Le ragazze – per lo più ucraine – che continuano a girare il mondo per contestare religioni, uomini politici (in genere quelli invisi alle cancellerie occidentali) e simboli del potere non fanno più notizia come qualche tempo fa. Le loro provocatorie performance a seno nudo hanno affascinato e fomentato i media di tutto il mondo per anni, da quando nel 2008 il gruppo è stato fondato in Ucraina e si è allargato a macchia d’olio in molti altri paesi. Ma ora, dopo qualche anno di presenza fissa sulla stampa le provocazioni delle Femen hanno cominciato a inflazionarsi, e alcune delle rivelazioni sulla genesi, gli obiettivi e il carattere del ‘movimento’ hanno spento un po’ di entusiasmi.
Già qualche tempo fa Daryna Chyzh, giornalista televisiva ucraina del canale 1+1, era riuscita ad infiltrarsi all’interno del gruppo a Kiev e aveva messo a nudo – diciamo così – degli elementi che sbugiardavano la versione eroica e femminista, per quanto eterodossa ed eretica, che i media internazionali avevano dato delle “guerriere per i diritti umani in topless”. Dopo aver partecipato ad una sorta di “provino” ed essersi fatta fotografare a seno nudo, la giornalista si sarebbe trasferita a Parigi per seguire un training su come mostrarsi dinanzi alle telecamere e come denudarsi in maniera eclatante, in modo da attirare l’attenzione di fotografi e cameraman. Daryna aveva poi partecipato ad una manifestazione anti-islamica a seno scoperto in un distretto musulmano della città. La Chyzh rivelò che le “attiviste” oltre ad essere completamente spesate – viaggio in aereo, taxi, vitto e alloggio, nonché trucco e cosmesi – percepiscono anche un compenso mensile di 1000 €, mentre le dipendenti dei vari uffici di coordinamento in patria arriverebbero a prendere anche 2500 € al mese, cinque volte lo stipendio medio. Da dove arrivano tutti questi soldi? Da importanti imprenditori e fondazioni statunitensi ed europee, aveva azzardato la giornalista, in particolare da ambienti ostili alla Russia e al governo di Kiev.
La reporter ucraina non fu l’unica a infiltrarsi nelle Femen. Lo fece anche Iseul Turan, una studentessa di Legge a Parigi. «Sono piene di stereotipi e non vogliono scostarsi dalle loro idee. Sono ignoranti: non conoscono e non vogliono conoscere. Se cerchi un confronto, lo rifiutano. Così, anziché portare le donne nel dibattito pubblico, chiudono il dialogo. Non c’è nessuna riflessione fra loro, solo addestramento» raccontò ai media d’oltralpe. «Si corre, si urlano slogan e si imparano i gesti da riproporre durante le azioni. Per il resto le Femen sono innamorate della loro immagine, perciò si preoccupano tanto dei media. Sono una vera e propria agenzia di comunicazione» denunciò l’attivista del gruppo femminista Antigones.
L’immagine delle Femen subì un nuovo duro colpo quando uno dei loro più importanti acquisti all’estero, l’attivista tunisina Amina Sboui, annunciò alcuni mesi fa di aver abbandonato le Femen, accusandole di ‘islamofobia’. “Non voglio – ha detto in un’intervista sull’edizione maghrebina dell’Huffington Post – che il mio nome sia associato con un’organizzazione islamofobica”. “Non mi è piaciuta l’azione intrapresa dalle ragazze davanti all’Ambasciata di Parigi gridando ‘Amina Akbar, Femen Akbar”, ha aggiunto allundendo alla parodia delle ragazze dell’invocazione ‘Allah akbar’, ‘Dio è il più grande’. “Questo offende molti musulmani e molti miei amici. Bisogna rispettare ogni religione” ha aggiunto la ragazza finita più volte in carcere per le sue performance in Tunisia. Anche Amina Sboui non ha mancato di mettere in dubbio la provenienza dei lauti finanziamenti che inondano il gruppo e permettono alle sue attiviste di girare il mondo, entrando senza problemi in paesi che richiedono il visto alle cittadine ‘extracomunitarie’ e scampando sempre il carcere. “Non so da chi è finanziato il movimento delle Femen – ha detto Amina – l’ho chiesto varie volte ma non ho avuto risposta. E se fosse finanziato da Israele?”.
