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“Il futuro ha un cuore antico”. Il ciclo sull’Urss di Accademia Rebelde

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.
«Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava
Klockov.

Rivolgo col bastone le foglie dei viali.
Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.
Proteggete le nostre verità.

Franco Fortini, 1994

Nel 1955 l’autore di Cristo si è fermato ad Eboli, Carlo Levi, come molti altri intellettuali italiani ed europei del tempo, fece un viaggio in Unione Sovietica. Da quel viaggio venne fuori un reportage che intitolò Il futuro ha un cuore antico, libro che fu stampato a fine giugno del 1956, ossia tra il XX Congresso del PCUS (febbraio) e i fatti di Ungheria (novembre), ossia nel momento più difficile del movimento comunista internazionale.

In quel resoconto, che lo scrittore voleva fosse oggettivo e privo di pregiudizi, si trova un passaggio che possiamo prendere ad esempio per illustrare come veniva percepita e cosa rappresentasse storicamente, per larga parte dell’umanità, l’Unione Sovietica: 

È come ritrovare un filo, il capo di un filo spezzato, e che qui pare non si sia mai interrotto, qui nel paese della grande frattura, della Rivoluzione di ottobre. Forse, pensavo, la grande frattura dell’Era delle guerre è avvenuta dappertutto, ma in un modo diverso e opposto; e quello che ha toccato e distrutto negli altri paesi, qui è rimasto intatto, e viceversa.

Qui si sono rovesciati i rapporti politici e sociali, conservando il costume e i sentimenti: altrove, per conservare i rapporti politici e sociali, si sono rovesciali il costume e i sentimenti.

La grande rottura è venuta qui nel ’17, prima che la guerra avesse toccato la trama delicata dei rapporti che legano l’uomo a se stesso e agli altri, e la scomparsa totale di una classe dirigente già decaduta ha lasciati integri i valori fondamentali che il mondo contadino e operaio portava in sé, e perfino i modi del gusto, che i nuovi sopravvenuti adottavano, senza modificarlo; e la rottura delle relazioni col resto del mondo aiutava a conservare immobili gusti e sentimenti.

Così come gli abitanti della Nuova Inghilterra hanno serbato i modi puritani della patria di origine, o come i canadesi hanno conservalo il francese del ’700, i sovietici sono rimasti i custodi dei sentimenti e dei costumi dell’Europa, di quando l’Europa era unita, e credeva, tutta intera, in alcune poche verità ideali, e aveva fiducia nella propria esistenza.

Sono le stesse strade che gli uomini della mia età hanno calpestato in un tempo che sembra lontanissimo, e che qui, a ogni diversa prospettiva, a ogni apparire di persona, pare si riaffaccino dal di dentro, dall’intima ombra del tempo: quella semplicità, quell’ingenuità, quell’onestà, quella pulizia morale, quella timidezza, quella volontà di bene: quell’insieme di ideali che raccolgono insieme i miti del progresso, l’ottimismo della ragione, il positivismo, la fede nella scienza, il gusto per l’arte verista e naturalistica e la decorazione eclettica e eteroclita, fiduciosa accostatrice di tutte le possibili tradizioni di tutte le epoche e di tutti i luoghi, la passione per le grandi idee internazionali, il senso del potere dell’uomo sulla natura e sul mondo, la tecnica, la scoperta, la bontà, la virtù.

In questi trent’anni che ci separano dalla fine dell’Unione Sovietica si è lavorato molto per demolire questa immagine che, bisogna dire, si iniziò a picconare sin da subito e con più forza proprio a partire da quel 1956.

Da allora l’unità del movimento comunista internazionale si frantumò, e l’immagine della “Madre Patria” del Socialismo subì un costante processo di erosione che perdura ancora oggi, come se l’obiettivo da distruggere fosse più il “mito” che non la realtà stessa dell’Unione Sovietica.

Lo scorso dicembre si ricordavano i 30 anni dalla fine dell’Unione Sovietica: ai discorsi ufficiali di un tempo non è stata aggiunta nessuna parola nuova: è la solita ripetizione di uno stanco rituale, ma con ancora una funzione ideologica.

Tutt’oggi nella pubblicistica e nella ricerca storica permane quello spirito demolitore che non cessa di operare, probabilmente perché l’anticomunismo (di destra, di centro e di sinistra) continua ad essere un – e forse è l’ultimo – saldo baluardo dell’identità ideologica nell’attuale processo di disgregazione dei punti di riferimento tradizionali che da qualche tempo l’“Occidente” sta vivendo.

A trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica, l’“Ovest” non è mai uscito dallo spirito della guerra fredda e dalla ricerca del “male assoluto” contro cui scagliarsi e con cui giustificare la propria esistenza e la propria natura.

Del resto, il “nuovo ordine mondiale”, annunciato all’indomani della dissoluzione sovietica dall’allora presidente americano George Bush senior, è stato da subito caratterizzato da continue guerre e dalla ricerca di nuovi “imperi del male” (come il suo predecessore Ronald Reagan indicò nel 1983 l’Unione Sovietica): Iraq, Libia, Afghanistan, Al Qaeda, la Cina, la Russia, la Corea del Nord ecc.

