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Adieu au langage, adieu Godard

Ospitiamo qui una riflessione – che ha anche valore di ricordo – sul cinema di Jean-Luc Godard, scritta dal professor Mario Franco.

Film maker e storico del cinema, ex docente per la cattedra di “Teoria e metodo dei mass-media” e del corso di “Storia del cinema”, presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, Mario Franco ha inoltre tenuto lezioni di “Tecniche dei linguaggi multimediali” presso la Facoltà di Architettura della Seconda Università di Napoli.

Ha fondato e diretto, nel 1969,il cinema “NO”, prima sala “d’essai” a Napoli, e dal 1972 al 1981, la “Cineteca Altro”.

Ha collaborato con Lucio Amelio, esponendo nella sua galleria dal 1970 (“Autoritratto”) al 1993 (“Trismegisto”) e lavorando con artisti come Andy Warhol (“Andy Warhol eats”, 1976) e Joseph Beuys, del quale ha documentato le opere realizzate a Napoli, da “La rivoluzione siamo noi” (1971) fino a “Palazzo Regale” (1986).

Ha documentato le mostre di Peppe Morra (Allan Kaprow, Hermann Nitsch) ed attualmente collabora alla sezione multimediale del Museo dedicato all’artista austriaco.

Ha partecipato a mostre internazionali (Biennale di Parigi 1972, Avantgarde Film Festival London, Art 10 Basel, Festival dei Popoli Firenze, Centre Pompidou Paris).

Nel 1983 con il lungometraggio Metropoli (ispirato a un racconto di Philip K. Dick) ha partecipato alla XL Mostra del Cinemka di Venezia.

Nel 1997 ha realizzato “Beuys: Diagramma Terremoto”, mettendo su pellicola l’opera omonima di Joseph Beuys, edita in edizione numerata con saggi di Achille Bonito Oliva, Eduardo Cicelyn e Michele Buonuomo, e l’ultima intervista a Joseph Beuys.

Come autore o come regista, in RAI, ha lavorato con Renzo Arbore, Alberto Lupo, Irene Papas, Mario Martone, Roberto Murolo

Ha curato mostre monografiche per gli artisti Mario Persico, Guido Tatafiore, Paolo Ricci, Lello Masucci, Ernesto Tatafiore, Christian Leperino, Sergio Fermariello, Bruno Di Bello.

Ha pubblicato libri, articoli e saggi sul cinema “d’arte” e sul cinema “popolare”.

Ha lavorato per Paese Sera dal 1974 al 1983. Attualmente collabora all’inserto napoletano del quotidiano La Repubblica.

Buona lettura!

*****

Adieu au langage, adieu Godard

L’ultimo film di Godard che ho visto (e fatto vedere ai quattro spettatori che, a Napoli, ogni tanto frequentano le sporadiche proiezioni a Casa Morra ) è Adieu au langage, un film del 2014.

Non uno degli ultimi, ma importante perché si teorizza, con estrema lucidità, cosa significa abbandonare il linguaggio comune – e non solo del cinema – in direzione di un’esperienza etico-estetica e sensoriale, dove ogni interpretazione è consentita.

Girato in 3d, il film è un unbidentified narrative object, lontano da qualsiasi illustrazione lineare.

Godard filma immagini e suoni intorno a una coppia – interrotta e inframezzata da idee politiche, artistiche e filosofiche – attraverso una somma di numerosissimi frammenti letterari, cinematografici, pittorici, giornalistici e televisivi.

Un caos che gioca sulla valenza polisemica dei significati possibili. E in cui le immagini subiscono forzature digitali con colori incontrollati, eccessivi, innaturali.

Potremmo dire, a tal proposito – come affermava Adorno – che «La produttività artistica è la facoltà dell’arbitrio nell’involontario» tra linguaggi espressivi che avviano una ricreazione ipertestuale di rimandi reciproci e incroci; e in una libertà assoluta che vede interagire lo sguardo e la mente.

L’artista Godard ingaggia un gioco irrealistico con la realtà, trasformata in specchio dell’illusione che richiama il surrealismo: «l’ultima istantanea dell’intelligenza europea», secondo Walter Benjamin.

Potrei ovviamente divertirmi con le citazioni, parlando di un film che di citazioni ne contiene centinaia.

Sono allora corso a riguardare i DVD della sua Histoire(s) du cinema, dove la cronologia arbitraria e le manipolazioni delle immagini sono funzionali all’idea che «solo il cinema può fare questo».

Eppure, mentre mi godevo il senso di un film che affermava la sua indipendenza dalla letteratura e dalla schiavitù della sceneggiatura (soggetto, svolgimento, finale) mi ha colpito il ticchettio ossessivo di una macchina da scrivere analogica, che contrastava con l’impianto digitale di tutta la Histoire(s).

Nostalgia di un novecentesco passato e di una fede incrollabile nella forza politica dell’immagine?