Di fronte alle critiche piovute contro di loro anche dall’interno del movimento femminista internazionale le Femen hanno sempre giustificato il loro modo di protestare: mostrare il loro corpo nudo con degli slogan scritti sulla pelle servirebbe a ritorcere contro i media il consueto disinteresse per le proteste pacifiche e tradizionali e approfittare del voyeurismo dei mezzi di informazione per far rimbalzare il proprio messaggio e le proprie rivendicazioni in tutto il mondo.
Ma poi si è venuto a sapere che il gruppo ha – o aveva, perché ora dicono di averlo cacciato – un vero e proprio manager, un personaggio che con il femminismo, i diritti umani e la genuina protesta contro il sistema ha poco a che fare. Ci ha pensato lui stesso, l’incauto Viktor Svyatski, a sbugiardare le sue Femen. Il ruolo dell’oscuro personaggio è venuto alla luce a livello internazionale grazie al documentario ‘L’Ucraina non è un bordello’, girato da Kitty Green, all’epoca 28enne, australiana di madre ucraina. Scriveva Valeria Fraschetti su Repubblica: “pian piano si è guadagnata la fiducia delle attiviste condividendo con cinque di loro, per un anno, un appartamento in uno dei fatiscenti palazzoni sovietici che ingrigiscono Kiev. (…) le Femen scelgono di mostrare il corpo per far sentire la propria voce. La nudità come strumento pacifico e mediatico: di attiviste, tra l’altro, selezionate con criteri estetici. Una strategia di marketing tanto riuscita da far piovere sul movimento donazioni da fan di mezzo mondo. Da uomini soprattutto, “perché sono loro a possedere il denaro su questo pianeta”. (…) Man mano che la telecamera della Green diventa una presenza abituale per le Femen, questa rivela l’ombra ingombrante di un uomo nelle loro vite. All’inizio, Viktor è solo una voce che impartisce ordini via Skype. Come alla vigilia della protesta contro la Uefa (…): “Dite ad Alexandra che non avrà i suoi 200 dollari se non farà bene la performance”. Finché è lui stesso, Viktor Svyatskiy, l’ideologo delle Femen, il padre (non la madre!) del femminismo pop dell’Est ad ammettere di fronte alla telecamera: “Gli uomini fanno di tutto per il sesso: io ho creato il gruppo per avere delle donne”. E s’inalbera: “Spero che grazie al mio comportamento patriarcale loro rifiutino quel sistema che rappresento”.
Poi, recentemente, è una ex Femen francese a raccontare i poco edificanti metodi di quella che definisce una setta dalla quale è scappata. Scrive Paolo Levi su ‘La Stampa’:
“È la prima a denunciare dall’interno i metodi usati dalle Femen per «indottrinare» e «asservire» i propri membri. Derive settarie, discriminazioni, lavaggio del cervello: sarebbe questo il volto nascosto del movimento femminista, secondo la testimonianza di Alice, trentenne parigina, uscita dal «clan» dopo un anno e mezzo di attivismo, decisa a scrivere un libro sulla sua esperienza. La donna, che partecipò all’irruzione a seno nudo nella cattedrale di Notre-Dame, quando le Femen esultarono per le dimissioni di Papa Benedetto XVI, non rinnega la sua prova ma si dice «delusa» e «disillusa». E parte alla carica contro metodi di indottrinamento degni di una setta. Le Femen, racconta la donna al Figaro, «plasmano il tuo spirito», «non esisti più in quanto individuo», ma solo «attraverso il gruppo». «Femen – avverte ancora Alice, che ha preferito proteggere il suo anonimato con un nome fittizio – trasforma il tuo corpo e il tuo spirito. Vieni assorbito naturalmente, senza violenza, verso una totale abnegazione, tralasciando ogni spirito critico». Da recluta, devi «ripetere sempre i principi fondamentali del movimento, interiorizzarli in modo che possano essere ricordati meccanicamente come una lezione imparata a memoria». E chi «parla troppo» viene indotto ad allontanarsi, lascia intendere Alice. (…) Un paradosso, commenta il suo agente letterario, Omri Ezrati, secondo cui le Femen «non rispettano le donne, le componenti del gruppo vengono trattate dai loro capi come carne da macello».
C’è chi afferma, invece, che quella della Femen sia un’operazione tutta politica dell’estrema destra ucraina per accreditarsi presso l’opinione pubblica internazionale. Qui sotto una foto di alcune Femen e del loro (ex?) mentore Viktor Svyatskiy mentre partecipano ad un raduno dell’organizzazione fascista ucraina Una-Unso (in alto, invece, le Femen posano per i fotografi sulla passerella del festival di Venezia nel 2013…).
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