori.

Annaspiamo in un oceano di identità fittizie e scollegate, al ritmo del tempo veloce della produzione e del consumo, che fagocita l’essenza stessa dell’umanità, trasformandola in una protesi opzionale, adattabile, casomai, ad ogni circostanza che ne richiedesse l’uso.

L’assassinio delle emozioni, del riconoscersi tra persone, della comprensione tra individui, del senso di collettività, si è consumato, già molti anni fa, ancor prima che su un marciapiede di Minneapolis. Si è consumato sugli scaffali di metropoli/discount dove siamo collocati come pezzi di vite frantumate, la cui unica logica è l’insensatezza della risposta automatica alle necessità del sistema-mondo.

Insensatezza di una soggettività ridotta a valore di scambio. Insensatezza di uno spazio talmente dilatato da essere diventato, per contrasto, soffocante nella sua regressione ad una dimensione privata e concentrazionaria.

Insensatezza di un tempo il cui incedere ci divora attimi di vita senza passione, senza dolore, senza sapore, se non quello acre del traguardo finale dove, ad attenderci, non ci sono gli applausi ma la beffa di un ultimo debito da pagare.

In questo sconfinato deserto d’insensatezza, ci aggiriamo come tossici in cerca di una dose sempre più massiccia di surrogati emotivi. Il desiderio è al palo e il dovere morale, oggi, è diventato il godimento fine a sé stesso. Inesorabilmente mortifero.

È questa insensata, sadica, quotidiana normalità anestetizzante, cui siamo ormai assuefatti, che ha portato la polizia bianca di Minneapolis ad uccidere “il negro” George Floyd.

Una morte voluta dal modello di vita americano, sempre meno sogno e sempre più incubo, specie per le minoranze etniche, per i ceti subalterni e per i soggetti più deboli come George, “sospettato” di essere un tossicodipendente.

Un omicidio commissionato dalle regole stesse del Capitalismo finanziario, sempre più criminale, razzista, iniquo, feroce nella sua rigorosa divisione in classi. E che poco e male tollera la marginalità, la diversità, la periferia esistenziale dei dannati della terra e l’improduttività. Poco e male tollera la vita, se non è quella imposta dal suo paradigma.

Per questo, se qualche anello disturba l’ingranaggio, bisogna toglierlo e sostituirlo. Se qualcosa stona con l’arredamento e il decoro urbano, va spazzata e gettata via. Come un qualsiasi rifiuto. Come una pericolosa scoria tossica. Come la merda.

Per la società wasp (white anglo-saxon protestant) americana, George Floyd rappresentava, evidentemente, quel rifiuto, quella scoria pericolosa perché tossica e nera. Un pezzo inutile della fabbrica-mondo. Ed è stato alzato da terra – una volta consumato l’assassinio, nella forma odierna della repressione punitiva – come la merda che sporca le strade.

Un omicidio nell’ordine delle cose, dunque. Banale come il male. “Normale” come un naufragio con centinaia di morti, servito durante il pranzo. Quotidiano come la guerra, apparecchiata per cena. Inautentico come la realtà in cui siamo immersi. Sopportabile perché virtuale come il cellulare che lo ha riprodotto.

Le nostre metropoli possono sopportare caos e sporcizia, ma non la puzza della povertà. Come i padroni del bellissimo Parasite.

Rivendicando, allora, la volontà di essere una scheggia impazzita dell’ingranaggio, una scoria tossica in un sistema che pretenderebbe di stritolare le nostre esistenze in un individualismo claustrofobico e omologato, spezzettato e multitasking, distanziato e terrorizzato dall’altro, finanche de/realizzato nella sua dimensione sempre più virtuale e perciò stesso violenta, in quanto priva di corpo, mi sia consentito di esprimere un augurio.

Questo sistema fondato sull’iniquità, la sopraffazione, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e sulla morte del desiderio sostituito dalla necessità del consumo, deve essere finalmente sovvertito. Con tutta la rabbia e la violenza che abbiamo covato dentro.

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1 Commento


  • Renato

    Ma qualcuno invece di filmare non poteva buttarsi addosso allo sbirro?

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