L’URSS fu il primo esperimento nella storia dell’umanità di costruzione di una società socialista, di una società di transizione verso il comunismo, dunque il primo esperimento della pianificazione dell’economia in senso socialista, superando la catastrofica bulimia di profitto del capitale e il suo carattere anarchico, che ha prodotto crisi, impoverimento, sfruttamento coloniale e due guerre mondiali.

Un aspetto che spesso si tende a “dimenticare” è il fatto che l’Unione Sovietica fu uno dei due attori principali della storia mondiale, almeno della seconda metà del Novecento, intorno al quale si riunì un insieme di paesi da essa guidati. Questo costitutiva il blocco dei paesi socialisti, col quale parlavano, in una posizione non prevenuta, i paesi non allineati del Terzo mondo, che guidavano il processo di decolonizzazione e di sviluppo alternativo a quello del capitalismo.

La storia dell’URSS non può essere letta al di fuori del suo continuo confronto con l’altra da sé, che il “mondo occidentale” guidato dagli USA. La dinamica del “secolo breve”, soprattutto nella seconda parte, non può essere letta al di fuori di questo confronto-scontro tra due opzioni di sviluppo dell’umanità (basta rievocare la vicenda afghana dell’ultimo mezzo secolo per capirlo).

L’Unione Sovietica fu collettivizzazione e pianificazione, ma fu anche decolonizzazione; fu uguaglianza razziale e avanzamento nell’uguaglianza di genere; fu avanzamento della laicità; fu avanzamento dello sviluppo scientifico in senso sociale (di cui, ancora oggi, Cuba è un esempio); fu avanzamento nell’istruzione, nello sport e anche nelle arti (in particolare quella cinematografica, nel balletto e nella musica); fu avanzamento dello sviluppo della persona e delle sue potenzialità; fu avanzamento di uno spirito di servizio pubblico al di là di ogni ritorno personale; fu avanzamento di uno spirito di convivenza comunitario e solidaristico.

Fu anche tutto questo. Ma è proprio “tutto questo” che si cerca di demolire.

Finita la commemorazione reazionaria della fine dell’URSS, Accademia Rebelde rilancia e intende ricordare l’Unione Sovietica a 100 anni dalla sua fondazione, non solo per proteggere “le nostre verità”, ma anche per restituire un pezzo di storia (e gloria) del movimento comunista a quelle giovani generazioni che subiscono il continuo furto della storia, oltre che della memoria.

Se il perpetuarsi della memoria è un’opera di partigianeria e serve a costituire un’identità, la conoscenza storica invece è un’operazione di demistificazione e di critica del presente, che continua ad essere presentato come “il migliore dei mondi possibili”, nonostante tutti i suoi disastri sociali, ambientali e umanitari.

Cosa fu l’Unione Sovietica nella concreta costruzione del socialismo? Come modificò la storia mondiale del Novecento? In che modo contribuì a quello che una volta si chiamava progresso dell’umanità? Quale fu il contributo dato allo sviluppo culturale e scientifico? Quali furono le tappe della sua complessa e tutt’altro che lineare storia?

Proveremo a fornire elementi di risposte a queste domande con un ciclo di quattro incontri dedicati ai 70 anni della storia sovietica (che è anche storia mondiale), e con un cineforum che ci introduce in maniera differente dalla la vulgata corrente al mondo al tempo dell’Unione sovietica.

Gli incontri previsti avranno la seguente scansione temporale:

4 febbraio: Dalla vittoria della guerra civile alla NEP;

4 marzo: Dal socialismo in un solo paese alla vittoria contro il nazifascismo;

1 aprile: Il XX Congresso del PCUS, la coesistenza pacifica e la conquista dello spazio;

6 maggio: Dalla competizione con il sistema capitalista alla dissoluzione.

I film che proietteremo sono:

18 febbraio: I dieci giorni che sconvolsero il mondo (1982) del regista sovietico Sergej Bondarčuk, tratto dall’omonimo libro del giornalista statunitense John Reed (nel film interpretato da Franco Nero) e che ci racconta i primi e concitati momenti della prima rivoluzione comunista nella storia;

18 marzo: Va’ e vedi (1985), del regista sovietico Ėlem Germanovič Klimov, che racconta con crudo realismo la seconda guerra mondiale vista dagli occhi di un bambino bielorusso;

8 aprile: Amlet (1964) del regista sovietico Grigori Kozintsev, con il quale intendiamo offrire uno dei momenti più alti della cinematografia sovietica, che andrebbe rivalutata, se non continuassimo ad avere un immaginario colonizzato dai prodotti di marca statunitense;

13 maggio: Goodbye Lenin, del regista tedesco Wolfgang Becker, pur nella sua ambivalente visione del mondo della DDR, restituisce in frammenti un’immagine di una socialità differente.

Gli incontri e le proiezioni si terranno alla Casa della Pace, in via di Monte Testaccio 22 Roma.

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