Con il classico ritardo dell’editoria italiana è finalmente disponibile l’importante libro del sociologo ed economista tedesco Wolfang Streeck «Come finirà il capitalismo?» (Meltemi: pagine 332, euro 22) che contiene una decina di saggi pubblicati fra il 2011 e il 2015, unitamente a una corposa e illuminante introduzione.
Il titolo del libro non deve trarre in inganno il lettore: non c’è alcun sole dell’avvenire all’orizzonte, e per di più Streeck non risparmia considerazioni pungenti sulla caduta dell’azione collettiva e degli scioperi sindacali, oltre alla perdita di autorevolezza dei partiti.
Pur auspicando sulla scorta della lezione del sociologo austriaco Karl Polany la discesa in campo di quei contro-movimenti in grado di contrastare la progressiva mercificazione della natura, della moneta e del lavoro.
Un conto, però, sono le aspettative, e altro conto la realtà concreta: anche quanti avevano riposto una certa speranza nella cosiddetta “V Internazionale” di Porto Alegre del 2001 devono purtroppo constatare l’affievolirsi della prospettiva altermondialista, a fronte di un vistoso sfondamento a destra dell’asse politico mondiale (Europa compresa ).
Le riflessioni di Streeck hanno l’ambizione di contribuire alla definizione di una rinnovata “teoria critica” per demistificare la presunta razionalità ed efficienza dei mercati e sono successive al collasso finanziario del 2008, causato dalla sovraccumulazione dei capitali e dall’esplosione dell’indebitamento privato delle famiglie. Un collasso tutt’altro che imprevisto, se è vero che con il declino della crescita post-bellica nei Paesi occidentali negli anni Settanta si è verificato il fenomeno dell’inflazione globale, e negli gli anni Ottanta quello della crescita esponenziale dell’indebitamento pubblico. Con l’abbandono poi del keynesismo e l’adozione del modello di crescita “hayekiano” – stante l’adesione dell’ex sinistra con la “terza via” a una visione acritica della globalizzazione – abbiamo assistito a un sostanziale indebolimento del potere del mondo del lavoro e a politiche redistributive sempre più favorevoli ai grandi detentori di capitali.
Al contempo il manifesto declino nel senso comune della società del concetto di tassabilità, per via della resistenza fiscale delle classi medie e della scelta dei grandi capitali di volatilizzarsi nei paradisi fiscali, ha provocato con il calo delle entrate la ben nota “crisi fiscale” degli Stati.
Cosicchè gli Stati per consolidare i loro bilanci hanno preferito tagliare le spese in materia di welfare, erodendo progressivamente i diritti di cittadinanza, facilitati in ciò dal ricorso a quel keynesismo privatizzato accreditato sulla base della vulgata del cittadino inteso come cliente e consumatore.
Sono questi i processi per Streeck che hanno sancito l’affermazione della svolta neoliberale. Una svolta che ha poi trovato la sua istituzionalizzazione nell’architettura che governa l’Unione Europea ove – attraverso il Consiglio europeo, la Commissione europea, la Corte di giustizia europea, la Banca Centrale Europea – «la diplomazia prende il posto della lotta di classe e la cooperazione internazionale ha precedenza sulla giustizia sociale».
Senonchè, al di là delle enunciazioni quotidiane delle tecnocrazie, le politiche dell’austerità e della flessibilizzazione dei rapporti di lavoro hanno contribuito ad accrescere le diseguaglianze economiche e il discredito dell’Unione Europea, stante la polarizzazione nella società fra una buona parte della popolazione impoverita di “perdenti” e una piccola èlite di super ricchi decisamente avidi.
Nel mezzo a questi due poli si collocano le famiglie di una classe media sempre più rancorosa, anche in ragione dell’intensità della prestazione lavorativa imposta dalla frenesia della competizione economica.
Su scala globale, a fronte dei nuovi scenari sul piano della divisione internazionale del lavoro fra Occidente e resto del mondo, è stato un economista del calibro di Larry Summers a prevedere una «stagnazione secolare» del capitalismo.
Pertanto, caduta l’immagine progressiva e rassicurante di questa formazione sociale, Streeck nel segnalare l’urgenza di proteggere i beni comuni globali piuttosto che gli squilibri dei mercati sottolinea la necessità di approfondire i cinque disturbi sistemici che affliggono il capitalismo: stagnazione economica; redistribuzione oligarchica; saccheggio del dominio pubblico; corruzione; anarchia globale dei mercati.
Un piano di lavoro senz’altro interessante e condivisibile, se consideriamo la tremenda concomitanza della terza guerra mondiale «a pezzi», della sindemia globale e dei distruttivi cambiamenti climatici.
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