Godard, che ha ingaggiato una sfida ontologica, mettendo in crisi il concetto stesso d’immagine cinematografica contro l’illusionismo della realtà filmica ma, favorevole alle nuove potenzialità del digitale, sembra non accontentarsi delle sue ultime schegge cinematografiche, prive di un filo conduttore, di una consequenzialità.

Problematico come ogni vero artista, alla ricerca di una impossibile sintesi tra il pensiero e la sua rappresentazione, l’ultimo Godard rende tangibile come la politica abbia invaso il privato.

La disintegrazione sociale, sia in termini di strutture comunitarie e condizioni di vita, sia in termini di ripercussione sulla coscienza dei singoli, assurge, nelle immagini di Godard, a una valenza universale, in grado di dare rappresentazione all’identità contemporanea nella sua ambigua realtà di inclusione ed esclusione, progresso ed emarginazione, identità e sradicamento.

Infine, le ultime immagini che ci ha lasciato riflettono il carattere contingente della vita. Le sue complicazioni, i suoi conflitti, i suoi imprevisti.

Il suo testamento cinematografico nasce dunque da un sentimento di libertà, che intreccia l’arte con la vita e con la morte.

Un sentimento di libertà che non si concede alla rassegnazione, ma si mette in contatto col lato tragico della nostra stessa esistenza.

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1 Commento


  • Gianni Sartori

    SOLO RAPPORTI OCCASIONALI E FORSE QUALCHE INSIGNIFICANTE “CONTAMINAZIONE” TRA ALPINISMO E ’68
    (nonostante qualche pietoso tentativo fuori tempo massimo)

    Gianni Sartori

    Sul numero “autunno-inverno 2018- 2019” di Le Alpi Venete, ritrovato casualmente in un bar di Lumignano (località naturalisticamente unica, ma trasformata in parco-giochi per FC e affini) ho letto – con molto ritardo – un articolo dal titolo pretenzioso: “1968 – Rinascimento alpinistico”.

    Un inciso. Quando sento – ancora ! – evocare amenità su “nuovi mattini”, spacciati per l’equivalente in ambito alpinistico del Sessantotto, mi girano un po’ i coglioni. Non solo per l’appropriazione indebita da parte di piccolo e medio borghesi delle lotte di quei tempi, ma anche per ragioni personali. Ossia per il ricordo personale di ben altre centinaia di nuovi mattini vissuti all’epoca dal sottoscritto.

    Quindi, in condizioni normali, avrei lasciato perdere. Ma nella prima foto (un corteo di donne, femministe), prima ancora di aver letto la didascalia, ho riconosciuto Tiziana Weiss. Avendola incrociata in qualche occasione (e purtroppo anche in parete quel tragico luglio 1978 quando perse la vita sulla Pala del Rifugio) direi che l’immagine risale alla metà degli anni settanta, se non addirittura al ’77. E comunque sia le scritte sugli striscioni, sia l’abbigliamento dei manifestanti non sono certo da Sessantotto, ma successivi. Innanzitutto ho pensato che Tiziana Weiss, già grande di suo, non aveva bisogno di essere riesumata per sostenere tesi discutibili e quindi me lo son letto (l’articolo nonso gli slogan) con calma. Andiamo con ordine.

    Intanto il “Sessantotto”. A mio avviso troppo spesso viene interpretato come fenomeno di costume, più che altro giovanile e studentesco quando invece aveva forti connotazioni proletarie. Per esempio, nel caso italiano, in genere si evoca Valle Giulia dove la componente maggioritaria era appunto studentesca e – almeno in parte – di estrazione piccolo e medio borghese (c’erano anche i fascisti!).*

    Si ricorda invece meno (solo per fare un esempio e visto che, anche se per caso, lì c’ero) la grande, furiosa rivolta degli operai della Marzotto a Valdagno del 19 aprile 1968.

    O gli scontri tra polizia e operai del Petrolchimico di Marghera del 1 agosto 1968.

    O magari i fatti di Avola (dicembre 1968, avevo anche distribuito il volantino di protesta per l’eccidio) e Battipaglia (aprile 1969). O anche – si parva licet – i fatti di Arzignano della fine del 1968 con la visita, non propriamente di cortesia, al Consiglio comunale (ma questa l’ho già raccontata, mi pare).

    Ugualmente si celebra il mitico “Maggio” francese (in realtà iniziato in marzo e durato almeno fino a giugno) come rivolta studentesca (vedi Nanterre) mentre si ignora l’occupazione di centinaia di fabbriche e la catena di scioperi generali che – molto più della barricate al Quartiere Latino o le tette di qualche improbabile Marianne in corteo – impensierirono (eufemismo) i ceti dominanti dell’Esagono e non solo.

    Per non parlare della strage di piazza delle Tre Culture (Città del Messico), della morte del Che (ottobre 1967), del Vietnam, di Praga etc…

    In questo aveva ragione lo speleologo torinese Andrea Gobetti, il nipote di Piero. Di estrazione borghese, ma comunque il più rispettabile tra quanti sono riconducibili al “Nuovo Mattino”. Militante di Lotta continua, venne arrestato e incarcerato per le manifestazioni antifasciste dell’aprile 1975 (vedi l’assassinio di Varalli, Zibecchi, Boschi e Miccichè, quest’ultimo amico di Andrea) che infiammarono l’Italia da Torino a Milano, Firenze…e nel suo piccolo anche Vicenza.

