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La Bosnia si ribella ai diktat del mercato

I media – e anche qualche sito di ‘movimento’ – l’hanno già ribattezzata la ‘primavera bosniaca’ o addirittura balcanica. La voglia di etichettare i fenomeni è sempre impellente, con il rischio di far sembrare uguali eventi e processi assai diversi.

La primavera è ancora lontana, e a Sarajevo, Tuzla e Banja Luka fa ancora un freddo cane. La verità è che ciò che sta succedendo in quella terra martoriata da decenni di guerra civile, pulizia etnica e massacro sociale neoliberista è ancora difficile spiegarlo e inquadrarlo come fenomeno politico, coerente.

Ciò che sappiamo è che dopo anni di pace sociale e dittatura incontrastata del mercato in quel paese frazionato al suo interno da ripartizioni etnico-religiose si sta sviluppando una ribellione sociale esplosiva e rabbiosa. E’ duro svegliarsi da un lungo incubo e accorgersi che quelli che ti hanno mandato al massacro in nome dell’ingresso nel club dell’Europa ti hanno trattato esattamente come l’Impero Britannico trattava gli indiani due secoli fa…

Dei motivi, molto pratici e concreti, ne abbiamo già parlato: migliaia di lavoratori di Tuzla, che una volta era un polo industriale di notevoli dimensioni, si sono ritrovati senza lavoro a causa della vera e propria truffa organizzata da alcuni imprese – per lo più straniere, tedesche e non solo – che si sono impossessate di alcune importanti aziende locali che il diktat delle privatizzazioni proveniente dall’Ue aveva messo a disposizione. Queste imprese sono state distrutte, mandate in bancarotta, e i capitali sono spariti. Così da un anno migliaia di ex operai – buona parte della popolazione della città – si ritrovano senza stipendio e senza assicurazione sanitaria, e senza neanche la prospettiva di una per quanto misera pensione, visto che negli ultimi 14 anni le imprese in questione non hanno versato uno straccio di contributo previdenziale. E’ ovvio che di fronte all’inettitudine del governo e delle giunte locali, che da mesi continuano a fare promesse che non vogliono e possono mantenere, sia esplosa la rabbia dei disoccupati e delle loro famiglie.
Che hanno letteralmente preso d’assalto le sedi istituzionali, appiccando il fuoco agli uffici dei politici corrotti e inetti e scontrandosi con la polizia che provava a ‘riportare l’ordine’. Il fatto è che la rivolta scoppiata a Tuzla si è estesa a molte delle città della Bosnia Erzegovina, compresa la capitale Sarajevo, e compresa quella Repubblica Serba di Bosnia di fatto indipendente che però evidentemente soffre degli stessi mali dei cugini croati e musulmani: disoccupazione, povertà, desertificazione economica, corruzione, crollo della qualità della vita rispetto ai decenni scorsi. Dicono le statistiche che la situazione economica non ha raggiunto ancora neanche il livello che aveva prima della guerra fratricida del 1992-1995, quella fomentata dal Vaticano e dalla Germania e poi condotta dalla Nato a fianco dell’esercito croato e delle milizie musulmane. La disoccupazione reale è addirittura al 46%, e nel solo cantone di Tuzla ci sono più di centomila disoccupati.
Abbiamo visto in questi giorni scendere in piazza decine di migliaia di persone. I manifestanti non si sono fatti intimorire dai cordoni di polizia che hanno spesso messo in fuga, e le sedi dei governi locali sono state incendiate a Tuzla, a Sarajevo, a Zenica e a Mostar; nella capitale è stato addirittura attaccato e dato alle fiamme il grande edificio che ospita la presidenza federale.

In prima fila gli operai delle fabbriche mandate al macello da manager e consiglieri stranieri senza scrupoli, ma anche pensionati, studenti, reduci delle guerre balcaniche, commercianti. Molto attive anche le tifoserie delle locali squadre di calcio che sembrano supplire, qui e altrove, al ruolo che dovrebbero avere forze sociali organizzate spesso assenti.

Molti di questi dimostranti, è bene dirlo, hanno probabilmente dato sfogo a una rabbia, a una frustrazione assai poco ‘politica’ e razionale. Ma che la rivolta prenda di mira le privatizzazioni, denunci la disoccupazione e in alcuni casi accusi la classe politica di essersi fatta gli affari propri a spese del popolo in nome della partizione etnico-religiosa è un processo in controtendenza con quanto sta avvenendo in generale nei Balcani e nell’Europa orientale. Abbiamo addirittura visto, nelle manifestazioni, sventolare bandiere rosse o jugoslave, innalzare ritratti del Maresciallo Tito o affiancare le bandiere dei cantoni musulmani, serbi e croati. E i gruppi che coordinano le proteste, anche se spesso parlano di ‘casta’ e invocano un generico ‘tutti a casa’, chiedono innanzitutto l’annullamento della svendita del patrimonio pubblico.

Qualcosa di impensabile, di inconcepibile, avremmo detto solo dieci giorni fa.

Ora bisognerà vedere se la piazza reggerà con il tempo e soprattutto se nella protesta spontanea non si innesteranno forze organizzate di destra o nazionaliste che di certo non mancano, né tra i serbi, né tra i croati né tra i musulmani. Abbiamo già visto all’opera tendenze simili in altri paesi dei Balcani o dell’Europa orientale più in generale, e non è escluso che qualche fondazione o lobby fedele a Bruxelles o a Washington non investa risorse ed energie nel tentativo di orientare il malessere sociale a proprio favore.

Per ora le manifestazioni continuano. Ieri la gente è di nuovo scesa in piazza a Sarajevo e a Bihac, e una manifestazione di solidarietà con la lotta dei lavoratori bosniaci è stata organizzata oggi pomeriggio nel centro di Belgrado. Intanto sabato il premier cantonale di Sarajevo, Suad Zeljkovic, si è dimesso e un gesto simile potrebbero farlo i governi degli altri territori in cui è divisa la Bosnia Erzegovina, mentre il bilancio degli scontri finora è di circa 300 feriti e decine di arrestati, di cui ora i dimostranti chiedono l’immediata liberazione.

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