Michele Giorgio
INVIATO A GAZA CITY
Lo spirito di Vittorio Arrigoni domenica aleggiava non solo su Gaza, che lo ha ricordato con grande affetto e con la voglia di portare avanti il suo impegno, ma anche sull’aeroporto «Ben Gurion» di Tel Aviv dove oltre 600 agenti di polizia e dei servizi di sicurezza hanno bloccato, detenuto e rispedito a casa persone che avevano proclamato con sincerità soltanto di voler andare in Palestina, a Betlemme. E in manette sono finiti pure una decina di attivisti israeliani, rei di aver issato cartelli con la scritta «Benvenuti in Palestina», il titolo dell’iniziativa internazionale volta a dimostrare – missione riuscita visto quanto è successo – che i movimenti da e per i Territori occupati palestinesi sono fortemente limitati da Israele anche quando si tratta di cittadini stranieri. Nella Cisgiordania occupata i 1.500 attivisti in fondo potevano andarci tacendo sulla loro destinazione finale, oppure mentendo, magari sostenendo di voler trascorrere qualche giorno a Gerusalemme. E invece hanno dichiarato con sincerità di voler andare a Betlemme, in Palestina. È un reato avere amici palestinesi e dichiararlo apertamente? Per le autorità israeliane comunque è una colpa punibile con l’espulsione.
Il governo israeliano, con la piena collaborazione di una ventina di compagnie aeree (l’Alitalia ha prontamente risposto «Obbedisco») e dei servizi di sicurezza di vari Stati (inclusa quelli della Turchia del premier Erdogan che proclama ad ogni occasione il suo commosso sostegno ai diritti dei palestinesi), è riuscito a far cancellare i voli di centinaia di attivisti e a trasformare il check-in negli aeroporti europei in posti di blocco simili a quelli che tormentano l’esistenza dei palestinesi della Cisgiordania. A farne le spese sono state anche persone che non avevano alcun legame con «Benvenuti in Palestina». Secondo il quotidiano Haaretz il 40% degli internazionali i cui nomi erano nelle «liste nere» fatte arrivare in Europa dallo Shin Bet (il servizio di sicurezza israeliano) non erano affatto attivisti (470 sui 1200 a cui è stato negato l’imbarco). Tra loro un diplomatico francese e sua moglie, un impiegato del ministero italiano delle comunicazioni che ha dovuto rinunciare ad un incontro di lavoro in Israele e un membro del cda della casa farmaceutica tedesca Merck, parte di una delegazione diretta all’israeliano Weizmann Institute of Science. Magari dopo questa «piacevole» esperienza avranno capito qualcosa in più del Medio oriente. Secondo Sabine Haddad, portavoce del ministero dell’interno israeliano, al «Ben Gurion» sono stati arrestati 79 cittadini stranieri (non potranno entrare in Israele per almeno cinque anni) e tra questi 21 ieri mattina già viaggiavano in direzione degli aeroporti di partenza. Altri 58 invece si sono rifiutati di essere rimpatriati: due sono stati rinchiusi nelle celle dello scalo aereo, 56 (tra i quali pare due italiani) in una prigione non lontana da Tel Aviv. Con ogni probabilità quella di Ramle.
Vittorio Arrigoni la prigione di Ramle la conosceva bene, per averla «visitata» nel novembre 2008 quando fu espulso da Israele con l’accusa di essere entrato illegalmente nel paese dove, però, non era mai transitato. La Marina militare israeliana lo aveva arrestato assieme ad altri due attivisti internazionali (uno scozzese e una statunitense) e 16 pescatori palestinesi nelle acque di Gaza, dove era arrivato tre mesi prima a bordo delle navi pacifiste del Free Gaza Movement. Un’esperienza che Vik raccontò sulle pagine del manifesto il successivo 29 novembre («Io catturato a Gaza»). «Sono stato sei giorni nelle prigioni israeliane – scrisse in quella occasione – celle anguste e luride, popolate da insetti e parassiti che hanno banchettato allegramente sulla mia epidermide. Ma vengo da Gaza, a essere incarcerato in fin dei conti ci ero abituato. Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Tutte le industrie hanno dovuto chiudere, più dell’ 80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, a Gaza si registra il più alto tasso di disoccupazione del pianeta, non c’è corrente elettrica, né carburante. Gli ospedali necessitano di medicinali, la stragrande parte della popolazione di viveri e beni di prima necessita». I soldati israeliani – aggiunse – «mi hanno prelevato da una prigione a cielo aperto solo per condurmi in una delle loro prigioni più piccole, dove quantomeno, a differenza di Gaza, servivano puntualmente un rancio e c’era per quasi tutto il giorno energia elettrica e acqua potabile».
Domenica un pugno di attivisti è riuscito a passare tra le strette maglie dei controlli al «Ben Gurion» e a raggiungere il centro stampa di «Benvenuti in Palestina» al Peace Center di Betlemme. Sono arrivati alla spicciolata due spagnoli, una canadese, tre francesi e due italiani. «Quando hanno chiesto dove fossimo diretti, non ho capito bene e sono finito con un gruppo di turisti – ha raccontato un giovane francese – ho pensato di dire che facevo parte della campagna più tardi, quando me lo avessero chiesto di nuovo. Ma non lo hanno fatto e mi sono ritrovato fuori dall’aeroporto con il visto di ingresso nel passaporto».