    A suo parere il “Nuovo mattino” con il 68 non c’entrava una beata mazza (semplifico, ovviamente). Magari derivava da Woodstock e roba del genere (o forse, pensando a certe partecipazioni di allora, dal Cantagiro?). Ispirato dai Rolling Stones, Mary Quant e da Easy Rider, piuttosto che da “Lettera a una professoressa” o dal messaggio alla Tricontinentale di Ernesto Che Guevara.

    Si fossero limitati ad arrampicare, poteva anche andare. Invece pretesero di avere qualcosa da dire, si inventarono e rappresentarono come “ribelli”. Ma di plastica.

    Qualche esempio riportato dall’articolo in questione: il casco lasciato a bella posta in auto per far vedere che arrampicavano senza (ma l’alternativa vera, non “spettacolare”, era quella di andare in montagna con la corriera…). O il preteso uso “sovversivo” dello zaino a scuola quando, caso mai, nell’immaginario – e non solo – dell’epoca era il tascapane (provate voi a usare lo zaino per le molotov…mi spiegano gli esperti). Insomma, una parodia – autoconsolatoria – della rivolta a cui non presero parte. Non seriamente almeno.

    E’ fuori discussione che la maggior parte dei personaggi passati alla storia come esponenti, seguaci o interpreti di tale tendenza – a cominciare dal Piero Motti buonanima – era di estrazione alta o medio borghese (o almeno quelli che hanno ritenuto di deliziarci con le loro elucubrazioni in merito). Dei “pierini” per dirla con don Milani. Studenti nullafacenti, scanzonati, con tanto tempo libero, i soldi per l’attrezzatura e anche l’auto che all’epoca era comunque un lusso. Si parla degli anni tra la fine dei sessanta e l’inizio dei settanta, quando murari e operai andavano a lavorare ancora in corriera (o con la littorina) e in bicicletta, al massimo col motorino.

    Così andava – se non ricordo male – per la maggioranza dei lavoranti subalterni: operai generici, manovali, quelli della “logistica” (allora ci chiamavamo semplicemente “facchini”).

    Mentre in auto, oltre agli impiegati, si vedeva arrivare ai cancelli solo – e forse – qualche esponente delle “aristocrazie operaie” o qualche sindacalista.

    Ben altri, dicevo, i miei “nuovi mattini”. Centinaia e centinaia di levatacce quando era ancora buio, magari in inverno per arrivare, pedalando per una ventina di chilometri, verso Alte Ceccato dove scaricare camionate di sbarre in piombo (mediamente sessanta chili l’una) o batterie da auto (rispettivamente alla Veneta-piombo e FIAMM). Oppure – se andava di lusso – in qualche deposito della zona industriale vicentina dove ugualmente scaricare (ma anche stivare) camion su camion. Altre volte i “mattini” erano quelli albeggianti, quando staccavo dal turno di notte alla Domenichelli. Insomma, una goduria. Nel frattempo cercando magari di preparare qualche esame all’Università. Rileggendo un famoso libro di neo-alpinismo (di ricerca; forse interiore ?) degli anni settanta ho scoperto di aver in comune con l’autore il repentino cambio di facoltà. Nel suo caso, par di capire, per noia. Nel mio perché non riuscivo più a frequentare i laboratori pomeridiani – obbligatori – di Geologia (a Padova) per poi rientrare a Vicenza e affrettarmi (direttamente dalla stazione, a piedi) alla Domenichelli.

    Al punto che verso le due o le tre del mattino cominciai regolarmente ad appisolarmi, addirittura a dormire in piedi per qualche minuto appoggiato al carrello.

    E senza nemmeno poter invocare l’intervento di un elicottero del Soccorso alpino per liberarmi dalla difficile situazione!

    Dico questo perché, sempre rileggendo tale libro, ho ripescato quello che forse rappresenta una svolta (un primato?) nel soccorso alpinistico.

    Il primo – che io sappia – caso di salvataggio in parete con elicottero senza che nessuno dei richiedenti fosse rimasto non dico ferito o congelato, ma almeno contuso o raffreddato. Oggi come oggi è diventato di ordinaria amministrazione, ma all’epoca suscitò un certo dibattito su Etica, Alpinismo e altre amenità.

    Con il senno di poi, penso che dopo essere stati recuperati in tali frangenti i cinque soggetti avrebbero dovuto riconoscere la loro inadeguatezza nel valutare le difficoltà (e i propri limiti) e darsi ad altre attività più congeniali.

    Gianni Sartori

    Parte Prima (continua…)

    * nota 1: Fermo restando che molti dei compagni di allora erano studenti-lavoratori. Per dirne un paio, Saverio Saltarelli e Franco Serantini, ammazzati dalla polizia rispettivamente nel 1970 e 1972.

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