Ed è scontro in Israele sul video-choc di Gerico, girato di nascosto al culmine di un «confronto» tra una pattuglia militare e attivisti dell’International Solidarity Movement impegnati sabato in un «giro» ciclistico di solidarietà con la causa palestinese nella Valle del Giordano. Tutto è degenerato in violenza brutale da parte del tenente colonnello Shalom Eisner (probabilmente non solo militare ma anche colono), ripreso nell’atto di colpire al volto il danese Anders Las con il calcio del suo M-16. L’episodio è stato deplorato dal presidente Shimon Peres e perfino dal premier Netanyahu. Eisner – elogiato invece dall’estrema destra – si è difeso denunciando «provocazioni e una bastonata sulle dita», ma la sua giustificazione non ha convinto neanche gli alti comandi militari: che hanno definito «molto grave» l’accaduto, ordinando un’inchiesta e sospendendo dal servizio l’ufficiale-picchiatore.
Il governo israeliano, con la piena collaborazione di una ventina di compagnie aeree (l’Alitalia ha prontamente risposto «Obbedisco») e dei servizi di sicurezza di vari Stati (inclusa quelli della Turchia del premier Erdogan che proclama ad ogni occasione il suo commosso sostegno ai diritti dei palestinesi), è riuscito a far cancellare i voli di centinaia di attivisti e a trasformare il check-in negli aeroporti europei in posti di blocco simili a quelli che tormentano l’esistenza dei palestinesi della Cisgiordania. A farne le spese sono state anche persone che non avevano alcun legame con «Benvenuti in Palestina». Secondo il quotidiano Haaretz il 40% degli internazionali i cui nomi erano nelle «liste nere» fatte arrivare in Europa dallo Shin Bet (il servizio di sicurezza israeliano) non erano affatto attivisti (470 sui 1200 a cui è stato negato l’imbarco). Tra loro un diplomatico francese e sua moglie, un impiegato del ministero italiano delle comunicazioni che ha dovuto rinunciare ad un incontro di lavoro in Israele e un membro del cda della casa farmaceutica tedesca Merck, parte di una delegazione diretta all’israeliano Weizmann Institute of Science. Magari dopo questa «piacevole» esperienza avranno capito qualcosa in più del Medio oriente. Secondo Sabine Haddad, portavoce del ministero dell’interno israeliano, al «Ben Gurion» sono stati arrestati 79 cittadini stranieri (non potranno entrare in Israele per almeno cinque anni) e tra questi 21 ieri mattina già viaggiavano in direzione degli aeroporti di partenza. Altri 58 invece si sono rifiutati di essere rimpatriati: due sono stati rinchiusi nelle celle dello scalo aereo, 56 (tra i quali pare due italiani) in una prigione non lontana da Tel Aviv. Con ogni probabilità quella di Ramle.
Vittorio Arrigoni la prigione di Ramle la conosceva bene, per averla «visitata» nel novembre 2008 quando fu espulso da Israele con l’accusa di essere entrato illegalmente nel paese dove, però, non era mai transitato. La Marina militare israeliana lo aveva arrestato assieme ad altri due attivisti internazionali (uno scozzese e una statunitense) e 16 pescatori palestinesi nelle acque di Gaza, dove era arrivato tre mesi prima a bordo delle navi pacifiste del Free Gaza Movement. Un’esperienza che Vik raccontò sulle pagine del manifesto il successivo 29 novembre («Io catturato a Gaza»). «Sono stato sei giorni nelle prigioni israeliane – scrisse in quella occasione – celle anguste e luride, popolate da insetti e parassiti che hanno banchettato allegramente sulla mia epidermide. Ma vengo da Gaza, a essere incarcerato in fin dei conti ci ero abituato. Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Tutte le industrie hanno dovuto chiudere, più dell’ 80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, a Gaza si registra il più alto tasso di disoccupazione del pianeta, non c’è corrente elettrica, né carburante. Gli ospedali necessitano di medicinali, la stragrande parte della popolazione di viveri e beni di prima necessita». I soldati israeliani – aggiunse – «mi hanno prelevato da una prigione a cielo aperto solo per condurmi in una delle loro prigioni più piccole, dove quantomeno, a differenza di Gaza, servivano puntualmente un rancio e c’era per quasi tutto il giorno energia elettrica e acqua potabile».
Domenica un pugno di attivisti è riuscito a passare tra le strette maglie dei controlli al «Ben Gurion» e a raggiungere il centro stampa di «Benvenuti in Palestina» al Peace Center di Betlemme. Sono arrivati alla spicciolata due spagnoli, una canadese, tre francesi e due italiani. «Quando hanno chiesto dove fossimo diretti, non ho capito bene e sono finito con un gruppo di turisti – ha raccontato un giovane francese – ho pensato di dire che facevo parte della campagna più tardi, quando me lo avessero chiesto di nuovo. Ma non lo hanno fatto e mi sono ritrovato fuori dall’aeroporto con il visto di ingresso nel passaporto».
Ed è scontro in Israele sul video-choc di Gerico, girato di nascosto al culmine di un «confronto» tra una pattuglia militare e attivisti dell’International Solidarity Movement impegnati sabato in un «giro» ciclistico di solidarietà con la causa palestinese nella Valle del Giordano. Tutto è degenerato in violenza brutale da parte del tenente colonnello Shalom Eisner (probabilmente non solo militare ma anche colono), ripreso nell’atto di colpire al volto il danese Anders Las con il calcio del suo M-16. L’episodio è stato deplorato dal presidente Shimon Peres e perfino dal premier Netanyahu. Eisner – elogiato invece dall’estrema destra – si è difeso denunciando «provocazioni e una bastonata sulle dita», ma la sua giustificazione non ha convinto neanche gli alti comandi militari: che hanno definito «molto grave» l’accaduto, ordinando un’inchiesta e sospendendo dal servizio l’ufficiale-picchiatore.
da “il manifesto”
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